Comunque non andarle in soccorso. Un altro caso dimostra che la ricerca della stabilità a tutti i costi porta a pericoli crescenti
La Corea del Nord è uno Stato fallito in tutto e per tutto. Un libro non più recente ma ancora attuale di Nicholas Eberstadt, The End of North Korea, fornisce le misure di un fallimento duplice, in entrambi gli obiettivi che lo stesso regime nordcoreano aveva posto alla base della propria legittimazione a esistere: l'unificazione dell'intera penisola sotto un regime indipendente e socialista e un'economia socialista in grado di assicurare potenza allo Stato e moderata prosperità al suo popolo. Il regime si è invece dimostrato incapace di assolvere i compiti che ne giustificavano l'esistenza.
Della recente dichiarazione ufficiale diffusa dal regime di Pyongyang l'aspetto più significativo non è l'ammissione di possedere testate nucleari pronte all'uso, ma il ritiro dai negoziati a sei e la nuova richiesta di negoziati bilaterali con gli Stati Uniti. Il possesso di ordigni atomici, lo sviluppo e il testing di missili a lunga gittata, sono stati non dichiarati, ma ostentati molti mesi fa.
Il «Nord vuole negoziare, ma vuole farlo come potenza nucleare», commentano al Sud. Ma data la natura del regime, non è ancora chiaro («Non lo so», rispondeva lo stesso Rumsfeld) quale sia la reale "capacità" nucleare (la sola cosa che importa) della Corea del Nord. Se sia un "bluff", una "corsa" al nucleare, e quindi gli occorre prendere tempo, o, appunto, una "capacità" effettiva. Di certo, «l'atomica allunga la vita dei regimi, Kim Jong Il lo sa e lo dice. L'Iran quasi» è l'analisi del quotidiano Il Foglio.
Quella nordcoreana può essere infatti definita una «diplomazia estorsiva». La minaccia nucleare come una pistola sul tavolo delle trattative per ottenere dai suoi vicini o dal grande e ricco nemico lontano finanziamenti e benefici necessari alla sopravvivenza del regime. A Pyongyang hanno capito che minacciando la sicurezza internazionale si ottengono prestiti e aiuti che possono mantenere in vita un apparato statale in totale fallimento economico e ideologico. Washington rappresenta in questa chiave la controparte più importante e il ricatto nucleare serve a ottenere una forma di negoziati diretta. Attraverso gli Stati Uniti, per fare un solo esempio, la Corea del Nord potrebbe accedere a sussidi, prestiti e concessioni finanziarie da parte della Banca MOndiale, della Banca per lo sviluppo asiatico o di altre istituzioni per lo sviluppo. Già nel '94 ottenne dagli Stati Uniti milioni di tonnellate di petrolio in cambio della sospensione dei programmi nucleari, ma Pyongyang si accorse che la minaccia funzionava e che si potevano ottenere ulteriori concessioni divenendo potenza nucleare.
Aiuti e finanziamenti possono tuttavia rallentare, ma non invertire la tendenza al declino, al massimo prolungando l'agonia del Paese. La concezione prevalsa fino a oggi, quella di una penisola coreana divisa in due Stati, ha per forza di cose portato la comunità internazionale ad andare in soccorso di Pyongyang avendo per obiettivo la "stabilità" di quella cornice regionale, e quindi la sopravvivenza dello statualità nordcoreana. Superando quella concezione, il fallimento di uno dei due Stati sarebbe reso meno drammatico e più accettabile, prospettando così la riunificazione delle due Coree in un unico Stato libero, democratico, con un economia di mercato.
Occorre quindi, obbligare Pyongyang ai negoziati a sei, concedere la non-aggressione in cambio della fine dei programmi nucleari, assestare la spallata finale. Bisogna anche in questo caso fare i conti con una "stabilità" il cui mantenimento presenta pericoli crescenti e ancora una volta, come in Medio Oriente, quella "stabilità" va sacrificata. Chi può farlo meglio del presidente americano Bush?
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