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Wednesday, February 16, 2005

«Il mondo di Kyoto non esiste»

Imprescindibile «non ratifica il trattato di Kyoto e continuerà ad avvelenare la bloggosfera...». Il suo post contro il Trattato di Kyoto «asfissia tutti quelli che negli ultimi due giorni hanno inquinato con informazioni scorrette l'ecologia compromessa del mondo dell'informazione». Io quel post lo sottoscrivo, mi rappresenta.
«E' chiaro che la vicenda di Kyoto ha poco a che vedere con la salvaguardia dell'ambiente. E' un trattato figlio di un ecologismo sinistro che ha sempre avuto più a cuore l'attacco al liberalismo ed al capitalismo americano, piuttosto che la salute dei nostri polmoni.
(...)
Sono una categoria particolare di ecologisti che ha paura dei tubi di scappamento delle Buick americane, ma non dei sottomarini nucleari che la Russia affonda nel mare di Barents, avvelenando i nostri bastoncini Findus per i prossimi due mila anni.
(...)
E' l'ecologismo retrogrado ed antitecnologico incapace di capire che solo più tecnologia, più possibilità di consumo e di azione, rendono possibile l'ottimizzazione nell'uso delle risorse. E' l'ecologismo allarmista, che parla con un linguaggio marxista colorato di verde e non dice che nessuna automobile FIAT potrebbe circolare negli Stati Uniti per i limiti sulle emissioni previsti dalla legislazione americana.
(...)
Questo blog crede in un'altra ecologia, l'ecologia del progresso e del futuro, e ritiene che quella di Kyoto sia davvero una brutta storia. Perché butta anche l'ecologia fuori dalla Storia. E' un buon motivo, in fondo, per non ratificare».

1 comment:

Anonymous said...

Senza paura
l’ambientalismo oltre Cassandra
XI Congresso nazionale degli Amici della Terra
Milano, aprile 2004






INTRODUZIONE AL DIBATTITO
MARIO SIGNORINO*

Si erano presentati, tanti anni fa, come giovani panda contro le vecchie volpi della politica; e ora sono ridotti, in tanti, a suonare il piffero per tutti gli estremismi. E quasi nessuno che si dissoci, perché la cosa è trendy, perché il nemico è comune, ha le stelle e strisce e non firma Kyoto; perché infine quasi tutti praticano l’estremismo verbale, quello dell’apocalisse ecologica.

È invecchiato così il movimento dell’ambientalismo politico, 30 anni dietro le spalle, un’identità perduta e, davanti, incerti scenari di sopravvivenza. Ha conosciuto una rapida ascesa e poi il declino; ha conseguito importanti successi, ma non è riuscito a portare l’ambiente nel vivo del dibattito politico. Forse anche per questo, per coprire una difficoltà che non riesce a gestire, ha cominciato a spararle grosse, trasformando la questione ambientale in un reality show a tinte fosche, in cui ogni problema diventa una catastrofe, i rischi sono sistematicamente esagerati, gli aspetti positivi ignorati, i termini reali dei problemi stravolti.

Eppure, neanche in un simile show l’ambiente ha un posto centrale, essendo diventato piuttosto la materia, il pretesto di una predicazione ideologica di tipo fondamentalista.

Ecco dunque un primo paradosso: la “controproduttività” (direbbe così Illich) del movimento ambientalista. Nella stragrande maggioranza delle sue componenti, questo movimento ha preso una strada senza uscita, non aiuta a migliorare l’ambiente ma rappresenta ormai un problema aggiuntivo.
Le sue iniziative, facendo leva sulla paura e sull’egoismo della gente, sono di ostacolo alla soluzione dei problemi ambientali.


*Presidente del comitato scientifico dell’ISAT/Istituto per le scelte ambientali e tecnologiche. Fondatore nel 1977 della sezione italiana degli Amici della Terra, è stato senatore radicale, presidente dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’ambiente, membro della Commissione tecnico-scientifica del ministero dell’ambiente.




DA STOCCOLMA A PORTO ALEGRE
Quando in intere regioni, diciamo in Campania, si ammassano i rifiuti nelle strade e nelle discariche abusive e gli ambientalisti si battono contro gli inceneritori, producono un danno ambientale e un ancor più grave tracollo civile.
Quando s’intruppano con sindaci e parroci per impedire la localizzazione di un deposito nazionale delle scorie radioattive, ostacolano la messa in sicurezza di tali rifiuti e quindi espongono l’ambiente a rischi evitabili.
E quando dicono: “mandiamoli nell’est europeo” (come Realacci durante le manifestazioni di Scansano), dimostrano quanto misera sia la loro etica politica.
Quando si battono contro qualsiasi tipo d’impianto industriale, lavorano contro l’ambiente; “non nel mio cortile” significa rifiutare i costi, sia dello sviluppo, sia della tutela ambientale.
Quando fanno la guerra a tutte le grandi infrastrutture, comprese quelle ferroviarie (“abbiamo posto un no politico”, diceva anni fa la portavoce dei verdi), impediscono di migliorare l’attuale sistema di mobilità e danneggiano quindi l’ambiente e l’economia.
Quando, dopo aver perso questa guerra, non s’impegnano per ottenere una migliore gestione ambientale nella realizzazione delle opere, si dimostrano politicamente insignificanti e cinici.
Quando inventano pericoli inesistenti a detta degli esperti, come ad esempio l’elettrosmog, o spaventano la gente con i presunti e mai dimostrati rischi sanitari degli OGM, inducono sprechi di risorse economiche e rallentano l’innovazione.
Quando ogni giorno annunciano una catastrofe imminente, tolgono credibilità anche alle denunce serie e disarmano la società di fronte ai rischi effettivi che possono colpirla.
In sintesi: il movimento ha dismesso il suo core business, vale a dire la sua responsabilità verso l’ambiente, per coltivare una facile popolarità, per sfuggire alle fatiche delle riforme, per puntare a una predicazione piagnona e apocalittica che ne ha fatto la mosca cocchiera dell’estremismo occidentale. Così facendo, ha ripudiato le ragioni della sua stessa crescita e la sua legittimazione civile.
Da Stoccolma, attraverso Rio, è finito a Seattle, Porto Alegre, Genova. Sono i suoi capilinea: l’ambientalismo politico ha chiuso bottega come forza autonoma per annullarsi nel calderone no-global.
Ma non sembra preoccuparsene: se la forza politica e il consenso elettorale calano, soprattutto in Italia, ci sono modi diversi di contare, nuove posizioni di rendita da coltivare. Oggi si fa marketing con il catastrofismo e la paura. La protesta paga facile, dà visibilità, procura posti e prebende. Se uno strilla contro qualsiasi cosa, conta eccome. Magari le imprese pensano che mettendo mano al portafogli evitano un mucchio di fastidi. Possono pensarlo pure i partiti e i governi. Basta gridare più forte degli altri e avere garanzie di visibilità; ma questa, per l’ambientalismo di rendita, è assicurata: i media sono complici naturali di tutti gli allarmismi.

Un messaggio da setta
Sono un ambientalista, mi occupo di problemi ambientali da poco meno di 30 anni. Il processo che ho descritto ha cancellato le posizioni come le mie, che nel linguaggio corrente si definirebbero riformiste. Non avendo più grilli ideologici per la testa e badando al merito dei problemi, mi ritrovo a operare in un ambito ostile, popolato di individui con i quali non ho alcuna affinità; giudico anzi detestabili il loro modo di presentare i problemi ambientali, a seconda dei casi melenso o apocalittico, e le loro idee generali. Non riconosco in loro nessuna delle ragioni che mi hanno spinto a occuparmi di ambiente.
Su quasi tutte le questioni controverse, stanno dalla parte peggiore.
Sono dirigisti in economia, fautori di divieti, lacci e laccioli opprimenti, ostili alle innovazioni tecnologiche. In politica, sono contro le democrazie occidentali che accusano di distruggere il pianeta, sono contro Israele e chiamano “resistenza” i kamikaze palestinesi. Nello scontro generale tra innovazione e conservazione, stanno in prima linea, ma quasi sempre dalla parte dei conservatori.
Non erano queste le persone e le idee che ho conosciuto agli inizi, in Europa, negli anni ’70; o almeno non erano quelle che contavano. Allora le consideravo zavorra; e invece hanno stravinto e ora, agli occhi della gente, ci rappresentano tutti, parlano a nome di tutti, influenzano i media. Ma che vittoria è questa, se è vero che in politica non contano nulla e si segnalano solo per la loro capacità di spacciare conformismo e pregiudizi?
Perché il punto è questo: il messaggio ambientalista che è prevalso e circola ora in tutto il mondo è un messaggio da setta. Interpreta lo sviluppo in termini criminali, propaga la teoria del peggioramento continuo delle condizioni ambientali e annuncia catastrofi. È in questo modo che oggi viene presentata la questione ambientale, è così che vengono descritti lo stato del pianeta e il nostro destino. Pochi si accorgono che questo messaggio è il frutto di manipolazioni brutali della realtà e che in esso, oltretutto, l’ambiente occupa un posto piccolo piccolo.
Quello di oggi è l’approdo finale di un movimento politico e culturale che nella sua breve storia ha estirpato al suo interno ogni diversità e ripudiato le due opportunità più positive che gli si presentavano: sul piano politico, la scelta riformista, cioè l’impegno per migliorare le politiche di governo, chiave di volta della tutela ambientale; su quello culturale, la critica, non allo sviluppo industriale, ma ai condizionamenti che esso esercita sulla qualità della vita.
Nell’intreccio di queste due opzioni consisteva la vera novità dell’ambientalismo delle origini. Entrambe sono state messe ai margini del movimento, a seguito dell’affermazione di un’egemonia ideologica di sinistra. Noto questo per dovere di cronaca, non perché lo schema destra/sinistra abbia qualche senso in riferimento a questi problemi.

Una questione riformista spacciata per rivoluzionaria.
Si può cogliere, in questa vicenda, un’operazione di illusionismo ideologico: una questione tipicamente riformista, quale quella della buona gestione dell’ambiente, è stata mascherata da obiettivo rivoluzionario.
Una questione senza colore politico è stata spacciata per una battaglia di sinistra. Un nuovo filone di riforme, reso possibile dallo sviluppo economico, è stato interpretato come la prova capitale della natura distruttiva del capitalismo.
Date un’occhiata alla cronaca o anche solo alla cronologia dei fatti.
Dicono due cose: che la questione ambientale è un tipico prodotto dell’occidente affluente, quindi dello sviluppo economico e della democrazia; e che non esiste il Nemico, almeno non nelle istituzioni, che sono caso mai “concorrenti”. Al suo nascere, infatti, il movimento ambientalista non ha posto una questione su cui le istituzioni si rifiutavano di provvedere. Al contrario, si è sviluppato dopo l’avvio di un processo istituzionale che ha introdotto gradualmente in tutti i paesi democratici i temi dell’ambiente nelle politiche di governo.
Per consenso degli analisti, infatti, la storia politica della questione ambientale è iniziata con i provvedimenti adottati dagli Stati Uniti, presidente Nixon, nel 1969-70: il National Environmental Policy Act e la costituzione della Environmental Protection Agency (EPA). Si attivavano poi le organizzazioni internazionali: l’ONU, l’OCSE, il Consiglio d’Europa. Nel 1972 si teneva a Stoccolma la conferenza dell’ONU “sull’ambiente umano”. La CEE si muoveva con qualche ritardo, ma già con la dichiarazione di Parigi del 1972 inseriva l’ambiente tra le cosiddette materie implicite, perseguibili cioè anche in assenza di un’esplicita previsione nel trattato istitutivo. Nel 1973 la Commissione europea, presieduta dall’olandese Sicco Mansholt, estimatore delle tesi del Club di Roma, varava il primo piano d’azione per la protezione dell’ambiente. Negli anni successivi, sotto la spinta dei paesi del nord Europa – soprattutto Germania, Olanda e Danimarca - la Commissione si impegnava a fondo per colmare il gap con gli Stati Uniti.
Nell’arco di un ventennio, ministeri e agenzie tecniche venivano istituiti in tutto il mondo democratico, prima nell’Europa del nord, poi in Giappone, fino a coinvolgere anche i paesi mediterranei. Straordinario lo sviluppo del negoziato internazionale sull’ambiente che portava alla formazione di una vera e propria eco-diplomazia, la stessa che è stata poi protagonista dell’ambizioso progetto di Rio de Janeiro. L’Italia si è mossa tra gli ultimi, con almeno un quindicennio di ritardo; ed è un ritardo che ha pesato su tutta l’evoluzione successiva.
È solo intorno alla metà degli anni ’70 che il movimento dell’ambientalismo politico ha cominciato a diffondersi e ad affermarsi in maniera significativa. L’Europa è stata la sua culla d’elezione. Nella seconda metà degli anni ’80 si affermavano gruppi ambientalisti anche all’interno dell’URSS in declino; mentre permangono ancor oggi deboli le presenze nel Terzo mondo, con l’eccezione dell’America Latina.
C’è un episodio che mostra come, fin dagli inizi, questo movimento avesse una propensione al fraintendimento della realtà. Nel suo libro cult “Il cerchio da chiudere” (1971), Barry Commoner definiva “un evento di dimensione storica”, non i provvedimenti di Nixon, ma le proteste della “Settimana della Terra” dell’aprile 1970 contro l’inquinamento, il militarismo e l’amministrazione Nixon, proprio quella che per la prima volta aveva inserito l’ambiente nelle politiche di governo!
Non è invece effetto di una mistificazione il fatto curioso che in Europa il movimento abbia conosciuto il suo momento di maggior successo proprio quando le istituzioni erano più impegnate, con poche eccezioni, nel processo di costruzione delle politiche ambientali. Si può ipotizzare infatti che, nella fase iniziale, si sia realizzata una sorta di rincorsa tra le proteste della società civile e gli addetti ai lavori all’interno dell’amministrazione pubblica.


Il conflitto nelle istituzioni
Quella ambientale è una new entry tra le politiche di governo: una sorta di parente povera, agli inizi, ma assai aggressiva e conflittuale; certo molto più aggressiva della politica dei beni culturali, cenerentola di tutte le compagini di governo. Le sta stretta peraltro anche la qualifica di politica di settore; e si è molto discusso infatti se non si tratti piuttosto di problematiche trasversali a tutte le altre politiche di governo. Anche in Italia nel 1986 c’è stata una ripresa (presto svanita, per la verità) di tale discussione al momento d’istituire il ministero dell’ambiente.
Si tratta insomma di una politica che tende costantemente ad uscire dai propri confini per scontrarsi direttamente con la grande antagonista: la politica economica. Ciò è dovuto in parte all’oggetto stesso dei suoi interessi, che spesso richiede la composizione di interessi in contrasto; in parte a una propensione dei burocrati pubblici a usare strumentalmente tali caratteristiche per imporsi all’interno dell’amministrazione. In parte può dipendere dalla scelta istituzionale operata dai paesi europei, in difformità dal modello americano, quando si trattò di dare rappresentanza all’ambiente nelle compagini di governo: un ministero di gestione settoriale in materie in cui l’interscambio, se non il conflitto, con altri settori è assai vasto. In una simile architettura, un ministro dell’ambiente è condannato a oscillare tra il conflitto con i colleghi di governo e una gestione trasandata e ancillare, ma un politico ambizioso sarà sempre incentivato a cercare visibilità attraverso lo scontro duro con il suo stesso governo.
Concettualmente più semplice e gestibile appare la scelta operata negli USA, basata fin dall’inizio su due pilastri: a livello istituzionale, invece di un ministero politico, un organismo tecnico-scientifico (l’EPA) teoricamente in grado di rapportarsi con tutti i settori di governo; a livello operativo, uno strumento flessibile come la valutazione d’impatto ambientale (VIA), pensato per ottimizzare dal punto di vista ambientale gli investimenti pubblici e privati. Ciò ha permesso di evitare per molto tempo i problemi riscontrati in Europa, ma non ha evitato alla fine che anche in quel contesto si verificassero tensioni tra l’esecutivo e la rappresentanza, sia pure di livello tecnico, degli interessi ambientali.
Probabilmente il vero problema è che la politica ambientale ha dei confini oggettivi, che gli addetti ai lavori tentano continuamente di superare.
L’esperienza di questo trentennio ha dimostrato che la politica ambientale ha vinto in gran parte la sua competizione all’interno della burocrazia pubblica. Parente stretta all’origine della sanità pubblica, che ne ha segnato i primi passi, ha sottratto ambiti importanti alle altre politiche di settore, industriale, agricola, commerciale, sanitaria, dei lavori pubblici; cosa che ha spesso portato a una duplicazione o ridondanza di procedure burocratiche. È interessante notare che questa affermazione si è registrata nella concreta azione amministrativa, ma molto meno sul piano politico. Anche se, negli anni più recenti, essa ha palesato l’ambizione di condizionare tutte le altre politiche di governo, proponendosi come la sede più appropriata per una loro virtuosa integrazione.


La botte poteva dare altro vino?
Sta di fatto che neanche nei primissimi tempi il movimento ambientalista è stato un protagonista solitario, dovendo spartire la scena con i governi e con gli organismi internazionali, oltre che fare i conti con il processo di sviluppo economico e tecnologico. D’altronde, è l’azione combinata di questi tre attori che ha determinato, nel bene e nel male, la storia della questione ambientale in occidente. Sul piano sostanziale, ciò avrebbe dovuto conferire al movimento un ruolo di spinta, di sollecitazione, di denuncia ma anche di proposta.
E in effetti è questa la strada che esso ha imbroccato a livello internazionale, sviluppando un’azione sistematica di lobbying in tutte le sedi decisionali - Unione europea, ONU, Banca Mondiale, G8 – che è poi culminata nella straordinaria presenza alla Conferenza di Rio de Janeiro del 1992.
L’esito più appariscente di tutto questo è stata l’introduzione di regolamentazioni del mercato sempre più severe che, insieme con i progressi delle tecnologie, hanno indotto forti trasformazioni nei modi di produzione e migliorato le condizioni dell’ambiente. Insomma, esiti importanti ma tipicamente “riformisti”: difficile attribuirgli una valenza rivoluzionaria.
Altrettanto difficile inquadrare la questione ambientale e l’ambientalismo politico nello schema tradizionale destra-sinistra. Se mai, poteva essere avvertita una qualche parentela con correnti di pensiero di segno elitario; vale a dire, con quei pionieri del protezionismo naturalistico che avevano operato a cavallo tra ottocento e novecento: zoofili, botanici, naturalisti, escursionisti e amanti della montagna. La loro pressione portò all’istituzione dei primi parchi nazionali e alla nascita delle prime associazioni (riferimenti per l’Italia: i parchi nazionali del Gran Paradiso, dell’Abruzzo, del Circeo, dello Stelvio; tra le associazioni, CAI e Touring Club).
Dopo la seconda guerra mondiale, la ripresa di questa tradizione avvenne su tematiche assai poco proletarie, come l’urbanistica e la difesa dei beni artistici e naturali, sempre ad opera di élite (riferimenti italiani: Italia Nostra nasceva nel 1955, il WWF nel 1966). Per la verità, non c’è stato un legame diretto, nessun passaggio di testimone, tra queste esperienze e il sorgere del nuovo movimento (a parte la capacità del WWF di adattarsi alla nuova fase). Si ebbe piuttosto la politicizzazione e la diffusione di massa di istanze che in passato erano rimaste confinate in ambiti alto borghesi.
Sarebbe certo ardito considerare di sinistra le tesi del Club di Roma sui limiti allo sviluppo, che segnarono profondamente l’opinione ambientalista. Se poi ci si riferisce agli schieramenti politici di allora, è indubbio che le forze più lontane e recalcitranti rispetto alle istanze ambientali fossero le sinistre d’ispirazione marxista, legate alla cultura dell’industrialismo e alla difesa dei posti di lavoro minacciati dalle proteste verdi.
In conclusione, se si guarda ai dati oggettivi, non era affatto scontato che la questione ambientale assumesse connotati antagonistici, né che il movimento ambientalista cedesse alle tentazioni dell’estremismo. La botte poteva dare altro vino. Non siamo in presenza di un processo lineare di evoluzione: hanno certamente agito circostanze e fattori di distorsione che hanno forzato questo processo verso lo sbocco di oggi. E bisognerà pur capire perché il movimento ambientalista ha attratto i gruppi estremisti, perché ha rappresentato negli anni ’80 la carta di riserva per una generazione che aveva sostenuto o subìto il terrorismo.
C’è alla base indubbiamente un problema di cultura politica, di riflessi condizionati di tipo ideologico; e molto ha pesato la latitanza ottusa della cultura democratica di derivazione liberale. Il movimento ambientalista soffriva di un’intima ambivalenza, che poteva condurlo indifferentemente verso due destini diversi.
Alla fine, ha dato il peggio di sé.

CRONACHE DI UNA CADUTA
L’ambientalismo politico degli anni ’70 e ’80 era un movimento dalle cento facce, un caotico arcipelago. Si vedeva di tutto in quelle assemblee: alternativi, obiettori, nonviolenti e pacifisti di tutti i generi, terzomondisti, animalisti, femministe, macrobiotici e bioagricoltori, reduci del ‘68, cattolici di sinistra, regionalisti; importante la presenza di ricercatori scientifici che sperimentavano per la prima volta la militanza politica.
In Italia, in assenza della sinistra comunista – allora ostile in tutte le sue componenti, dal Pci al Pdup – la posizione “rivoluzionaria” era tenuta dagli autonomi, che vedevano nel nucleare civile la versione tecnologica del Palazzo d’inverno ed erano peraltro propensi a giudizi sprezzanti sull’“inganno ecologico”. Un contesto prevalentemente minoritario, dunque, ma caratterizzato dal conflitto permanente tra le posizioni “fondamentaliste” e quelle “realiste”.
La corrente riformista (o realista) aveva una forte presenza in Italia, in forza di una specificità nazionale: il partito radicale. Non ha riscontro in altri paesi europei il fatto che, nella prima fase di sviluppo del movimento, la leadership politica sia stata esercitata da un’associazione d’indirizzo riformista – gli Amici della Terra - che agiva in sinergia con il partito e con i parlamentari radicali. L’effetto di questa azione andò molto al di là della consistenza numerica dei radicali, perché ruppe il fronte dei partiti e indusse un cambiamento di rotta nel partito socialista e, in seguito, anche del Pci.
Si sapeva che questa diversità di presenze costituiva un problema, tuttavia la si accettava come una caratteristica strutturale del nuovo movimento. Nel campo delle idee la diversità era la norma, ma c’era spazio per tutti e ognuno poteva lavorare in autonomia.
Proprio per questo gli Amici della Terra, che avevano iniziato con una formazione politicamente eterogenea, dichiararono ben presto la loro appartenenza all’area radicale, fino a mettere a disposizione della campagna elettorale di quel partito nel 1979 il simbolo del sole che ride, di cui avevano il copyright per l’Italia. Anche il messianismo di certa predicazione ambientalista appariva in qualche modo giustificato dalla scoperta di un punto di vista del tutto trascurato dalla politica, oltre che dal primo contatto con problemi non sufficientemente conosciuti neanche da parte degli esperti. Insomma, poteva trattarsi di peccati di gioventù superabili con il tempo.
Ma il fatto che contava era un altro. Tutti i problemi apparivano secondari rispetto all’impressione di aria nuova che il primo impatto con le istanze ambientaliste produceva. Sembrava affacciarsi un sogno diverso da tutti quelli che in passato avevano mosso le generazioni della protesta, più creativo, leggero, liberatorio. In fin dei conti, anche l’eterogeneità del movimento poteva essere una ricchezza; non bisognava mica fare un partito autoritario. Né c’erano “rivoluzionari di professione”, gli alternativi erano anzi la negazione della tradizione culturale terzinternazionalista.
Gli ambientalisti che operavano allora in Europa e negli Stati Uniti costituivano una società dinamica e aperta; e mentre in Germania e in Italia si consumava la vicenda del terrorismo, sembrava di vivere lontano, in un’altra dimensione. Spiccavano tra gli altri i francesi: Brice Lalonde, Bernard Laponche, Alain Hervé. Se li ricorderà Emma Bonino, che ci aiutò in quei primi anni a mettere su la nostra baracca.
Più pedanti, qualcuno un po’ tetro, i militanti del centro-nord Europa (ma il “sole che ride” lo inventarono i danesi), con i tedeschi più forti di tutti - Rudolf Bahro, Petra Kelly, Joschka Fischer. C’erano i fricchettoni delle comuni, ma c’erano anche grandi professionisti, soprattutto USA: tecnici del nucleare, quelli veri, che avevano lavorato nell’industria e poi “tradito”, e gli esperti di energia con il più grande di tutti, Amory Lovins, che aveva iniziato i suoi studi sull’efficienza energetica e sulle “energie dolci”. E poi il guru di Cuernavaca, Ivan Illich; il vecchio scrittore Robert Jungk, quello dello “Stato atomico”, che incontrammo nel ’77 a Salisburgo e subito, alla radicale, gli mettemmo un cartello addosso e improvvisammo un sit-in.
Li portammo quasi tutti in Italia, per sostenere la nostra iniziativa.
Non c’erano – né ci si pensava – coordinamenti burocratici tra i vari gruppi, ma ci si aiutava da un paese all’altro con naturalezza. Sul piano del metodo, alle tipologie dure della militanza di sinistra o di destra, si andavano sostituendo modalità più soft derivate dalla tradizione anglosassone, a cominciare dalle tecniche del lobbying. In soffitta anche i simboli truci, pugni chiusi, fucili spezzati o altro, e al loro posto il simbolo leggero del sole che ride e parole d’ordine accattivanti: “A vous de choisir”, lo slogan di René Dumont alle elezioni del 1974 in Francia, “Le pouvoir de vivre” quello di Brice Lalonde nel 1981.
Niente più ideologie, ma problemi concreti, contenuti. Per queste cose, la forma partito non serviva a niente. Anzi, in tutta Europa, i più politici eravamo noi, che ci richiamavamo al partito radicale e usavamo i suoi metodi di lotta.

Un’isola con un gatto

Con l’involuzione del movimento, è venuto a mancare un approccio culturale innovativo, una visione come quella di Alain Hervé, il fondatore degli Amici della Terra francesi. Non si trattava di una visione reazionaria, anche se utilizzava con maggior convinzione di noi i moralisti – Illich, Schumacher, Fromm – che alimentavano il punto di vista ambientalista. I suoi paradossi, la sua riscoperta della natura, non erano ingenui ma esplicitavano una critica della condizione umana nella società industriale di massa, enfatizzavano i problemi etici che l’irruzione del benessere nella vita degli individui cominciava a portare in primo piano; ci inducevano a interrogarci sui valori tradizionali, “frettolosamente ripudiati come appartenenti al passato e quindi all’oscurantismo”.
Quello che Hervé inseguiva, sull’onda di una riflessione sulle relazioni tra il biologico e il tecnologico, tra l’uomo e i suoi strumenti (Illich li definiva “protesi”), era un allargamento della sfera di libertà personale, di libertà anche fisica, animale, per sgravare l’individuo dal peso delle necessità quotidiane. Attraverso il contatto con la natura, l’Homme Sauvage perseguiva la ricerca di un antidoto al modo di vita industriale, “il desiderio di vivere in maniera diversa e di scoprirne da soli il modo”. Contrastava le tecnologie e lo sviluppo acquisiti, per rimpadronirsi del tempo di vivere - “il tempo è lusso, lusso assoluto” – e coltivare i propri miraggi facendo “pratica della libertà”.
Hervé non diceva: torniamo alla miseria. Il richiamo ricorrente ai tropici, alle isole era un miraggio di libertà assoluta. “Non resusciteremo un passato agreste e selvaggio – dichiarava nel maggio 1979 intervenendo alla grande conferenza “Verdi di tutto il mondo” da noi organizzata all’università di Roma -. Non abbiamo né desiderio né possibilità di tornare a modi di vita arcaici”. Ed enunciava i tre punti principali del primo ambientalismo: promuovere “il progresso dei costumi, del saper vivere, della prospettiva di vivere meglio”; rivedere le grandi priorità dei governi; garantire trasparenza alle scelte economiche e tecnologiche. Polemico contro la destra e la sinistra, contro il produttivismo a oltranza e l’etica del lavoro e del sacrificio, il manifesto di Hervé era provocatorio e disarmante: “ho la pretesa di perorare un sistema sociale utopico, i cui strumenti vitali siano l’amaca, il ventaglio e il guanciale”. Era sogno, poesia, poco da spartire con la politica. Certo, i suoi paradossi non reggevano a un’analisi obiettiva; le esigenze della polemica lo spingevano a mettere in luce solo gli aspetti negativi dello sviluppo industriale. Ma i poeti non sono tenuti al rigore e alla completezza delle analisi. Almeno finché non passano alla politica, finché non si assumono la responsabilità di determinare le priorità del paese.
In fin dei conti, è a questa assunzione di responsabilità che ci si riferisce, quando si parla di maturazione di un movimento. Questo passaggio non è avvenuto, se non in poche occasioni; l’ambientalismo politico non è mai diventato adulto. Si è invece involuto tradendo via via la propria dichiarata diversità, fino a cadere in un vortice di estremismo politico.
Le ragioni sono diverse e non tutte interne al movimento. C’è innanzitutto, un difetto di cultura politica.
La cultura democratica di derivazione liberale era sostanzialmente estranea al movimento, non dava un punto di riferimento, un qualsivoglia canale di comunicazione, anche perché gli esponenti di quella cultura avevano subito rigettato le nuove problematiche. Devo dirlo, anche se mi rideranno dietro: gli ambientalisti non hanno in genere il senso delle istituzioni.
In secondo luogo le posizioni ambientaliste, anche nelle espressioni più razionali, erano aperte alle suggestioni estremiste, presentavano due facce in precario equilibrio, quella dei contenuti e quella dello schema ideologico – la critica generale al sistema - in cui venivano organizzati (e deformati). Il che configurava un’ambivalenza tra nuovo e vecchio, tra ragione e settarismo, due possibilità, due destini diversi o anche opposti.
Lo si può riscontrare anche nei singoli esponenti. L’Hervé che rifiutava i “soli dell’avvenire” e sognava “un’isola con un gatto”, che riaffermava il diritto dell’individuo “al libero arbitrio, al libero giudizio, alla libera decisione, il proprio diritto all’errore, il proprio diritto alla differenza, alla diversità”, era lo stesso che proclamava il teorema duro dell’estremismo: la società industriale è nata dallo sfruttamento dell’uomo, poi si è data a sfruttare la natura, è incapace di risolvere i problemi che affronta o provoca ed è dunque destinata al fallimento.
“La società industriale non è amabile. È questo il suo punto debole. Abbrutisce, aliena, uccide gli uomini individualmente e collettivamente. E gli uomini l’abbandoneranno. Ci si ricorderà di essa per le sue distese di rovine, che le generazioni future non andranno a visitare come le rovine greche. Se ne terranno anzi lontane, perché saranno radioattive”. La fede in questa profezia ha fatto perdere il contatto con la realtà, indebolendo le difese rispetto al contatto ravvicinato con l’estremismo.

L’illusione e l’ascesa
È stato questo contatto culturale, insieme con le continue risse ideologiche, a sconquassare il movimento, esasperando le carenze interne e incoraggiando il riversamento dei nuovi temi ambientali in vecchi schemi ideologici. Molto hanno pesato anche le regole grottesche, persecutorie ed ipocrite, imposte in tutte le occasioni assembleari dagli “alternativi”, che hanno conferito a tutta l’area un carattere irrimediabilmente settario.
Tuttavia, l’elemento più importante da considerare è quello della delusione rispetto alle eccessive aspettative iniziali.
Il movimento ambientalista – il complesso cioè delle ONG e dei partiti verdi – ha fatto breccia nell’arco di pochissimi anni, utilizzando come volano la controversia nucleare, ma beneficiando anche del processo di costruzione delle politiche ambientali in corso nelle istituzioni. Una serie di eventi eccezionali gli ha garantito una fragorosa presa di contatto con la politica.
Nel 1976 l’incidente alla ICMESA di Seveso. Nel 1978 l’Amoco-Cadiz. Nel 1979 il secondo shock petrolifero, che a pochi anni dal primo confermava l’ineluttabilità della crisi energetica. Sempre nel 1979 l’incidente nucleare di Three Miles Island. Nel 1984 Bhopal. Nel 1986 il gran botto di Chernobyl. Nel 1989 la Exxon Valdez.
In Italia tutta la chimica sul banco degli imputati: Montedison, Farmoplant, ACNA di Cengio, Stoppani, Porto Marghera, Priolo, Gela. E ancora, le predizioni angosciate sulla morte delle foreste, i primi allarmi sul cambiamento climatico e, con una progressione che sembrava non dovesse finire mai, la scoperta del problema dei rifiuti e, via via, di tutte le altre emergenze ambientali. In questo quadro allarmato - determinato dal primo contatto con pericoli mai rappresentati prima all’opinione pubblica e alla stessa classe politica – anche questioni minime assumevano i colori della tragedia. Basti pensare, per l’Italia, alla mucillagine nell’Adriatico o alla grottesca vicenda delle “navi dei veleni” nel 1988.
Si contava molto allora, le associazioni ambientaliste avevano un ruolo importante (in Italia, ottenevano il riconoscimento istituzionale con la legge 349/86), mentre la crescita elettorale delle liste verdi cominciava a convincere la classe politica a fare i conti con il nuovo movimento.
Fummo anche illusi, in Italia, dalla portata del successo ottenuto contro il programma nucleare, unici tra i grandi paesi industrializzati (a parte il caso austriaco); dalla facilità con cui, anche prima dell’incidente di Chernobyl, noi quattro straccioni riuscivamo a mettere alle corde nei dibattiti pubblici un’intera classe di esperti e di grandi professionisti. Chernobyl poi fu l’atout decisivo: quel che importava non era che l’incidente fosse avvenuto nell’Unione Sovietica – notoriamente lontana dagli standard di sicurezza occidentali -, ma piuttosto che la possibilità di un simile incidente fosse stata sempre esclusa dai nuclearisti nostrani anche per l’URSS. Ci convincemmo così di poter raggiungere qualsiasi traguardo.
La scena internazionale sembrava ancora più promettente. Il lobbying condotto prima sulla Banca Mondiale e poi direttamente sul G8 veniva enormemente amplificato dalla partecipazione alla preparazione della conferenza dell’ONU sull’ambiente e lo sviluppo (UNCED, Rio de Janeiro 1992), la più grande conferenza della storia, decisa dall’assemblea generale dell’ONU dopo la pubblicazione del rapporto Brundtland “Our Common Future”. Con l’affermarsi dell’ecodiplomazia, assai sensibile alle ragioni degli ambientalisti, si aprivano praterie sterminate per la loro iniziativa. Quella di Rio fu la massima opportunità data all’ambientalismo di sfondare politicamente.
Invece…

La caduta
Invece, la delusione per l’esito della conferenza di Rio e per i suoi seguiti fu fortissima: mai si era sperato tanto, per avere così poco. Nessuna costituzione ambientale mondiale, neanche la parvenza di quel governo mondiale dell’ambiente di cui Rio avrebbe dovuto porre la prima pietra. Di tutte quelle sfrenate utopie rimanevano solo l’Agenda 21, la convenzione sulla diversità biologica e quella sul clima con il successivo protocollo di Kyoto, deludente nei contenuti e indebolito dal rifiuto degli Stati Uniti. Il grande gioco del lobbying planetario aveva fatto cilecca.
Poco contavano i successi sostanziosi conseguiti in passato in tutto l’occidente, poco visibili, poco gratificanti per le correnti alternative e rivoluzionarie del movimento. Valeva la pena di dedicare il proprio tempo a quei complicati problemi ambientali che non si potevano risolvere con un sì o un no, com’era avvenuto per il nucleare in Italia, ma piuttosto con la buona amministrazione?
Oltretutto, era già iniziata una trasformazione culturale nell’universo delle ONG, alla quale non era forse estraneo il diffondersi del professionismo ai vertici delle associazioni, specie internazionali. I frequenti passaggi di fund-raiser e manager da un’associazione all’altra hanno fortemente contribuito ad accentuare gli elementi di convergenza, a scapito delle specificità dei singoli gruppi, fino a produrre una sostanziale uniformità di posizioni.
Ma anche in questo fu l’evento di Rio a giocare un ruolo decisivo. La lunga fase preparatoria dell’UNCED, infatti, e l’impostazione stessa della conferenza che aveva come finalità la sottoscrizione di un compromesso, un patto, tra l’occidente e i paesi in via di sviluppo, avevano causato un arretramento delle questioni ambientali rispetto a quelle dello sviluppo e della solidarietà con il Terzo mondo.
Nel primo, grande confronto tra le ONG dell’ambiente e quelle terzomondiste, le prime accusarono un vero e proprio cedimento culturale. Il tradizionale senso di colpa europeo portò all’abdicazione di fronte all’estremismo antioccidentale. Nello stesso tempo, la delusione per gli esiti di Rio provocava la radicalizzazione della protesta e la progressiva marginalizzazione della pratica del lobbying.
Questi fatti sconvolgevano il fragile equilibrio tra le diverse culture presenti nell’ambientalismo, a danno delle correnti realiste, più lucide ma minoritarie; e l’arcipelago verde scivolava verso un’omologazione culturale di tipo estremista.
All’interno delle ONG gli europei cedevano la leadership ai sudamericani, in taluni casi (come nella federazione internazionale degli Amici della Terra) si verificava una vera e propria sostituzione di persone ai vertici. Aveva così il sopravvento la vecchia cultura della protesta antagonista e il nuovo movimento rientrava nelle caselle del tradizionale schema destra/sinistra. Inevitabile, pochi anni dopo, la resa nei moti di Seattle, nell’happening di Porto Alegre, a Genova. Il movimento dell’ambientalismo politico, come presenza autonoma, non esisteva più.
Nel teatro della realtà, dunque, finita l’ebbrezza dei primi successi, di fronte alle difficoltà della politica svanivano quei tratti originali che distinguevano l’ambientalismo dai tradizionali movimenti di protesta.
Il verde avrebbe potuto essere libertario sul piano culturale, realista cioè riformista e pragmatico sul piano politico. Avrebbe potuto spingere la politica a una maggiore comprensione delle implicazioni sociali delle innovazioni tecnologiche, migliorare la qualità delle politiche di governo, battersi per ampliare la sfera di libertà dell’individuo. Tutte promesse mancate, svanite nella zona d’ombra della cultura protestataria e alternativa, risucchiate da una ripresa virulenta di guerre ideologiche.
C’è dunque da pensare che l’avventura ambientalista abbia finito con l’intercettare difetti o malattie più grandi di essa, fattori di regresso presenti nel sottosuolo culturale dell’Europa; e ne sia stata alla fine travolta.

Cronache italiane
Il processo di involuzione del movimento si è realizzato in Italia in maniera rapida e appariscente, condensando in pochi anni ascesa ed eclissi.
Due fattori si sono rivelati decisivi. Sul piano associativo, la crescita di Legambiente, lanciata nel 1980 all’interno del movimento dal Pci attraverso l’Arci, con un notevole patrimonio di sedi, militanti e risorse finanziarie; essa aprì un canale di comunicazione tra il nuovo, gracile movimento e il grosso del “popolo di sinistra”. Sul piano partitico, l’operazione che nel 1989, cioè nel momento di maggiore popolarità dei verdi, portò all’emigrazione dei gruppi di estrema sinistra (ma parteciparono anche Rutelli ed altri radicali) nelle loro liste elettorali.
Per un decennio Legambiente non è riuscita a prevalere, né tra le ONG, né nel partito verde. A lungo sfuggente sui più controversi temi ambientali, quali il nucleare e la caccia, per barcamenarsi tra le posizioni del movimento e quelle del Pci; alla retroguardia nelle maggiori iniziative ambientaliste, compresa la presentazione di liste verdi; impegnata anzi nel 1991-93 nel sabotare il nostro referendum sui controlli ambientali, questa associazione non si è mai distinta per capacità d’iniziativa politica.
Se alla fine è riuscita a conquistare un’egemonia che oggi appare assoluta, ciò è avvenuto grazie all’alleanza con l’immigrazione di sinistra e a una geniale operazione di marketing e di pubbliche relazioni, che ha prodotto effetti miracolosi sulle carriere dei suoi esponenti e sul controllo dell’informazione ambientale in Italia. Grandissimi, in questo.
A partire dai primi anni ’90, la cosa verde finiva saldamente in mano ai gruppi di estrema sinistra e a Legambiente. Resistevano solo i padroncini delle liste verdi, in forza non di una diversa politica, ma dei pacchetti di tessere che decidono l’ingresso in parlamento. In verità, l’immigrazione di sinistra configurava, se così si può dire, una sostituzione di soggetti ma, per quanto riguarda la cultura politica, non innescava veri conflitti. I verdi non costituivano una forza politica matura e stabilizzata, erano un soggetto precario e rissoso, fortemente condizionato da pregiudizi ideologici. Protestatari di professione, pacifisti antiUsa, forcaioli con Mani pulite, se non ci fosse stata quell’operazione difficilmente avrebbero preso posizioni politiche diverse.
La loro novità poggiava su elementi non duraturi: un linguaggio politico naïf, le facce nuove dei primi eletti nelle istituzioni, la promessa stucchevole e irreale di un’alternativa ai partiti. Una novità dunque d’immagine, quindi superficiale e precaria, che però aveva incontrato i favori di un elettorato stanco dei vecchi partiti. Anche perché il messaggio risultava rafforzato dall’affermazione della “trasversalità” rispetto agli schieramenti partitici.
Essere trasversali significava privilegiare i problemi di contenuto, fare del riformismo. L’immigrazione “rossa” bloccò questa prospettiva con la messa in minoranza delle posizioni realiste. Si rafforzava così l’immagine di un partitino minoritario, che si situava nell’area alquanto inflazionata dell’estrema sinistra.
Il fatto ebbe anche un altro impatto, che va segnalato: la fine di quella militanza “leggera”, formata cioè da simpatizzanti che si avvicinavano per la prima volta alla politica, che volentieri aiutavano nelle campagne tematiche ma che mai avrebbero accettato una vita di partito con le sue risse, le sue manovre, la conta delle tessere e via dicendo. Se ne andarono, e il peso dei gruppettari aumentò ancora di più. Alla fin fine, quel che contava era che bastavano poche tessere per conquistare un seggio in parlamento. E questo i giovani panda lo avevano capito benissimo.
Nel triennio 1989-92, i verdi si riposizionavano nell’area dell’estremismo, rigettavano lo slogan “né a destra né a sinistra”, perdevano o estromettevano l’ala riformista. E dunque dicevano agli elettori: la nostra novità è finita, siamo quelli di sempre, gli estremisti che tornano. Il punto formale di svolta nel 1991, in occasione della guerra del golfo. Erano tutti contro gli Usa e l’Onu; se ne dissociò in parlamento solo Rosa Filippini, che venne di fatto espulsa.
La parabola politica dei verdi sta tutta nei numeri elettorali: nelle elezioni regionali del 1985 ottennero il 2% dei voti; nelle politiche del 1987 il 2,5% , nelle europee del 1989, più del 6% con due liste: le Liste verdi (3,8%) e i Verdi Arcobaleno (2,4%). Tre anni dopo, nelle politiche del 1992, i consensi calavano al 2,8% e diminuivano ulteriormente nelle elezioni successive. Commentava nel 1992 Alex Langer: dopo 5 anni di presenza parlamentare e con milioni di elettori che si sono staccati dal voto tradizionale, abbiamo preso solo briciole.
In questo contesto proibitivo, un discorso di tipo riformista avrebbe avuto bisogno, per affermarsi, di una condizione: trovare nelle istituzioni interlocutori seri e credibili, aperti alle innovazioni, per concorrere a costruire alternative dentro il sistema. E ci fu un momento in cui la classe politica italiana – parte della Dc, ma soprattutto il Psi di Craxi – si aprì al confronto, ponendo le premesse per un inserimento del conflitto ambientale nell’agenda delle riforme. D’altra parte era stato il governo Craxi a nominare nel 1983 un ministro per l’ecologia e a istituire nel 1986 il ministero per l’ambiente, avviando il recupero a tappe forzate del pesantissimo ritardo italiano. Poi, nel 1986-87, il momento più intenso di dialogo tra il partito di Craxi e il movimento ambientalista, a sostegno del referendum contro il nucleare.
L’apertura fu troncata dal crollo della prima repubblica. Dopo di allora, non c’è più stato vero confronto politico sui temi ambientali; se non, da parte delle sinistre, l’inserimento dei verdi nel cartello dell’Ulivo. Nessuna trattativa politica sui contenuti, neanche quando i verdi nel 1996 entrarono nei governi ulivisti. La questione ambientale è fuoriuscita così dalla politica.

LE COLPE DELLA POLITICA
La questione dell’ambiente e dell’ambientalismo va oltre la storia ingarbugliata e minoritaria dei partiti verdi, oltre il loro magro bottino di voti. Si tratta di un complesso di problemi di diversa valenza – economica, culturale, sanitaria – e di portata strategica, ad esempio le risorse energetiche, quelle idriche e quelle ancora più decisive dell’innovazione tecnologica; problemi che, nel loro insieme, investono la sicurezza dell’economia e della società, la scala di priorità dei governi, il modo di usare il proprio territorio, trasformandolo o conservandolo, il ruolo che s’intende sostenere nel mondo per contribuire al superamento delle crisi globali.
Si tratta anche di un movimento di opinione tra i più vasti della storia recente, che ha la sua culla d’elezione in Europa ma è capillarmente presente in tutto l’occidente e, con variabilissima consistenza, in America Latina, in Asia e persino in Africa, laddove cominci ad affacciarsi la democrazia o almeno una qualche apertura dei regimi.
In politica, a parte il caso tedesco, non ha conseguito grossi successi ed è perciò trascurato dagli osservatori politici. Anche per questo non si è colto per tempo, ad esempio, l’apporto decisivo dato dai verdi all’affermazione dell’ideologia no-global, né l’importanza della prima frattura tra Europa e Stati Uniti che si verificò all’indomani del crollo del Muro di Berlino, alla conferenza di Rio del ’92, proprio sui temi dell’ambiente.
È peculiare di questo movimento l’interscambio continuo con le burocrazie pubbliche, nazionali e internazionali, con le imprese, con settori del mondo scientifico e con gli operatori della comunicazione ambientale.
Ma la sua caratteristica più notevole, quella che ne fa un caso d’interesse generale, è la critica antagonista all’occidente, alla sua economia, alla sua società. È un paradosso di cui non pare preoccuparsi: mette radici ed estende il suo consenso seguendo l’avanzare nel mondo della democrazia e dello sviluppo, cioè del modello occidentale, trae gran parte delle sue risorse e della sua influenza dal rapporto con le istituzioni e con le imprese capitalistiche, ma nello stesso tempo ne è il critico più irriducibile.
Se non è un protagonista della politica, il movimento ambientalista lo è sicuramente nel campo delle idee. Protagonista negativo per la verità, dal momento che, non riuscendo a tradurre le tematiche ambientali in una visione del mondo originale, ha ripreso i canoni espressivi tipici della guerra di classe e con questo vecchissimo format ha creato la Grande Balla: un tipo di comunicazione che va alla grande, basata su un intreccio inestricabile di verità e invenzioni, su un uso disonesto dei dati scientifici, sull’allarmismo sistematico, su una generale ispirazione antioccidentale. Dei temi ambientali, filtrati attraverso pregiudizi ideologici secolari, si è visto solo quel che si voleva vedere; le vicende dei due secoli successivi alla rivoluzione industriale sono interpretate come una corsa cieca verso il precipizio, l’innovazione tecnologica è identificata con il male, ogni problema viene spacciato per una caratteristica incorreggibile dell’economia occidentale, una catastrofe scongiurabile solo con un cambio di sistema.
Questo messaggio rende insignificanti le politiche pubbliche sull’ambiente – fiori all’occhiello, inganni di un meccanismo perverso – e fornisce la giustificazione teorica per un attacco culturale all’occidente: l’attacco più fanatico di tutti, in quanto lo si accusa di distruggere il pianeta e, con esso, le basi fisiche, biologiche e culturali della vita umana.
Parlano in questi termini di quello sviluppo e di quella civiltà che hanno liberato le masse dell’occidente dalla miseria, ampliato come in nessun’altra epoca il dominio della democrazia, reso possibili miglioramenti importanti nella tutela dell’ambiente. Parlano di quell’insieme di paesi chiamato occidente che è l’unica parte del mondo in cui si praticano sistematicamente politiche di protezione ambientale. Questi stessi progressi vengono presentati come cataclismi demoniaci, la vita dell’uomo liberato dalla miseria e dall’arbitrio come una via crucis senza speranza. Persino un fatto indubbiamente positivo, quale la crescita demografica determinata dal miglioramento delle condizioni di vita, viene presentata (per la verità, non solo dai verdi ma anche da autorevoli opinionisti) come una delle peggiori catastrofi.
Se l’ossatura del messaggio è questa, diventa rischioso tracciare una casistica tra i soggetti che l’alimentano e sulle varie gradazioni di estremismo cui danno voce. Si tratta di sfumature diverse all’interno dello stesso quadro: forse esistono fanatici ragionevoli, ma non sono migliori degli altri e fanno confusione. Chi loda i Grünen tedeschi in contrapposizione ai verdi nostrani dimentica che si batterono persino contro l’unificazione tedesca.
Legambiente, in Italia, dice una cosa in arabo e un’altra in inglese, come Arafat; fa discorsi ragionevoli negli incontri con le istituzioni e le imprese ed usa i toni fondamentalisti nelle occasioni militanti; avalla con la sua presenza qualsiasi iniziativa del movimento, anche quelle con le parole d’ordine più estreme. Grida alla catastrofe ambientale se c’è una giunta comunale di destra e tuba graziosamente con le giunte di sinistra. Dice no al deposito di scorie radioattive a Scansano, ma è determinata nel sostegno alle torri eoliche, che senza risolvere in alcun modo il problema energetico fanno scempio del paesaggio nazionale.
Il suo può essere considerato un fondamentalismo elastico e ben programmato.

Il caso Lomborg
Con uno studio da certosino, Biørn Lomborg ha dimostrato che il messaggio ambientalista è fondato su una falsificazione sistematica della realtà. Non fatevi trarre in inganno dal titolo del suo libro, “L’ambientalista scettico”. Non si tratta infatti di uno dei tanti casi in cui i cultori di una materia si scontrano con un critico “negazionista”. Lomborg non è un nemico della tutela dell’ambiente, è un ambientalista convinto e un esperto; le sue posizioni politiche sono quanto di più corretto si possa immaginare. Non nega i problemi ambientali, ma tenta di individuarne i termini reali; e lo fa sul terreno meno opinabile, quello della statistica, con un’analisi rigorosa basata sui dati ufficiali.
Dice Lomborg: “Le motivazioni che mi hanno indotto a scrivere questo libro non hanno niente di perverso né di occulto. Ritengo, forse ingenuamente, che una democrazia possa funzionare meglio se tutti hanno accesso alle migliori informazioni possibili. Non può essere nell’interesse della società che un dibattito su una questione vitale come l’ambiente si basi su miti anziché sulla verità”. Lo scopo è di aiutare a prendere le decisioni migliori per il futuro e stabilire le priorità nella destinazione delle risorse sulla base dei dati effettivi e non della propaganda.
Lomborg sottopone a verifica l’assunto base della teoria ambientalista: lo sviluppo economico produce un continuo peggioramento dello stato dell’ambiente, suscita crescenti pericoli per la nostra salute, peggiora le nostre condizioni di vita, aggrava la miseria nelle parti più sfavorite del pianeta. L’analisi statistica condotta sui principali indicatori del benessere - speranza di vita, salute, alimentazione, reddito – dimostra che la comunicazione ambientale è basata in gran parte su gravi distorsioni della realtà.
Lomborg esamina quindi il secondo caposaldo della propaganda ambientalista: questo progresso non può essere mantenuto e incrementato, non è cioè “sostenibile”. Anche su questo punto, l’analisi statistica smentisce i luoghi comuni. Non c’è motivo di temere crisi o scarsità alimentari: al contrario, le risorse alimentari costeranno meno e un numero più alto di persone vi avrà accesso. Le stime correnti sulla distruzione delle foreste non sono fondate e comunque, se si vogliono tutelare le foreste tropicali, il modo c’è: “mettere mano al portafogli”. Le previsioni di un esaurimento delle fonti energetiche fossili sono contraddette dai dati disponibili; e lo stesso vale per le risorse non energetiche. Anche per le risorse idriche, non si prospettano crisi inevitabili o problemi ambientali insormontabili.
Lomborg passa quindi a esaminare un terzo problema: lo sviluppo economico comporta necessariamente un aumento degli inquinamenti? Esaminando i dati relativi all’inquinamento dell’aria, alle piogge acide, all’inquinamento idrico, a quello indoor, ai rifiuti, alla perdita di biodiversità, alle allergie e all’asma, agli effetti cancerogeni degli agenti chimici, egli dimostra che nei paesi industrializzati la minaccia dell’inquinamento si è venuta attenuando negli ultimi decenni.
Per Lomborg, questo non significa che tutto vada per il meglio e che non sia più necessario impegnarsi per migliorare l’ambiente. Bisogna ancora migliorare, ad esempio, la gestione delle risorse e affrontare problemi quali la tutela delle foreste e delle acque, l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento globale.
Ma i dati corretti aiutano a concentrare l’impegno sui punti giusti e a non decidere sulla spinta delle emozioni.
Lo stesso criterio viene applicato al problema dei problemi, l’asso nella manica di tutti i catastrofismi: il riscaldamento globale, dagli anni ’90 tema centrale del dibattito ambientale nel mondo. Lomborg critica l’approccio generale alla questione e i toni da crociata, la scarsa credibilità degli scenari che vengono presentati al pubblico. E denuncia: il tema del riscaldamento globale è utilizzato come un trampolino per far passare obiettivi politici più ampi, in chiave anticapitalistica, e riproporre modelli sociali sconfitti dalla storia. Contro le proposte adottate a Kyoto, basate sull’abbattimento delle emissioni di carbonio per mezzo di tasse, quote e divieti, Lomborg sostiene che si trarrebbero maggiori benefici, anche dal punto di vista del clima, aumentando in misura consistente gli investimenti per accelerare la sostituzione dei combustibili fossili con energie rinnovabili e pulite.
Ecco, dunque, in che cosa consiste l’eresia di Lomborg.
Egli mette in vetrina la scarsa credibilità del movimento ambientalista, dei media e di quegli ambienti scientifici che propinano all’opinione pubblica vere e proprie menzogne, e lo fa in modo serio e convincente.

Il precedente della rivoluzione industriale
C’è un precedente nell’ambito della storiografia e della cultura politica, un caso classico di disinformazione di massa, quello che ha reso impopolare la rivoluzione industriale a causa delle sofferenze che avrebbe inferto, al suo nascere, alla classe operaia inglese.
Friedrich Hayek, Ashton ed altri eminenti storici, in Italia Rosario Romeo, avviarono nel secolo scorso un lavoro di revisione del tradizionale giudizio storiografico sull’avvento della rivoluzione industriale: ma troppo tardi, troppo dissonante rispetto ai pregiudizi anticapitalistici prevalenti, per essere recepito e diffuso come meritava e correggere l’affermata mitologia. Esplicitamente Hayek parlava di una “interpretazione socialista della storia”, che ha diretto il pensiero politico di molte generazioni e condizionato l’etica politica della maggior parte del mondo occidentale, non solo a sinistra ma anche tra i conservatori. Per oltre un secolo infatti storici, politici e moralisti hanno dato un quadro drammatico delle conseguenze dell’industrializzazione sulle condizioni di vita degli operai inglesi, proposto una visione romantica dell’epoca preindustriale, bollato come “inumano” il secolo XIX; e hanno così creato un mito invincibile.
Questo mito è rimasto nell’opinione comune come uno degli argomenti fondamentali nella polemica contro il capitalismo. Solo la crisi del ’29 ha contribuito all’impopolarità del capitalismo industriale in misura paragonabile. “Poche volte – osservava Rosario Romeo - una impostazione intellettuale ha avuto riflessi così larghi sulla opinione comune; sì che, nella mente dei più, l’immagine dello sfruttamento inumano è tuttora inseparabile dalla nozione della rivoluzione industriale”.
Molto peso nel far trionfare questa opinione ebbe l’uso che Marx ed Engels fecero delle inchieste parlamentari e dei dossier ispirati dai proprietari terrieri del partito tory; dando fede così alle denunce interessate della classe minacciata dalla nuova economia e ritorcendo contro l’industria la nascente sensibilità verso i problemi sociali indotta proprio dal suo sviluppo. Tanto è bastato per far passare un’interpretazione basata in gran parte, non su fatti storici accertati, ma su leggende politiche.
Nella mistificazione a carico del capitalismo industriale, Romeo individuava un problema capitale: l’influenza sulla politica contemporanea degli intellettuali, intesi come ceto che rifornisce (come gli storici, appunto), usa e controlla gli strumenti di formazione dell’opinione pubblica. Gran parte dell’intelligenza occidentale diffonde un’immagine distorta delle nostre istituzioni economiche e politiche, affermando in tal modo il dominio del conformismo e del pregiudizio: “la protesta intellettuale rappresenta un elemento di instabilità sociale di primaria importanza, specie in quanto si caratterizza per uno sterile rifiuto”.

Poteri anonimi
Le analogie con il catastrofismo degli ambientalisti sono impressionanti; e non è affatto certo che la menzogna ecologica abbia effetti meno disastrosi. La storia infatti si ripete: sia per i soggetti della manipolazione, sia per l’oggetto – sempre l’occidente e la sua economia -, sia per il tipo di messaggio e – temiamo – per gli effetti deleteri di lungo periodo. Nella loro ricerca di un format ideologico in cui riversare i loro contenuti, gli ambientalisti hanno rilanciato la precedente operazione di mistificazione a danno della rivoluzione industriale, con grande successo. Il messaggio catastrofista è stato infatti recepito dall’opinione pubblica, fino a diventare senso comune. Pochi dubitano ormai che il mondo vada effettivamente sempre peggio.
Si pongono problemi inediti. Siamo di fronte a un movimento di idee, espressione della società civile, che nella gran parte delle sue componenti mente sistematicamente all’opinione pubblica, ne esaspera le paure e gli egoismi, la mobilita intellettualmente contro la democrazia e le sue istituzioni economiche. È una novità sorprendente, specie se si considerano i vincoli sempre più rigidi che costringono invece al massimo di trasparenza i poteri costituiti; ma è anche indice di una patologia preoccupante che investe strati importanti delle élite occidentali.
Il messaggio catastrofista viene infatti ripreso e reiterato quotidianamente dai fabbricatori di opinione: intellettuali classici, scienziati e ricercatori “concerned”, che stanno all’inizio della catena dell’informazione, giornalisti e divulgatori, preti, nuove leve di burocrati pubblici e nuovi quadri dell’imprenditoria, la sconfinata categoria degli operatori dell’intrattenimento.
Grazie alla loro opera, la Grande Balla sul peggioramento continuo delle condizioni ambientali si è insediata nei luoghi e nelle conversazioni della nostra vita quotidiana, nella scuola, nelle chiese, nei giornali, nei romanzi, nei cinema, alla tv. È una lobby informale, una gioiosa macchina che si autoalimenta con pregiudizi, slogan rozzi, visioni manichee e fabbrica disinformazione a getto continuo. Sarebbe ingenuo contrapporvi l’elogio dello spirito critico e del non conformismo, dell’esercizio dell’intelligenza. In Italia non passa foglia che questa lobby non voglia.
Si pone anche un problema di qualità dell’informazione. Scoraggia vedere che anche il Corriere della Sera ha ceduto da anni a questo andazzo. Il modo in cui ha dato notizia del rapporto catastrofista del Pentagono sull’effetto serra è solo un esempio fra tanti. Che dire poi di quell’iniziativa congiunta con il WWF per pubblicizzare, non pareri di scienziati, non analisi politiche serie, ma testimonianze dei lettori sul tempo che non è più quello di una volta? Su queste materie, il più autorevole quotidiano nazionale fa da portavoce ai verdi fondamentalisti.
Strumento di una predicazione antagonista, la comunicazione ambientale è anche funzionale all’affermazione di ruoli e interessi particolari, ad acquisire militanti e sostenitori, a garantire il finanziamento di ricerche, a influenzare le decisioni politiche.
È il sintomo di un fenomeno inconsueto: si è aperta la caccia al potere politico senza responsabilità, il più comodo e appetibile in assoluto. Il terreno della politica è invaso sempre più da “poteri anonimi”, tecnici, burocrati o intellettuali che siano (tramontato l’intellettuale “organico” del ‘900, oggi si lavora per se stessi), che vanno alla ricerca di scorciatoie per far politica senza rappresentanza, quindi senza il fastidio del conteggio democratico del consenso e senza doverne rendere conto a nessuno. Alla conferenza di Rio del 1992 si tentò addirittura di creare un primo embrione di governo mondiale dell’ambiente, da affidare ovviamente a scienziati e a burocrati.
Anche per questo, non si cada nell’errore di sopravvalutare la protesta. In Europa, in Italia, gli integralisti verdi e no-global non sono i demiurghi della scena; e se in qualche misura lo diventano, vuol dire che qualcun altro non fa bene il proprio mestiere. Allo stesso modo, la sconfitta di un indirizzo riformista non può riguardare solo un movimento, bensì il sistema politico e civile nel suo insieme.
Demiurghi sono i governi e le classi dirigenti. Sono le loro inadeguatezze e i loro errori a fornire alibi all’integralismo ambientalista, a garantirgli una rendita politica, a giustificare l’interpretazione in chiave antagonistica della questione ambientale. C’è troppo disorientamento nella politica, rigidità, ritardi, mentre il mondo corre. A loro volta, capita sempre di più che gli ambientalisti facciano da copertura alle magagne dei governi e, soprattutto, delle amministrazioni locali, veri buchi neri della protezione dell’ambiente.
Quei sindaci, quei governatori, quegli assessori sempre pronti ad afferrare i gonfaloni e a infilarsi in ogni protesta, persino a biascicare, loro che dovrebbero rappresentare le istituzioni, le litanie anti-istituzionali della piazza, non sono forse compagni di strada dell’estremismo verde? Ma si pensa davvero che le grandi infrastrutture siano state bloccate per tanti anni dal veto dei verdi? Qualcuno è davvero convinto che l’emergenza rifiuti in Campania, la rinuncia a realizzare anche un solo inceneritore sia colpa dei verdi e non della regione, delle province e dei comuni campani?


Ecologia è buongoverno
Il processo di sviluppo delle politiche ambientali appare oggi in crisi, incompiuto, come deviato.
Se la sfrondiamo dalle fantasie apocalittiche, al fondo della questione ambientale c’è un problema di buongoverno, c’è la domanda diffusa di un salto di qualità delle politiche di governo per adeguarle alle esigenze culturali proprie di una società ricca e libera. Più un paese è sviluppato e meglio può (deve) permettersi il lusso di tutelare al meglio il proprio patrimonio ambientale e culturale. Servono politiche adeguate al rango di paesi altamente sviluppati, capaci di gestire i grandi processi di trasformazione tecnologica, culturale e sociale. Sono problemi di lunghissimo periodo, che però bisognerebbe cominciare a capire e ad affrontare oggi.
I cittadini si attendono che le classi politiche sappiano rispondere a queste esigenze. Ma le risposte che arrivano sono mediocri. La politica continua a non comprendere la tecnica e ha paura del nuovo.
Di fronte a problemi dall’elevato contenuto scientifico, i politici non dispongono di un valido criterio per decidere, non conoscono neanche il modo giusto di utilizzare gli esperti (i quali, da parte loro, tendono sempre più ad assumere ruoli direttamente politici), annaspano e alla fine abdicano alle proprie responsabilità.
È una situazione difficile da decifrare: in trent’anni, si è costruito una politica settoriale imponente, sempre più penetrante nei confronti delle imprese; eppure la questione ambientale non è riuscita a far breccia nell’alta politica. È stata lasciata all’intendenza; e le rare volte che la politica s’intromette, lo fa per dimostrare la propria “sensibilità”, quindi con gli strumenti della demagogia, che sembrano connaturati al discorso ambientalista. Basti pensare alla molto pubblicizzata uscita di Chirac alla vigilia della conferenza di Johannesburg: banali divagazioni sulla natura minacciata e come proposta politica …una nuova commissione dell’ONU.
Il fondamentalismo dei verdi è un guaio aggiuntivo: ma il vero problema da porre è quello del rinnovamento delle classi dirigenti.
Consideriamo l’Italia: al fondo delle sue crisi ambientali si ritrovano i problemi irrisolti dello sviluppo del paese, le sue arretratezze storiche. Il paese si è mosso con grave ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati e ancor oggi si lascia governare, il più delle volte passivamente, dall’Unione europea. Anche da noi la questione ambientale è penetrata profondamente nell’azione amministrativa, ma la politica non ha mai fatto veramente i conti con essa, confinandola in un ambito un po’ tecnico, un po’ burocratico.
Dal punto di vista delle istituzioni, la questione ambientale richiede forti capacità gestionali, selezione delle priorità, capacità di progetto: proprio i punti su cui la politica italiana è tradizionalmente più carente. E infatti si sono conseguiti risultati importanti in tutte le materie in cui conta soprattutto l’innovazione tecnologica; si segna invece il passo nelle questioni che richiedono scelte lungimiranti e buona amministrazione: la gestione dei rifiuti, l’abusivismo, la gestione delle acque, il dissesto idrogeologico.
Si recita quotidianamente la giaculatoria dello sviluppo sostenibile planetario, ma non ci si preoccupa di gestire bene dal punto di vista ambientale le grandi opere, si è privi da anni di una politica energetica, non esiste una gerarchia dichiarata di priorità preferendo la navigazione a vista, non si è in grado di formulare una politica appropriata per la gestione del territorio e del paesaggio.
Tre decenni non sono bastati per dare una risposta accettabile al problema principale: costruire un rapporto equilibrato tra attività umane e ambiente, degno del nostro livello di sviluppo. Un rapporto che sia in armonia con le nostre esigenze culturali, non produca effetti pericolosi per noi, non distrugga l’ambiente, non offenda la nostra sensibilità e le nostre idee su quel che merita di essere salvaguardato, insomma non incida negativamente sul nostro modo di vivere.
I politici non sembrano interessati, molti anzi ridanno fiato alle posizioni negazioniste di qualsiasi esigenza di tutela ambientale; se i verdi dicono no a tutto, loro dicono sì a qualsiasi opera, anche a quelle inutili, con le quali l’Italia e soprattutto il Sud hanno una certa dimestichezza.
Da parte loro, i verdi integralisti prediligono gli allarmi isterici e le menzogne “a fin di bene”, la loro stella polare è la denuncia delle colpe del “cattivo soggetto” del pianeta, l’uomo, invocano un mea culpa per aver pensato e realizzato la rivoluzione industriale, l’origine di tutti i mali. Non è un gran momento. Si rischia un salto indietro di trent’anni, un ritorno alle prime guerre di religione tra ambientalisti e inquinatori.
Anch’io azzardo una profezia: verrà il giorno in cui l’opinione pubblica capirà di essere stata ingannata dagli uni e dagli altri e li abbandonerà; quel giorno riusciremo a confrontarci sul merito dei problemi come persone civili, senza bugie e raggiri ideologici. Ma ciò non è scontato.
Continueranno a far male all’ambiente e alla politica, se non avremo consenso e aiuto in questa battaglia delle idee.


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Roma, 2 dicembre 2004

Il Partito Radicale Transnazionale e Radicali italiani hanno invitato Mario Signorino a proporre attività ed iniziative, sul piano nazionale e internazionale, relative ai temi dell'ambiente e delle tecnologie.
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Collaboratore negli anni '60 di Ernesto Rossi e Ferruccio Parri, Signorino ha diretto nel 1968-70 il settimanale L'Astrolabio; nel 1976-77 ha diretto Prova radicale. Dal 1976 si occupa di questioni ambientali.
Fondatore nel 1977 degli Amici della Terra, la prima associazione italiana dell'ambientalismo politico (inserita nella rete Friends of the Earth International), è stato senatore radicale negli anni '80, presidente dell'Agenzia nazionale per la protezione dell'ambiente, membro della Commissione tecnico-scientifica del Ministero dell'ambiente.
Nel corso dell'ultimo Congresso degli Amici della Terra, una importante relazione-intervento di Signorino ha ripercorso gli ultimi decenni di storia ambientalista, con una critica serrata e una impostazione alternativa – di alternativa liberale- rispetto a tanta parte della politica e delle cultura ambientaliste "ufficiali".