Omar Karami, il capo del governo libanese filo-siriano, si è dimesso. Durante il dibattito in Parlamento sull'assassinio, due settimane fa, dell'ex premier Hariri, migliaia di manifestanti hanno occupato la piazza antistante chiedendo libertà, sovranità e indipendenza dalla Siria, che occupa il Libano con migliaia di soldati e con la mano pesante dei servizi segreti, i «Syrial Killer». Il commento di Damasco alle dimissioni (definite «un affare interno») è già una vittoria per i dimostranti. «Il governo avrebbe superato il voto di fiducia, non era quello che temevano - spiega Jihad al Khazen, professore di Scienze politiche all'American University di Beirut - ma hanno perso la fiducia nelle strade, quello è l'imbarazzo. Hanno perso la legittimità e la credibilità». Le prospettive che si aprono ora, con la Siria che sembra non reagire, sono estremamente favorevoli. Un nuovo governo che goda della fiducia delle opposizioni guiderà il Paese alle urne, e questo fa sperare che saranno elezioni democratiche dalle quali potrà scaturire un Libano libero, sovrano e democratico (ai confini con Israele!).
Nel frattempo, gli Stati Uniti non perderanno l'occasione per esigere dalla Siria un ritiro completo. Questo si aspetta la Casa Bianca: un'occasione perché i libanesi si dotino di un nuovo governo che rispecchi le diversità nel Paese e organizzi elezioni «libere ed eque» e prive «di qualsiasi ingerenza straniera». La pressione di Washington su Damasco in questi giorni è fortissima, perché cessi di appoggiare il terrorismo internazionale e di fomentare, dal suo territorio, quello in Iraq, e perché ritiri le proprie truppe dal Libano, in esecuzione della risoluzione 1559 del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Nel frattempo, Bush dall'ufficio ovale si gode l'"effetto domino" innescato in Medio Oriente dalla guerra contro il terrorismo. Le tessere non fanno che cadere: dopo le elezioni in Afghanistan, in Palestina e in Iraq, ora Libano ed Egitto preparano il loro futuro democratico.
L'evidenza delle armi nonviolente. Ma la vera sorpresa dei fatti di ieri è che all'occidente è bastato sostenere politicamente il popolo libanese per ottenere un risultato insperato. Ciò che può un popolo che reclama la propria libertà non possono anni di appeasement e guerre. Sempre tenendo bene a mente che senza la guerra a Saddam tutto questo non sarebbe mai stato possibile e che probabilmente quella guerra ne eviterà un'altra, contro il regime siriano di Assad. Come non ricordare la fede incrollabile espressa dal presidente Bush, solo poche settimane fa, nella forza dell'universale desiderio di libertà di tutti i popoli? Come non accorgersi che la politica estera di questa amministrazione è antimperialista e anticolonialista? Ancora più sorprendente è il fatto che finora la «rivoluzione dei cedri» abbia assunto i connotati della nonviolenza, sebbene sia difficile ipotizzare un'influenza diretta del "modello" georgiano-ucraino.
Ai soldati che vigilavano la piazza di fronte al Parlamento, e che non hanno impedito l'ingresso ai manifestanti, sono stati donati fasci di rose. I leader dell'opposizione hanno fatto appello alla mobilitazione perpetua. Con al collo una sciarpa rossa e bianca (i colori nazionali già divenuti simbolo della rivoluzione) i libanesi cantavano, gridavano, fissavano le tende per la notte. Elias Atallah, dirigente di "Sinistra democratica", ha annunciato: «Resteremo qui fino al ritiro completo e immediato dell'esercito e dei servizi segreati siriani». «E' solo il primo passo verso la libertà, la sovranità e l'indipendenza», si è sgolato dal palco il deputato di opposizione Ahmed Fat-Fat, membro del gruppo parlamentare dello scomparso Hariri: «I prossimi tre mesi saranno cruciali, dovete essere molto vigilanti, gli agenti dei servizi segreti sono già tra di voi in questa piazza, che non dovrà rimanere mai vuota».
I pre-commenti illustri. In Medio Oriente oggi, secondo quanto scriveva domenica Thomas Friedman sul New York Times, «stiamo assistendo a tre momenti di svolta». Le elezioni irachene hanno trasformato quella storia nella storia di un popolo che lotta per un futuro democratico, con l'aiuto americano, contro i fascisti baathisti e i jihadisti. L'attentato per mano siriana che a Beirut ha ucciso l'ex primo ministro Rafik Hariri ha trasformato quella del Libano nella storia di un'ampia maggioranza di libanesi, cristiani, musulmani, drusi, che grida forte alla Siria e ai suoi fantocci "go home!". La storia per i palestinesi non è più una questione di resistenza all'occupazione, ma di riuscire a costruire un proprio Stato. Bisogna però lavorare, e sperare, perché questi tre «punti di svolta» diventino «irreversibili». Sarebbe «incredibile».
L'ormai ex premier Ayad Allawi scrive sul Wall Street Journal che ora ciò di cui ha bisogno l'Iraq è l'aiuto dei media affinché il dibattito sulla nuova Costituzione sia il più pubblico possibile, in Iraq e nell'intero mondo arabo.
«The whole of Iraqi society needs to be engaged in both the debate and the reconciliation which it should bring. This places a big responsibility on the new, free media in Iraq. But the pan-Arab media has a big role to play as well - something it already appeared to relish during the election campaign. Arabic satellite TV stations such as Al Arabiya were obviously excited and inspired by the sight of real democracy in the heart of the Arab world. By reporting fairly on the elections, they in turn inspired their Arab audience across the Middle East and beyond. Iraqis were proud to see their country dominating the region's airwaves, and indeed the media of the world, for reasons not of war or conflict, but for the fascinating sight of real democracy at work. Leggi tuttoSul neocon Weekly Standard è intervenuto il direttore-editore Bill Kristol. Mentre molti opinionisti, anche in Europa e a New York, si stanno chiedendo se forse Bush e i neocon non abbiano ragione, non è questo il momento di fermarsi a incassare, ma di andare avanti. E ricorda le parole del leader dell'opposizione libanese Walid Jumblatt, non certo filoamericano, al Washington Post:
«It's strange for me to say it, but this process of change has started because of the American invasion of Iraq. I was cynical about Iraq. But when I saw the Iraqi people voting three weeks ago, 8 million of them, it was the start of a new Arab world... The Syrian people, the Egyptian people, all say that something is changing. The Berlin Wall has fallen. We can see it».
«Se Bush sarà capace di riuscire in Iraq, cacciare la Siria dal Libano, minare il regime dei mullah in Iran, allora gli storici diranno: Bush aveva voluto combattere - e Bush ha avuto ragione... Nella nuova era nella quale viviamo, il 30 gennaio scorso potrebbe essere un momento chiave - forse il momento chiave finora - nel giustificare la dottrina Bush come la giusta risposta all'11 settembre. E ora c'è la prospettiva di un progresso ulteriore e in accelerazione».L'editoriale di Jackson Diehl sul Washington Post è anche emblematico:
«Come migliaia di arabi hanno manifestato per la libertà e la democrazia a Beirut e al Cairo la scorsa settimana, e i dittatori disperati di Siria ed Egitto si sono dimenati sotto le pressioni interne e internazionali, è difficile non credere che quella trasformazione regionale, che l'amministrazione Bush sperava che si avviasse dall'invasione dell'Iraq, sia cominciata».Da 40 o 50 anni questi due regimi, Siria ed Egitto, vivevano indisturbati, mentre ora, dopo le elezioni irachene tremano e non possono neanche osare la via della repressione, che avrebbe il solo risultato di accelerare la loro caduta. Come se lo spiegano quanti hanno gridato alla catastrofe imminente per la guerra in Iraq o considerato folle l'idea di democratizzare il Medio Oriente? Quei regimi «potrebbero ancora sopravvivere, ma chiaramente, gli autocrati arabi non guardano al sogno di Bush del domino democratico come un'illusione».
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