«Ogni stato ha la responsabilità di proteggere i suoi cittadini ma, quando non è in grado o non è disponibile a farlo, quella responsabilità deve essere assunta dalla più vasta comunità internazionale... In tale contesto, nel corso dei recenti conflitti, abbiamo avuto modo di ripetere questa convinzione a proposito della ingerenza umanitaria, concepita come una sorta di legittima difesa, e di quanto tale ingerenza si presenti come obbligo della comunità internazionale di garantire la sopravvivenza degli individui di fronte all'azione o inazione di uno stato o di un gruppo di stati».Non il «diritto» di ingerenza, ma il «dovere» di ingerenza è quello di cui ha sempre parlato Marco Pannella fin dai primi anni '80, affinché potesse «vigere» la Carta delle Nazioni Unite, che riconosce il diritto «storicamente naturale» alla democrazia e alla libertà. Non si tratta dell'esportazione della democrazia come sistema, spiegava Pannella all'indomani dell'invasione dell'Iraq (2003), ma di «rimuovere gli ostacoli frapposti all'esercizio della legalità e dei diritti fondamentali», che sono storicamente riconosciuti come naturali per ogni essere umano. Questa è la natura dell'«interventismo radicale», del «dovere di ingerenza». In termini giuridici esiste il nostro «obbligo» a intervenire per rimuovere quegli ostacoli.
Celestino Migliore, osservatore permanente della Santa Sede presso l'Onu.
Un'enunciazione che porta a compimento un percorso che parte da lontano (dai primi anni '80) di definizione del principio di ingerenza. Tutto iniziò dalla lotta contro lo sterminio per fame nel mondo, quando occorreva proclamare il "dovere di ingerenza" dell'Onu ovunque «l'arma alimentare» venisse usata «a fini politici e di dominio provocando la morte per fame di inerti popolazioni», laddove le autorità legali locali fossero «complici, se non sole responsabili dell'olocausto». Partendo dal presupposto che la fame e l'ingiustizia nel mondo vanno lette come «minaccia alla pace», una «rottura della pace o un atto di aggressione», che i responsabili possono essere identificati e fermati.
Laddove sono negati i diritti naturali della persona umana cessa il diritto positivo degli Stati alla propria sovranità, perché la salvaguardia dei diritti umani sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite non può conoscere frontiere e zone franche. Per questo, i radicali furono sostenitori di una linea di ingerenza politica nei Paesi totalitari dell'Est europeo da contrapporre alla stabilità e all'equilibrio di forze militari tra i blocchi. Per questo chiedevano all'Onu «l'estensione del potere di polizia, basato sul principio di ingerenza anche per i casi di genocidio e per quelli di difesa di minoranze oppresse».
Un "dovere di ingerenza" che permea di sé anche l'europeismo come inteso dai radicali, «che vuole essere momento di scontro politico fra la concezione democratica-parlamentare e quella totalitaria, fra chi privilegia i diritti della persona e chi li sottopone gerarchicamente agli interessi dello stato, fra chi rivendica la necessità che il diritto non sia limitato dalle frontiere e chi difende la barbarie in nome della sovranità nazionale e del principio di non ingerenza».
In un intervento sul Corriere della Sera (30 dicembre 1988) lo studioso francese Maurice Duverger si chiedeva se «si oserà riconoscere che il dovere di ogni cittadino e di ogni governo non è limitato dalle frontiere degli Stati e che queste non potrebbero impedire in alcun caso la prevenzione e la repressione delle violazioni della dignità umana?» Le democrazie «dispongono fin da ora di mezzi efficaci per incitare le dittature a rispettare progressivamente i diritti dell'uomo; in primo luogo il diritto dell'aiuto al Terzo e Quarto Mondo».
Duverger sollecita dunque, scrive Angiolo Bandinelli, «un nuovo internazionalismo capace di abbattere il vecchio mito della sovranità nazionale e della "non ingerenza", in nome dei diritti dell'uomo e del cittadino... La promozione transnazionale dei diritti umani e civili può, e ormai dovrebbe, divenire obiettivo politico di fondo per forze politiche e civili consapevoli che il discrimine tra progresso e reazione, tra libertà e dittatura, corre nel mondo di oggi lungo questa linea. Che è linea di attacco, e non di mera difesa di enunciazioni senza conseguenze».
Un principio pienamente accolto oltreoceano. C'è dell'altro. Polito ha citato l'arcivescovo, ma bastava andarsi a riprendere l'articolo nel quale James M. Lindsay e Ivo H. Daalder, entrambi esponenti di punta della Brookings Institution, think tank di area democratica clintoniana, sancivano l'inadeguatezza delle attuali istituzioni internazionali (Onu e Nato) avanzando la proposta di una nuova istituzione, una «formale» Alleanza delle Democrazie:
«Le principali minacce alla sicurezza nel mondo di oggi giungono dagli sviluppi interni agli Stati. (...) In due dei tre ultimi casi (Serbia, Afghanistan, Iraq) il Consiglio di Sicurezza ha mancato di autorizzare esplicitamente l'uso della forza, nell'altro lo ha fatto solo implicitamente. (...) Oggi, il rispetto per la sovranità dello stato deve essere condizionata a come gli stati si comportano al loro interno, non soo all'esterno. La sovranità porta con sé una responsabilità a proteggere i cittadini contro la violenza di massa e un dovere a prevenire gli sviluppi interni che minaccino gli altri. I regimi che falliscono nell'adempiere a questi doveri e responsabilità dovrebbero perdere il loro sovrano diritto alla non-interferenza negli affari interni».
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