Quel «gradino» la Corte d'appello di Palermo non l'ha voluto salire. Anzi, quel «gradino» l'ha distrutto. Era stato il procuratore generale Nino Gatto, nella sua ultima requisitoria, a chiedere ai giudici una sentenza «gradino», tale da consentire di salirne altri per «accertare le responsabilità che hanno insanguinato il nostro Paese». Aveva richiamato i giudici ai loro «doveri», ammonendo che «qui è il potere che viene processato, un potere che ha tentato di condizionare e di sfuggire al processo». Ebbene, Dell'Utri è stato sì condannato a sette anni per l'evanescente reato di concorso esterno in associazione mafiosa (torneremo su questo), pena ridotta rispetto ai nove della sentenza di primo grado e ben lontana dagli undici chiesti dalla Procura, ma è stato assolto perché «il fatto non sussiste» riguardo la parte più scottante, le condotte successive al 1992, quelle che secondo i pm avrebbero dovuto provare la "trattativa" tra mafia e politica da cui scaturirono le stragi e il ruolo di Cosa Nostra nella nascita di Forza Italia. Non sussistono né la mediazione politico-mafiosa attraverso Mangano, né quella attraverso Graviano-Spatuzza. Se mai un "terzo livello" c'è stato, se mai c'è stato un patto tra Stato e mafia, Dell'Utri - e Berlusconi - non c'entrano nulla.
Questa assoluzione è l'aspetto più rilevante e il pg se ne rende conto, non lo nasconde. Tutto il significato e la portata della sentenza di oggi sta proprio nella delusione della pubblica accusa. «Sono profondamente deluso», è stato infatti il primo commento del procuratore generale Gatto, «perché la parte relativa alla politica la ritengo quella in cui l'accusa era meglio fondata, più forte», la parte che definisce «addirittura più granitica» (rispetto a quella riguardante gli episodi estorsivi a danno di Berlusconi e Fininvest, su cui la condanna a Dell'Utri è stata confermata). Una sentenza «storica», ammette, «sebbene la Corte non abbia ritenuto di potere salire quel "gradino" necessario a leggere, secondo quanto avevo proposto, la stagione politica e la vicenda della trattativa». Vicenda che secondo la Corte «non sussiste». Adesso basta con i teoremi dei professionisti dell'antimafia, basta con la "trattativa", con l'"Entità", con il fantomatico "terzo livello", o comunque lo si voglia chiamare. Basta con gli Spatuzza, basta con gli Ingroia, i Grasso, basta con i Santoro, i Travaglio, e basta con la Repubblica e con i "finiani" di supporto. Tutto è stato spazzato via e rispedito ai mittenti, i quali, ne siamo certi, non demorderanno privi come sono di senso del ridicolo.
Venendo alla condanna, il concorso esterno si riferisce a quelle che in realtà sarebbero azioni estorsive a danno di Berlusconi e della Fininvest. E' bene ricordare, infatti, che Dell'Utri è stato condannato perché pagando il "pizzo" per garantire protezione personale a Berlusconi ed evitare danni alle antenne e alla Standa in Sicilia, ha «rafforzato» finanziariamente la mafia, e quindi concorso dall'esterno all'associazione mafiosa. Insomma, sarebbe l'unico che per aver pagato il "pizzo" per conto di Berlusconi e delle sue aziende (ammesso e non concesso che abbia davvero pagato), viene considerato complice invece che vittima della mafia. E' una sentenza, quindi, che anche sul lato della condanna, come altre assoluzioni celebri (vedi di recente quella di Mannino) getta un'ombra inquietante sul reato di "concorso esterno in asssociazione mafiosa", per il quale i condannati credo siano poche decine e nessun politico.
Tuesday, June 29, 2010
Monday, June 28, 2010
Bel Mondiale, ma arbitri inguardabili
Stiamo assistendo ad un buon Mondiale, forse migliore di quelli del 2006 e del 2002. Si vedono tanti errori tecnici, ma anche giocate e gol pregevoli (finora ben cinque agli Ottavi: quelli di Suarez, Gyan, Muller, Tevez e Hernandez). Le partite sono equilibrate ed emozionanti, e molti giocatori di talento si stanno mettendo in mostra. Gli Ottavi sono cominciati con l'Uruguay, che ha dato un'altra dimostrazione di forza, compattezza e qualità (Suarez, Peres e Lugano su tutti), anche se i coreani se la sono giocata fino all'ultimo. Può arrivare lontano, minacciare anche il Brasile.
Anche Stati Uniti-Ghana è stata una bella partita, in bilico fino all'ultimo. Gli africani hanno superato gli Usa probabilmente solo grazie alla loro resistenza fisica, che gli ha permesso di continuare a correre ed essere brillanti anche ai supplementari, quando gli americani sono crollati.
Che dire della classica, Inghilterra-Germania? La più bella Germania che mi ricordi (quindi da vent'anni), giovani interessanti e di grande qualità (Ozil e Muller), anche se da una squadra di Capello non ti aspetti certi svarioni difensivi da terza categoria (scandalosa tutta la difesa, dal portiere "calamity" James a Terry, per non parlare di Barry). L'errore arbitrale ha senz'altro condizionato la gara. Chi ha visto la partita sa che proprio in quel momento, dopo l'1 a 2, gli inglesi sembravano finalmente usciti dal torpore iniziale e la Germania era in difficoltà. Il gol del 2-2 non avrebbe consentito ai tedeschi di giocare in contropiede e probabilmente avrebbe galvanizzato gli inglesi come solo a loro capita, ma non si può neanche escludere che invece, con quella difesa, avrebbero regalato comunque altri gol.
Capello ha sbagliato ad attribuire la sconfitta all'errore arbitrale. Anche se fosse vero, non è nella mentalità degli inglesi. E infatti i giocatori hanno minimizzato ammettendo di essere stati dominati dai tedeschi. La mia sensazione è che Capello lascerà. Non solo per la pressione della stampa e della Federazione, ma anche perché al di là delle recriminazioni si sarà accorto del suo fallimento. Il suo obiettivo era dare solidità alla difesa e cervello in mezzo al campo. Ha fallito. Probabilmente non per colpa sua. Nel senso che conoscendo il suo valore avrà lavorato certamente molto e bene sulla difesa, ma dopo ieri si sarà reso conto che con quei giocatori è inutile: non hanno cervello.
Argentina-Messico è stata condizionata forse ancora di più dal clamoroso errore della terna italiana guidata da Rosetti. D'altra parte, conosciamo gli arbitri italiani e Rosetti in particolare. Al Mondiale come in campionato, non ci ha sorpreso. Fino ad allora l'Argentina non aveva combinato nulla, la partita era bloccata. Anzi, il Messico (davvero interessanti il "chicharito" Hernandez e Salcido) aveva creato tre occasioni, cogliendo una traversa piena. Quel gol ha sbloccato un equilibrio preziosissimo per i messicani, su cui avevano puntato tutto il loro gioco, che stava riuscendo alla perfezione. A questa Argentina non puoi regalare un gol, perché poi cominciano a giocare sul velluto, come hanno fatto.
L'errore dell'arbitro ci può stare, ma non quando è così clamoroso e decisivo. E soprattutto è intollerabile perché evitabilissimo, dal momento che ormai abbiamo a disposizione la tecnologia necessaria per correggere gli errori più decisivi in una manciata di secondi. Sarebbe bastato che qualcuno avesse contattato Rosetti durante il suo consulto con Airoldi durato un minuto. Favorito non poco dagli errori arbitrali anche il Brasile. Con un palleggio di mano Fabiano segna il secondo gol e chiude la partita contro la Costa d'Avorio; ma soprattutto la mancata espulsione di Juan contro il Portogallo, per un fallo di mano volontario e da ultimo uomo. Di sicuro non avrebbe potuto giocare gli Ottavi, e forse il Brasile, in dieci, non sarebbe neanche riuscito ad arrivare primo nel suo girone (e dunque a posizionarsi nella parte del tabellone opposta a quella dell'Argentina). Insomma, c'è di che sospettare che si voglia arrivare ad una finale Brasile-Argentina.
Anche Stati Uniti-Ghana è stata una bella partita, in bilico fino all'ultimo. Gli africani hanno superato gli Usa probabilmente solo grazie alla loro resistenza fisica, che gli ha permesso di continuare a correre ed essere brillanti anche ai supplementari, quando gli americani sono crollati.
Che dire della classica, Inghilterra-Germania? La più bella Germania che mi ricordi (quindi da vent'anni), giovani interessanti e di grande qualità (Ozil e Muller), anche se da una squadra di Capello non ti aspetti certi svarioni difensivi da terza categoria (scandalosa tutta la difesa, dal portiere "calamity" James a Terry, per non parlare di Barry). L'errore arbitrale ha senz'altro condizionato la gara. Chi ha visto la partita sa che proprio in quel momento, dopo l'1 a 2, gli inglesi sembravano finalmente usciti dal torpore iniziale e la Germania era in difficoltà. Il gol del 2-2 non avrebbe consentito ai tedeschi di giocare in contropiede e probabilmente avrebbe galvanizzato gli inglesi come solo a loro capita, ma non si può neanche escludere che invece, con quella difesa, avrebbero regalato comunque altri gol.
Capello ha sbagliato ad attribuire la sconfitta all'errore arbitrale. Anche se fosse vero, non è nella mentalità degli inglesi. E infatti i giocatori hanno minimizzato ammettendo di essere stati dominati dai tedeschi. La mia sensazione è che Capello lascerà. Non solo per la pressione della stampa e della Federazione, ma anche perché al di là delle recriminazioni si sarà accorto del suo fallimento. Il suo obiettivo era dare solidità alla difesa e cervello in mezzo al campo. Ha fallito. Probabilmente non per colpa sua. Nel senso che conoscendo il suo valore avrà lavorato certamente molto e bene sulla difesa, ma dopo ieri si sarà reso conto che con quei giocatori è inutile: non hanno cervello.
Argentina-Messico è stata condizionata forse ancora di più dal clamoroso errore della terna italiana guidata da Rosetti. D'altra parte, conosciamo gli arbitri italiani e Rosetti in particolare. Al Mondiale come in campionato, non ci ha sorpreso. Fino ad allora l'Argentina non aveva combinato nulla, la partita era bloccata. Anzi, il Messico (davvero interessanti il "chicharito" Hernandez e Salcido) aveva creato tre occasioni, cogliendo una traversa piena. Quel gol ha sbloccato un equilibrio preziosissimo per i messicani, su cui avevano puntato tutto il loro gioco, che stava riuscendo alla perfezione. A questa Argentina non puoi regalare un gol, perché poi cominciano a giocare sul velluto, come hanno fatto.
L'errore dell'arbitro ci può stare, ma non quando è così clamoroso e decisivo. E soprattutto è intollerabile perché evitabilissimo, dal momento che ormai abbiamo a disposizione la tecnologia necessaria per correggere gli errori più decisivi in una manciata di secondi. Sarebbe bastato che qualcuno avesse contattato Rosetti durante il suo consulto con Airoldi durato un minuto. Favorito non poco dagli errori arbitrali anche il Brasile. Con un palleggio di mano Fabiano segna il secondo gol e chiude la partita contro la Costa d'Avorio; ma soprattutto la mancata espulsione di Juan contro il Portogallo, per un fallo di mano volontario e da ultimo uomo. Di sicuro non avrebbe potuto giocare gli Ottavi, e forse il Brasile, in dieci, non sarebbe neanche riuscito ad arrivare primo nel suo girone (e dunque a posizionarsi nella parte del tabellone opposta a quella dell'Argentina). Insomma, c'è di che sospettare che si voglia arrivare ad una finale Brasile-Argentina.
Friday, June 25, 2010
Disastro annunciato, ora no allo scaricabarile
E' il fallimento della Federazione e di Lippi, non del «nostro calcio»
Un disastro annunciato, per chi non si era foderato gli occhi in attesa del fattore "C" o in imbarazzo per certe convocazioni dall'organico non proprio stellare della Juventus di quest'anno. Come nell'86, credere nel vecchio gruppo dei campioni del mondo di quattro anni prima è stato l'errore di fondo. Un errore a cui non era possibile rimediare con un paio di innesti confusi dell'ultima ora. Inutile accapigliarsi per una o due convocazioni diverse, o per gli errori tattici (a dire il vero clamorosi) di Lippi, sono due anni che lo vado dicendo: è l'impostazione di fondo ad essere sbagliata. Specchio di un'Italia aggrappata al passato, che crede poco nei suoi giovani e che ha paura di rischiare scoprendo i nuovi talenti. La peggior mistificazione che in queste ore tentano di far passare è che non c'erano «fenomeni» a casa, né giovani talenti per rimpiazzare i "bolliti" (e bastava seguire l'ultimo campionato per accorgersi che erano "bolliti").
Falso. Certo, i talenti si coltivano, non si improvvisano a una settimana dall'esordio. Ma sono convinto che se due anni fa si fosse intrapresa con decisione la strada del rinnovamento, un gruppo più giovane avrebbe avuto il tempo di crescere molto. Con ogni probabilità non avrebbe rivinto il Mondiale, ma neanche perso in modo così indegno. E il giorno dopo non ci saremmo trovati un cumulo di macerie, ma delle basi promettenti su cui lavorare.
Adesso il presidente della Federazione, anziché dimettersi, vorrebbe far pesare il suo fallimento, quello di Lippi e di questo gruppo, sull'intero nostro movimento calcistico, come se quella vista ieri fosse la massima espressione possibile del nostro calcio, invece che una rispettabile, ma pur sempre particolare versione, quella frutto delle scelte della Federazione e di Lippi. E' quindi un fallimento che ha nomi e cognomi ben precisi, non è «la crisi del nostro calcio», se non per chi non riesce a vedere al di là di Juve e Milan. Adesso non provino a scendere da quel «carro» su cui, se avessero vinto, non avrebbero voluto - giustamente - far salire i loro critici.
Non è un gran bel «metterci la faccia», non è un assumersi le proprie responsabilità, dire che il fallimento della Nazionale «è il fallimento del calcio italiano e dei club» (Cannavaro) e che «il panorama del calcio italiano è questo» (Buffon). E', anzi, un atto di indicibile arroganza: far ricadere la colpa della disfatta anche su chi non c'era, dando per scontato che nessun altro avrebbe saputo far meglio.
P.S. 1 - Lippi come Domenech. Passi il non voler concedere l'intervista a bordo campo, ma esce dal campo senza stringere la mano all'allenatore avversario.
P.S. 2 - Nota di demerito per la gran parte dei commentatori tv, che temendo il fattore "C" si sono trattenuti dal criticare Lippi e la squadra, hanno voluto vedere il bicchiere mezzo pieno, per poi massacrarlo di fronte alla debacle.
Un disastro annunciato, per chi non si era foderato gli occhi in attesa del fattore "C" o in imbarazzo per certe convocazioni dall'organico non proprio stellare della Juventus di quest'anno. Come nell'86, credere nel vecchio gruppo dei campioni del mondo di quattro anni prima è stato l'errore di fondo. Un errore a cui non era possibile rimediare con un paio di innesti confusi dell'ultima ora. Inutile accapigliarsi per una o due convocazioni diverse, o per gli errori tattici (a dire il vero clamorosi) di Lippi, sono due anni che lo vado dicendo: è l'impostazione di fondo ad essere sbagliata. Specchio di un'Italia aggrappata al passato, che crede poco nei suoi giovani e che ha paura di rischiare scoprendo i nuovi talenti. La peggior mistificazione che in queste ore tentano di far passare è che non c'erano «fenomeni» a casa, né giovani talenti per rimpiazzare i "bolliti" (e bastava seguire l'ultimo campionato per accorgersi che erano "bolliti").
Falso. Certo, i talenti si coltivano, non si improvvisano a una settimana dall'esordio. Ma sono convinto che se due anni fa si fosse intrapresa con decisione la strada del rinnovamento, un gruppo più giovane avrebbe avuto il tempo di crescere molto. Con ogni probabilità non avrebbe rivinto il Mondiale, ma neanche perso in modo così indegno. E il giorno dopo non ci saremmo trovati un cumulo di macerie, ma delle basi promettenti su cui lavorare.
Adesso il presidente della Federazione, anziché dimettersi, vorrebbe far pesare il suo fallimento, quello di Lippi e di questo gruppo, sull'intero nostro movimento calcistico, come se quella vista ieri fosse la massima espressione possibile del nostro calcio, invece che una rispettabile, ma pur sempre particolare versione, quella frutto delle scelte della Federazione e di Lippi. E' quindi un fallimento che ha nomi e cognomi ben precisi, non è «la crisi del nostro calcio», se non per chi non riesce a vedere al di là di Juve e Milan. Adesso non provino a scendere da quel «carro» su cui, se avessero vinto, non avrebbero voluto - giustamente - far salire i loro critici.
Non è un gran bel «metterci la faccia», non è un assumersi le proprie responsabilità, dire che il fallimento della Nazionale «è il fallimento del calcio italiano e dei club» (Cannavaro) e che «il panorama del calcio italiano è questo» (Buffon). E', anzi, un atto di indicibile arroganza: far ricadere la colpa della disfatta anche su chi non c'era, dando per scontato che nessun altro avrebbe saputo far meglio.
P.S. 1 - Lippi come Domenech. Passi il non voler concedere l'intervista a bordo campo, ma esce dal campo senza stringere la mano all'allenatore avversario.
P.S. 2 - Nota di demerito per la gran parte dei commentatori tv, che temendo il fattore "C" si sono trattenuti dal criticare Lippi e la squadra, hanno voluto vedere il bicchiere mezzo pieno, per poi massacrarlo di fronte alla debacle.
Wednesday, June 23, 2010
Per ora è Argentina-Brasile
A giudicare da quanto visto finora Argentina e Brasile non sembrano avere rivali in questo Mondiale (se non la Spagna, se si decide ad essere meno leziosa e più concreta). Non che non abbiano i loro punti deboli: se è enorme la qualità del possesso palla e delle soluzioni offensive (un Messi stellare cui solo la sfortuna ha negato finora il gol), le due difese non sono mai state finora messe davvero alla prova (e visto i valori espressi dalle altre squadre, non è detto che lo siano nel proseguio del torneo). Ma Demichelis viaggia su una media di uno o due errori potenzialmente decisivi a partita (e Gutierrez non sembra da meno) e Lucio, sia pure fisicamente arrembante nelle sue sortite in avanti, non è immune da amnesie difensive. A ciò si aggiunge il fatto che entrambe le squadre non proteggono a sufficienza le loro difese filtrando a centrocampo. Mascherano (o Bolatti) non sono certo Cambiasso e Felipe Melo conferma tutte le lacune mostrate in Italia. Ieri Veron ha giocato bene, ma rallenta sempre troppo il gioco e questo è limitante per Messi. Con gli ingressi di Di Maria e Pastore la squadra aveva decisamente una marcia in più, anche con lui in campo, e si è visto: da lì in avanti i gol e le azioni più belle.
Sono nel complesso due grandi squadre che stanno esprimendo un buon gioco e una buona vena realizzativa. L'unico modo per metterle in difficoltà è non cedere al loro possesso palla, costringerle a giocare di più nella loro metà campo. Il problema è che non vedo per ora squadre in grado di farlo, tranne (forse) la Spagna. Due squadre che mi hanno ben impressionato e che potrebbero arrivare lontano sono Uruguay (impenetrabile in difesa e con una discreta qualità in avanti) e Cile. E stasera una sorpresa potrebbe arrivare dal Ghana.
P.S. 1 - Domenech che non stringe la mano all'allenatore avversario è per fortuna l'ultima brezza di boria francese in questo mondiale. Sulla disfatta francese - può essere politicamente scorretto ipotizzarlo, visto che nessuno mi pare si sia azzardato - può aver pesato un problema di integrazione. Attendiamo "tutta la verità" che Evra ha promesso di rivelare tra qualche giorno.
P.S. 2 - Noi italiani non abbiamo bisogno di un video come quello realizzato da quattro simpatici ragazzotti tedeschi per scongiurare la nostra vittoria al Mondiale. Noi sappiamo già che non sarà la Germania a vincerlo... Fa comunque piacere sapere che incutiamo ancora un certo terrore, con il nostro "quid" di imponderabile che i tedeschi non riusciranno mai a comprendere del nostro calcio.
Sono nel complesso due grandi squadre che stanno esprimendo un buon gioco e una buona vena realizzativa. L'unico modo per metterle in difficoltà è non cedere al loro possesso palla, costringerle a giocare di più nella loro metà campo. Il problema è che non vedo per ora squadre in grado di farlo, tranne (forse) la Spagna. Due squadre che mi hanno ben impressionato e che potrebbero arrivare lontano sono Uruguay (impenetrabile in difesa e con una discreta qualità in avanti) e Cile. E stasera una sorpresa potrebbe arrivare dal Ghana.
P.S. 1 - Domenech che non stringe la mano all'allenatore avversario è per fortuna l'ultima brezza di boria francese in questo mondiale. Sulla disfatta francese - può essere politicamente scorretto ipotizzarlo, visto che nessuno mi pare si sia azzardato - può aver pesato un problema di integrazione. Attendiamo "tutta la verità" che Evra ha promesso di rivelare tra qualche giorno.
P.S. 2 - Noi italiani non abbiamo bisogno di un video come quello realizzato da quattro simpatici ragazzotti tedeschi per scongiurare la nostra vittoria al Mondiale. Noi sappiamo già che non sarà la Germania a vincerlo... Fa comunque piacere sapere che incutiamo ancora un certo terrore, con il nostro "quid" di imponderabile che i tedeschi non riusciranno mai a comprendere del nostro calcio.
Tuesday, June 22, 2010
Una volta tanto...
Per una volta l'Italia si distingue in positivo da Gran Bretagna, Francia e Germania, che in un comunicato congiunto annunciano l'introduzione di una tassa specifica sulle banche. Ne proporranno l'adozione al G20 di Toronto, ma l'impressione è che intendano proseguire anche unilateralmente. E' giusto dare atto a Berlusconi di non essersi intruppato in cotanta demagogia, il cui unico effetto sarà quello di aumentare i costi dei servizi che verranno tassati. In un raro sussulto di liberalismo la scorsa settimana Berlusconi ha contrastato, definendola «ridicola», l'idea di una tassa europea sulle transazioni finanziarie, che colpirebbe buoni e cattivi investitori allo stesso modo, probabilmente facendo fuggire le transazioni in piazze meno demagogiche. Postilla su Londra: se questi sono i chiari di luna del nuovo governo Tory...
Retoriche contrapposte
L'unico a credere, o a fingere di credere, ancora nella minaccia di secessione è Fini. Alla retorica leghista da comizio, ha contrapposto una retorica identica seppure di segno opposto, ma pur sempre di retorica si tratta. Tutti sanno che la Padania non esiste come concetto storico e geografico (forse anche i leghisti). Esiste il lombardo-veneto da una parte, come territorio ex dominio austriaco, e il Piemonte dall'altra. Ci credano o meno i leghisti duri e puri importa poco. Importa, e Fini dovrebbe capirlo, che la Padania esiste dal punto di vista politico come "questione settentrionale". Tra le righe l'ha spiegato Bossi a la Repubblica: la "Padania" non è che quella «parte del Paese che produce e paga le tasse e che tiene in piedi tutta la baracca» e «per questo vuole il cambiamento». Può piacere o meno, ma da quelle parti la pensano così. Di fronte a tale questione squisitamente politica, Fini può foderarsi gli occhi e combattere la sua battaglia contro i mulini a vento del separatismo. Magari qualche simpatia al Centrosud la recupera. Ma sarebbe più intelligente - proprio per non lasciare praterie alla Lega - provare a dare qualche risposta concreta a quel pezzo di Paese che tutti i torti non li ha.
Monday, June 21, 2010
Porre fine all'agonia
Si dice che sbagliare è umano ma perseverare... Ebbene, Lippi non solo persevera, sprofonda con i suoi errori. Il rebus non si può risolvere perché la madre di tutti gli errori è a monte, come ho scritto dopo l'esordio. In breve: non puoi puntare tutto sul vecchio gruppo, salvo all'ultimo momento accorgerti che la squadra va un po' svecchiata, e affidarti a due innesti giovani pretendendo che d'improvviso esplodano, sperimentando moduli e formazioni titolari mai provate prima. Con Criscito gli è andata bene, anche perché il ruolo di terzino è anche meno complesso; ma Marchisio lo sta letteralmente bruciando, per altro in ruoli non suoi. Avesse puntato due anni fa su un gruppo completamente rinnovato, di giovani che poteva far crescere nei tempi giusti, magari oggi ci sarebbe mancato un pizzico d'esperienza, ma la squadra sarebbe stata certamente più brillante e fresca.
Questo l'errore di fondo, ma poi ci sono veri e propri sfondoni tattici dell'ultima ora: Borriello, che non mi fa impazzire, era il più adatto - anche fisicamente - a "fare reparto" da solo, mentre Gilardino e Pazzini hanno bisogno di piedi buoni, molto buoni, al loro fianco. Non ha senso portarsi Di Natale (capocannoniere della serie A) - che non è né Totti né Del Piero né Cassano - per non farlo giocare o non farlo giocare di prima punta. E ancora: pretendi che Marchisio faccia il Perrotta? Potevi portarti Perrotta, non avrebbe sfigurato in questo centrocampo. Iaquinta e Camoranesi hanno avuto una stagione ancora più travagliata di quella di Totti: forse era meglio fossero rimasti a vederlo da casa il Mondiale. E come si fa a togliere Pepe, quanto meno dinamico e intraprendente, per un Camoranesi raccapricciante? E perché infliggere questa umiliazione a un Cannavaro bollito?
Nelle sue conferenze stampa Lippi si copre di ridicolo: dice che contro i difensori alti della Nuova Zelanda bisogna giocare palla a terra e scambi stretti, e mette Iaquinta lasciando fuori Di Natale; dice che a casa non c'erano giocatori in grado di fare la differenza, sapendo di mentire e che le sue scelte non sono affatto state "tecniche". Le convocazioni di Lippi, e le sue formazioni, non aiutano certo a dissipare il sospetto che cerchi di "valorizzare" (si fa per dire, visto gli esiti) l'organico non proprio stellare della Juventus di quest'anno (mai meno di cinque in campo, sei se non si fosse infortunato Buffon). E a voler essere maliziosi, sarebbe interessante sapere quanti tra i convocati e gli stessi titolari di questa nazionale sono assistiti da procuratori nell'orbita del figlio del nostro ct.
Il nostro si conferma comunque il girone più materasso, eppure arriveremo con ogni probabilità secondi. E la mia previsione è che ci arriveremo con tre punti, cioè pareggiando anche con la Slovacchia a fatica. Saremo probabilmente l'unica seconda a qualificarsi con tre punti. Un danno incalcolabile per le nostre possibilità di andare avanti nel torneo, perché arrivando primi avremmo incontrato agli Ottavi una tra Giappone e Danimarca (secondi incontreremmo l'Olanda); ed eventualmente ai Quarti, considerando le difficoltà della Spagna, una tra Svizzera e Cile (mentre arrivando secondi, e battendo l'Olanda agli Ottavi, ci aspetterebbe il Brasile). Insomma, arrivando primi avremmo avuto spalancate le porte della Semifinale (Spagna permettendo), ma è inutile farsi illusioni: la squadra è bollita, Lippi fuso. Meglio augurarsi di uscire quanto prima, per non doverci vergognare oltre.
P.S. - Le squadre europee si confermano ben poca cosa ai Mondiali che si giocano lontani dall'Europa... un mistero. Spagna e Inghilterra possono ancora riprendersi, se no si va verso una finale Brasile - Argentina.
Questo l'errore di fondo, ma poi ci sono veri e propri sfondoni tattici dell'ultima ora: Borriello, che non mi fa impazzire, era il più adatto - anche fisicamente - a "fare reparto" da solo, mentre Gilardino e Pazzini hanno bisogno di piedi buoni, molto buoni, al loro fianco. Non ha senso portarsi Di Natale (capocannoniere della serie A) - che non è né Totti né Del Piero né Cassano - per non farlo giocare o non farlo giocare di prima punta. E ancora: pretendi che Marchisio faccia il Perrotta? Potevi portarti Perrotta, non avrebbe sfigurato in questo centrocampo. Iaquinta e Camoranesi hanno avuto una stagione ancora più travagliata di quella di Totti: forse era meglio fossero rimasti a vederlo da casa il Mondiale. E come si fa a togliere Pepe, quanto meno dinamico e intraprendente, per un Camoranesi raccapricciante? E perché infliggere questa umiliazione a un Cannavaro bollito?
Nelle sue conferenze stampa Lippi si copre di ridicolo: dice che contro i difensori alti della Nuova Zelanda bisogna giocare palla a terra e scambi stretti, e mette Iaquinta lasciando fuori Di Natale; dice che a casa non c'erano giocatori in grado di fare la differenza, sapendo di mentire e che le sue scelte non sono affatto state "tecniche". Le convocazioni di Lippi, e le sue formazioni, non aiutano certo a dissipare il sospetto che cerchi di "valorizzare" (si fa per dire, visto gli esiti) l'organico non proprio stellare della Juventus di quest'anno (mai meno di cinque in campo, sei se non si fosse infortunato Buffon). E a voler essere maliziosi, sarebbe interessante sapere quanti tra i convocati e gli stessi titolari di questa nazionale sono assistiti da procuratori nell'orbita del figlio del nostro ct.
Il nostro si conferma comunque il girone più materasso, eppure arriveremo con ogni probabilità secondi. E la mia previsione è che ci arriveremo con tre punti, cioè pareggiando anche con la Slovacchia a fatica. Saremo probabilmente l'unica seconda a qualificarsi con tre punti. Un danno incalcolabile per le nostre possibilità di andare avanti nel torneo, perché arrivando primi avremmo incontrato agli Ottavi una tra Giappone e Danimarca (secondi incontreremmo l'Olanda); ed eventualmente ai Quarti, considerando le difficoltà della Spagna, una tra Svizzera e Cile (mentre arrivando secondi, e battendo l'Olanda agli Ottavi, ci aspetterebbe il Brasile). Insomma, arrivando primi avremmo avuto spalancate le porte della Semifinale (Spagna permettendo), ma è inutile farsi illusioni: la squadra è bollita, Lippi fuso. Meglio augurarsi di uscire quanto prima, per non doverci vergognare oltre.
P.S. - Le squadre europee si confermano ben poca cosa ai Mondiali che si giocano lontani dall'Europa... un mistero. Spagna e Inghilterra possono ancora riprendersi, se no si va verso una finale Brasile - Argentina.
Chi l'ha visto?
Strano, ieri sera, quel sorrisetto dell'arbitro a Luis Fabiano, appena convalidato il gol del 2 a 0 che ha chiuso la partita. I due tornano insieme verso il centrocampo e l'arbitro lascia intendere di aver avuto l'impressione che Fabiano avesso toccato con il braccio. Mimando il gesto e sorridendo (quasi a voler dire 'ti ho visto'), sembra chiedere conferma al giocatore, il quale ovviamente nega con decisione. Rimane il fatto che pur avendo avuto l'impressione che avesse toccato la palla con il braccio, l'arbitro serenamente convalida e chiede a Fabiano invece che al guardalinee o al quarto uomo. Ovviamente il Brasile si è dimostrato nettamente superiore alla Costa d'Avorio e ha meritato di vincere, ma non ha certo bisogno di certi aiuti. Tra l'altro, il gol in questione, sull'1 a zero, ha chiuso la partita. Qui le immagini.
Friday, June 18, 2010
Riflessi keynesiani
Qualche puntualizzazione in merito alle composte «elaborazioni» di Phastidio.net su questo mio post di ieri.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Mi si rimprovera di aver rappresentato una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia, mentre ad essere stato "macchiettizzato" casomai è il mio post. «Una manovra che tagli le spese riduce la domanda aggregata, punto». A parte il fatto che il «punto» si può mettere solo se le altre "domande" che compongono la domanda aggregata rimangono fisse, e infatti la stessa Bankitalia è stata per la verità molto cauta nel prevedere un possibile effetto recessivo della manovra («a condizioni invariate»), quel che conta ai fini di ciò che mi si contesta è che non ho affatto descritto la Banca d'Italia come un covo di keynesiani. Ho semplicemente scritto che quella specifica, per quanto cauta, previsione, riferita dal direttore centrale Salvatore Rossi in un'audizione al Senato, a mio avviso risente di un'impostazione keynesiana. Dunque, sembrerà un dettaglio, ma leggendo in modo obiettivo il mio post, senza andare alla ricerca di qualcosa da "macchiettizzare" a tutti i costi, non mi pare che identificare come keynesiana una singola valutazione, di un singolo rappresentante, in una singola relazione, equivalga a bollare come keynesiana tutta la Banca d'Italia (e comunque non mi pare equivalga a dare del «mostro» a qualcuno).
«Una riduzione della "crescita" italiana a prefisso telefonico» può certamente verificarsi, ma (ed è questo che intendevo dire nel post) collegarla ai tagli alla spesa pubblica previsti nella manovra - e non, per esempio, alla mancanza di altre politiche - politicamente significa offrire su un piatto d'argento un bell'argomento a chi si oppone ai tagli alla spesa pubblica. E questo certamente al di là delle intenzioni di Banca d'Italia, che non vedo affatto «nelle vesti dell'ottuso suggeritore delle virtù della spesa pubblica», tanto che nella stessa audizione il direttore centrale nella sostanza promuoveva la manovra, ribadiva l'urgenza dei tagli, e anzi suggeriva - come da sempre fa Bankitalia - di proseguire sulla strada dei tagli e delle riforme. Quindi, Dio salvi Bankitalia.
Ho solo osato evidenziare come un particolare riflesso keynesiano rischia (e dal modo in cui tutti i giornali si sono concentrati su quel passaggio della relazione si direbbe che quel rischio sia fondato) di rafforzare le convinzioni dei tanti, a destra come a sinistra, che vedono nella spesa pubblica - nelle sue varie forme - un fattore di promozione della crescita. Basta sentire Bersani stamattina a Radio Anch'io per rendersene conto. Per quanto riguarda i 'finiani' (spero che anche questo non sia un insulto, sarà ripetitivo, ma lo si prenda per comodità espositiva), qualche «proposta operativa» l'hanno già avanzata e Lakeside Capital ha segnalato alcune possibili controindicazioni.
P.S. - Poi, questa mattina, navigando in cerca di pareri più autorevoli del sottoscritto per accertarmi di non aver scritto fesserie - sì, lo confesso, non sono un economista, né un analista finanziario - mi imbatto in un articolo di Oscar Giannino, sul numero di questa settimana di Tempi. Dà ragione a Formigoni sui «tagli lineari» alle regioni, mentre nel mio post mi permettevo di dubitare che la reale preoccupazione delle regioni fosse quella di evitare tagli punitivi nei confronti delle più virtuose tra di loro. Ma di Bankitalia Giannino sembra rappresentare una visione che Phastidio.net definirebbe forse «macchiettistica». Nel suo articolo, Giannino anticipa una possibile obiezione ai suoi argomenti («Ma che cosa scrivi, caro Giannino? La Banca d'Italia sostiene invece che la manovra Tremonti taglia di mezzo punto la già troppo asfittica crescita italiana, che sembrava fin troppo ottimista quantificare all'1 per cento di Pil in più nel 2010...»).
Ed ecco la replica di Giannino al suo immaginario interlocutore: «Questo è un altro paio di maniche, signori miei. Io non sono keynesiano come gli economisti dell'ufficio studi di Bankitalia, che adottano multipli alti della spesa pubblica ai fini degli effetti sulla domanda, ma detto questo noi siamo comunque costretti a seguire la via di tagli vigorosi al deficit tendenziale». Siamo almeno in due ad avere una «visione macchiettistica» della Banca d'Italia. Non credo Giannino sia ottimista sulla crescita del Pil italiano (come non lo sono io), ma evidentemente anche lui una frecciatina alla relazione meno spesa-meno crescita espressa in quell'audizione l'ha voluta assestare.
Thursday, June 17, 2010
Eurodemagogie
Al grido demagogico di «chi ha provocato la crisi paghi», un'Europa che si crede vittima della finanza e della speculazione, e non delle sue sciagurate politiche di bilancio (tanta spesa e poca crescita), crede di vendicarsi imponendo una tassa sulle banche e promuovendo l'idea di una tassa mondiale sulle transazioni finanziarie durante il prossimo vertice del G20. Tasse che ovviamente le banche e gli operatori finanziari faranno pagare a chi usufruisce dei loro servizi, aumentandone i costi.
Al vertice Ue si sarebbe deciso, inoltre, di tener conto anche della dinamica del debito e non solo del debito pubblico, ma anche di quello privato, ai fini della valutazione di sostenibilità dei conti pubblici degli stati membri. Bene per l'Italia, la cui dinamica in questo momento è relativamente lenta e che presenta un livello relativamente basso di indebitamento privato. Ha senso tenerne conto, ma ora bisogna vedere se i mercati se la berranno... perché restano loro a decidere se, e a quali interessi, acquistare i titoli di debito emessi dagli stati... e quindi se il Paese che li emette ha conti sostenibili o meno.
Al vertice Ue si sarebbe deciso, inoltre, di tener conto anche della dinamica del debito e non solo del debito pubblico, ma anche di quello privato, ai fini della valutazione di sostenibilità dei conti pubblici degli stati membri. Bene per l'Italia, la cui dinamica in questo momento è relativamente lenta e che presenta un livello relativamente basso di indebitamento privato. Ha senso tenerne conto, ma ora bisogna vedere se i mercati se la berranno... perché restano loro a decidere se, e a quali interessi, acquistare i titoli di debito emessi dagli stati... e quindi se il Paese che li emette ha conti sostenibili o meno.
Manovra accerchiata
No, non mi fido. Non mi fido dei cambiamenti che da più parti si vorrebbero apportare alla manovra, per lo più in nome della crescita. A saldi invariati, il governo si dice aperto a contributi e modifiche migliorative. Quindi, ben vengano altri tagli, ma qui e là si riaffacciano brutti modi di ri-spendere subito le poche risorse raccolte. La manovra va difesa così com'è, purtroppo in Italia non c'è spazio per i distinguo, perché nel dibattito su come migliorarla si nascondono in troppi che vogliono solo annacquarla per favorire le loro clientele. Se si apre un pertugio, non si sa mai chi ci si può infilare.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
I 'finiani', per esempio, abboccano in toto alla versione keynesiana di Bankitalia secondo cui ogni cent tagliato di spesa pubblica frena la crescita, già fioca, e quindi giù con le proposte per sostenerla, rischiando però di ricadere nel vizio dei pacchetti di stimolo (per giunta con pochissime risorse). In breve, la ricetta prevederebbe non meglio identificati investimenti "tecnologici" qui e là e il ritorno del credito d'imposta per le imprese, a sostituire, scrivono, la «marea di miliardi di euro che ogni anno lo Stato dà alle imprese sotto forma di contributi a fondo perduto». Ma Lakeside Capital si è già incaricato di segnalare le controdindicazioni di questa politica. E il dubbio è che i maggiori tagli proposti (ripeto: ben vengano) servano a dispensare gli amati statali dai "sacrifici" previsti dalla manovra, come si poteva facilmente scorgere in un post di due giorni fa dell'on. Bocchino.
Diffido anche delle reali intenzioni delle regioni e delle buone ragioni di bravi governatori come Formigoni. E' vero che tagli uguali per tutte le regioni, in proporzione ai trasferimenti ricevuti, non è il migliore dei modi di procedere, perché non si distingue tra virtuosi e viziosi, premiando i primi e colpendo i secondi. Ma, primo, anche nelle regioni più virtuose la spesa è tale che esistono ampi margini per tagliare (pensioni di invalidità, eccessi di personale, sussidi vari, enti e imprese inutili); secondo, proviamo solo ad immaginare cosa accadrebbe se il governo, d'un tratto, dicesse, alla Lombardia che è stata brava togliamo 5, e alla Calabria che è stata pessima togliamo 15, e in mezzo tutte le altre. E' vero che sarebbe questa una logica coerente con il federalismo fiscale, ma per ora il meccanismo ancora non c'è e un criterio simile per questa manovra sarebbe visto come ancora più arbitrario.
Resta inoltre un pesante interrogativo. Se Tremonti e Berlusconi hanno dall'inizio assicurato disponibilità a discutere sul come tagliare, fermo restando il quanto, non dovrebbero esserci problemi. Perché, se il problema è davvero non punire le regioni virtuose, la Conferenza delle Regioni non propone al governo un meccanismo per cui i tagli colpiscano meno chi ha ben governato? Dunque, o mentono Tremonti e Berlusconi (non sono disponibili a discutere, neanche sul come), oppure le regioni ci marciano: in realtà, vogliono solo subire minori tagli complessivamente, e non distribuirli in modo più intelligente e meritocratico.
Eurofollie ed eurotruffe
A quanto pare di capire il Parlamento europeo avrebbe dato il via libera ad un nuovo sistema di etichettatura degli alimenti per evidenziarne i valori nutrizionali, cioè la quantità di zuccheri, grassi, sale e calorie contenute in 100 grammi di prodotto. Più informazione, fin qui niente di male. Se non che una norma vieterebbe ai prodotti con una eccessiva presenza di zuccheri (non più del 10%), grassi saturi (non più di 4 grammi) o sale (non più di 2mg), di essere pubblicizzati con richiami salutistici o al benessere fisico. Insomma, se il prodotto è troppo dolce, non si potrà dire che "fa bene". Avete presente la pubblicità di Nutella pezzo forte della prima colazione degli Azzurri? Dimenticatevela.
Un problema non da poco per la nostra e altrui industria dolciaria, se l'Ue dovesse avviare una campagna terroristica obbligando ad apporre sulle etichette diciture come "provoca obesità", o "nuoce gravemente alla salute", come sulle sigarette. Non siamo ancora a questo punto, ma quel divieto è un primo passo verso quella direzione. Una norma che l'emendamento 191 avrebbe abrogato, se Sonia Alfano (Idv) e Leonardo Domenici (Pd) non avessero votato contro, unici tra gli eurodeputati italiani. La votazione infatti si è chiusa in parità (309 sì contro 309 no), quindi l'emendamento è stato respinto per un solo voto e il divieto confermato. Grazie.
Ma l'Europa non è nuova a simili scemenze: «A subire gli effetti delle normative comunitarie - accusa Coldiretti in una nota - lo scorso anno era stato un altro importante prodotto della dieta mediterranea come il vino per il quale... è stata autorizzata la possibilità di zuccheraggio per i paesi del nord Europa, ma anche la produzione e la commercializzazione di vini ottenuti dalla fermentazione di frutti diversi dall'uva come lamponi e ribes». Inoltre, in materia di formaggi la Commissione ha respinto qualche mese fa una proposta italiana per rendere obbligatoria l'indicazione di origine del latte impiegato nel latte a lunga conservazione e in tutti i prodotti lattiero-caseari. Altra contraddizione sospetta, l'obbligo di etichettatura dei prodotti agricoli impiegati per l'allevamento solo per la carne bovina, ma non per quella di maiale.
E' ovvio che la legislazione in questa materia viene orientata da blocchi di Paesi che si coalizzano per danneggiare i prodotti altrui e avvantaggiare i propri, per cui andrebbe del tutto abolita.
Un problema non da poco per la nostra e altrui industria dolciaria, se l'Ue dovesse avviare una campagna terroristica obbligando ad apporre sulle etichette diciture come "provoca obesità", o "nuoce gravemente alla salute", come sulle sigarette. Non siamo ancora a questo punto, ma quel divieto è un primo passo verso quella direzione. Una norma che l'emendamento 191 avrebbe abrogato, se Sonia Alfano (Idv) e Leonardo Domenici (Pd) non avessero votato contro, unici tra gli eurodeputati italiani. La votazione infatti si è chiusa in parità (309 sì contro 309 no), quindi l'emendamento è stato respinto per un solo voto e il divieto confermato. Grazie.
Ma l'Europa non è nuova a simili scemenze: «A subire gli effetti delle normative comunitarie - accusa Coldiretti in una nota - lo scorso anno era stato un altro importante prodotto della dieta mediterranea come il vino per il quale... è stata autorizzata la possibilità di zuccheraggio per i paesi del nord Europa, ma anche la produzione e la commercializzazione di vini ottenuti dalla fermentazione di frutti diversi dall'uva come lamponi e ribes». Inoltre, in materia di formaggi la Commissione ha respinto qualche mese fa una proposta italiana per rendere obbligatoria l'indicazione di origine del latte impiegato nel latte a lunga conservazione e in tutti i prodotti lattiero-caseari. Altra contraddizione sospetta, l'obbligo di etichettatura dei prodotti agricoli impiegati per l'allevamento solo per la carne bovina, ma non per quella di maiale.
E' ovvio che la legislazione in questa materia viene orientata da blocchi di Paesi che si coalizzano per danneggiare i prodotti altrui e avvantaggiare i propri, per cui andrebbe del tutto abolita.
La Turchia che prende il largo
Un bel contributo al dibattito sulla politica estera turca, che dopo gli ultimi eventi si sta imponendo alla nostra attenzione, lo dà oggi Christian Rocca con questo articolo sul Sole:
«Tutto il mondo si chiede se ci siamo persi la Turchia, dopo gli ammiccamenti ad Hamas, gli accordi con l'Iran degli ayatollah, le accuse feroci a Israele, il no alle sanzioni Onu sul nucleare di Teheran, gli schiaffi agli Stati Uniti... Erdogan guarda oltre l'Europa. Cerca nuove sponde. Si tiene le mani libere. Chiede di entrare nell'Unione europea e ha ottenuto lo status di osservatore nell'Unione africana. Discute iniziative comuni con la Lega araba ed è più attivo che mai nell'Organizzazione della conferenza islamica. La settimana scorsa ha convocato Siria, Libano e Giordania per costruire l'Unione mediorientale di libero scambio, su modello e in alternativa all'Unione europea. Fa accordi bilaterali commerciali con i paesi limitrofi, apre ambasciate in Africa, punta ai mercati dell'area turcofona che si estende fino alla Cina, agisce da mediatore nei Balcani, va a braccetto con i russi, prova a ritagliarsi il ruolo di paciere con l'Iran e a scalzare Egitto e Arabia saudita come guida della regione. Cerca, infine, di sfruttare la posizione geostrategica della Turchia e di farne il crocevia obbligato delle rotte energetiche che collegano i paesi produttori di petrolio e gas ai consumatori europei. Questo neogollismo turco ha consolidato i pregiudizi europei, ingigantito le preoccupazioni israeliane ed evidenziato l'imbambolamento di Barack Obama che un anno fa è andato in Turchia a parlare di "partnership modello" tra Washington e Ankara».L'impressione è che la Turchia sia sempre più un «soggetto politico autonomo nello scacchiere internazionale, molto disinvolto, parecchio arrogante, forse ingenuo nel credere di poter guardare sia a est sia a ovest senza creare guai innanzitutto a se stesso, magari capace di dissimulare i piani più o meno segreti di smantellamento della laicità della repubblica e di islamizzazione del paese, certamente campione di una nuova retorica pan-musulmana, populista e con velleità neo-ottomane».
Wednesday, June 16, 2010
Involontaria conferma dell'Anm: spiati in 6-7 milioni
Preso dalla foga di smentire, Palamara si copre di ridicolo: 150mila intercettati per Berlusconi; 132mila per l'Anm. Siamo lì, l'ordine di grandezza è quello e la frettolosa smentita di Palamara in realtà non fa che confermare. E considerando 50 interlocutori per utenza (stima prudente per quanto tempo oggi i magistrati possono far durare l'intercettazione), arriviamo a un numero impressionante di italiani "ascoltati": tra i 6 e i 7 milioni.
Intanto, la prima indagine di cui si abbia notizia su una fuga di notizie da una procura non trova molto spazio sui giornali. Ricordate le intercettazioni della Procura di Trani che riguardavano il premier, il direttore del Tg1 Minzolini e un membro dell'Agcom, e che finirono sui giornali? Ebbene, la procura di Bari sta indagando su come ci siano finite. Un colonnello della Guardia di Finanza è stato già accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per aver passato informazioni a una giornalista del Corriere. Ma nella fuga di notizie sarebbero coinvolti anche ben quattro magistrati, i cui nomi (come quelli dei giornalisti) sono ancora coperti dal segreto.
A valutare la correttezza del loro comportamento sarà eventualmente il Csm, mentre per quanto riguarda i profili penali, è competente la Procura di Lecce. Ma dall'indagine sembra trovare conferma quella connivenza criminale (sì, criminale, perché in violazione del segreto istruttorio) tra magistrati e giornalisti che sospettiamo essere dietro le paginate di intercettazioni ed elementi di indagini in corso che finiscono sui giornali.
Intanto, la prima indagine di cui si abbia notizia su una fuga di notizie da una procura non trova molto spazio sui giornali. Ricordate le intercettazioni della Procura di Trani che riguardavano il premier, il direttore del Tg1 Minzolini e un membro dell'Agcom, e che finirono sui giornali? Ebbene, la procura di Bari sta indagando su come ci siano finite. Un colonnello della Guardia di Finanza è stato già accusato di rivelazione del segreto d'ufficio per aver passato informazioni a una giornalista del Corriere. Ma nella fuga di notizie sarebbero coinvolti anche ben quattro magistrati, i cui nomi (come quelli dei giornalisti) sono ancora coperti dal segreto.
A valutare la correttezza del loro comportamento sarà eventualmente il Csm, mentre per quanto riguarda i profili penali, è competente la Procura di Lecce. Ma dall'indagine sembra trovare conferma quella connivenza criminale (sì, criminale, perché in violazione del segreto istruttorio) tra magistrati e giornalisti che sospettiamo essere dietro le paginate di intercettazioni ed elementi di indagini in corso che finiscono sui giornali.
Perché le Procure si sono mosse così tardi per Spatuzza?
Bene ha fatto il Viminale a non concedere a Spatuzza lo status di "pentito" e quindi a non ammetterlo al programma di protezione speciale disposto per i collaboratori di giustizia (mentre restano «le ordinarie misure di protezione ritenute adeguate al livello specifico di rischio segnalato»). Decisione non solo legittima, ma sacrosanta, visto che di tutta evidenza le tre procure - di Firenze, Caltanissetta e Palermo - che hanno avanzato la richiesta, lo hanno fatto in ragione delle dichiarazioni rese da Spatuzza ben oltre il limite dei 180 giorni previsto dalla legge. Per impedire il malcostume delle "dichiarazioni a rate" o "ad orologeria", infatti, la legge stabilisce che per essere ammesso al programma di protezione speciale, il "pentito" debba dichiarare non tutto quello che sa, ma almeno tutto quello di cui parlerà, una specie di sommario quindi, entro 180 giorni da quando ha espresso la disponibilità a collaborare. Abbondantemente al di fuori di quanto riferito entro i 180 giorni, quando addirittura escluse coinvolgimenti di politici nelle stragi del '92-'93, sono le successive rivelazioni di Spatuzza sul presunto "patto" tra Stato e mafia che coinvolgerebbe Dell'Utri e Berlusconi.
Per le tre procure richiedenti - ma ancora per nessun giudice - Spatuzza resta «attendibile», ma viene allora da chiedersi come mai non abbiano avanzato prima al Ministero la richiesta di inserirlo nel programma, cioè fin da quando - dal 26 giugno del 2008 - iniziò a parlare della strage di Via D'Amelio. Da quel momento, e per i sei mesi successivi, la richiesta sarebbe stata certamente accolta. Perché tanto scandalo ora, se sono sembrati gli stessi procuratori i primi a non credergli? Il sospetto è che l'abbiano cominciato a ritenere «attendibile» solo quando ha chiamato in causa Dell'Utri e Berlusconi. E' bene ricordare, inoltre, che l'esclusione dal programma dei "pentiti" è un provvedimento meramente amministrativo, spetta comunque ai giudici valutare nel merito l'attendibilità dei racconti.
Per le tre procure richiedenti - ma ancora per nessun giudice - Spatuzza resta «attendibile», ma viene allora da chiedersi come mai non abbiano avanzato prima al Ministero la richiesta di inserirlo nel programma, cioè fin da quando - dal 26 giugno del 2008 - iniziò a parlare della strage di Via D'Amelio. Da quel momento, e per i sei mesi successivi, la richiesta sarebbe stata certamente accolta. Perché tanto scandalo ora, se sono sembrati gli stessi procuratori i primi a non credergli? Il sospetto è che l'abbiano cominciato a ritenere «attendibile» solo quando ha chiamato in causa Dell'Utri e Berlusconi. E' bene ricordare, inoltre, che l'esclusione dal programma dei "pentiti" è un provvedimento meramente amministrativo, spetta comunque ai giudici valutare nel merito l'attendibilità dei racconti.
Tuesday, June 15, 2010
I dubbi (tardivi) di Lippi
Tanto in basso erano scese le aspettative per questa nazionale dopo le ultime amichevoli, che visto l'esordio di ieri sera c'è chi ha tirato un sospiro di sollievo, non pochi commentatori in tv hanno voluto vedere il bicchiere mezzo pieno. Per quanto mi riguarda, nel bicchiere c'è un ultimo amaro sorso. Avevo pronosticato una sconfitta. Non è che avessi sottovalutato i nostri, ho sopravvalutato il Paraguay, da cui mi aspettavo qualcosa in più a livello di tecnica individuale, mentre si sono rivelati davvero scarsi, incapaci di impostare un contropiede e di azzeccare due passaggi di seguito, e per giunta terribilmente lenti, persino più dei riflessi di Chiellini. Insomma, il nostro si conferma un girone materasso e la partita di ieri sera una delle più noiose giocate fino ad ora (dopo Olanda-Danimarca). Loro un gol, un tiro in porta nel primo tempo e uno nel secondo; noi un gol regalato dalla sfarfallata del loro portiere, un "dieci piani di morbidezza" srotolato da Montolivo nel primo tempo e due tiri in porta nel secondo (Pepe e di nuovo Montolivo). Non è che non siamo stati "concreti" sotto porta, è che non abbiamo proprio creato occasioni da gol, e sul finale l'arbitro ci ha graziati evitando di estrarre il secondo giallo su Camoranesi.
Quando ha ripreso la guida della nazionale, Lippi aveva due strade davanti a sé: usare il suo prestigio per costruire e far crescere un nuovo gruppo, puntando sui giovani e due-tre 'esperti' (per esempio Buffon, Pirlo e De Rossi); o affidarsi al vecchio gruppo dei "reduci" del 2006. Ha scelto la seconda strada e l'ha imposta a tutti con decisione, chiedendo rispetto e fiducia. Fino a pochi giorni dal Mondiale, quando evidentemente ha cominciato a dubitare e molto "italianamente" a inseguire una confusa via di mezzo, né carne né pesce.
In questi due anni ha mantenuto per sette undicesimi la stessa squadra del 2006. Improvvisamente, a pochi giorni dalle convocazioni, ha cominciato a capire che il gruppo andava svecchiato. Prima ha fatto fuori Grosso dai 23, poi Camoranesi dagli 11 titolari. E infine, sorprendendo tutti, ha escluso Di Natale dalla prima per fare spazio a Marchisio in un modulo inedito. Io avrei intrapreso dall'inizio la prima strada, puntando sui giovani. Ma chi? Non ci sono giovani di talento, mi sento ripetere. Eppure, secondo me è solo una questione di notorietà e in due anni si poteva costruire un buon gruppo. Ma ora è troppo tardi per affidarsi totalmente ai giovani che non si sono fatti crescere in questi due anni e per "sperimentare" nuovi moduli.
Per di più, infatti, in preda ad un evidente stato confusionale, Lippi ha adottato per l'esordio un modulo e una formazione mai provati prima. Iaquinta, Marchisio e Pepe dietro ad un'unica punta, Gilardino. E' dovuto tornare in fretta al 4-4-2 nel secondo tempo, inserendo uno alla volta Camoranesi e Di Natale, pur non riuscendo tuttavia a nascondere i suoi errori. La squadra è migliorata davanti, ma i problemi noti rimangono: Iaquinta ha passato una stagione travagliata ed è un blocco di marmo; Camoranesi e Zambrotta bolliti. Cannavaro non è più quello del 2006. Con Criscito gli è andata benino, ma con Marchisio malissimo. Montolivo è ancora acerbo, senza ruolo. Gilardino poco assistito e lento; Di Natale ha dimostrato già allo scorso Europeo di essere da Udinese ma non da nazionale.
Ma ormai è tardi per tornare indietro, gli uomini sono questi. Proverei a mettere Di Natale al centro dell'attacco, più vicino possibile alla porta, dove potrebbe meglio sfruttare la vena realizzativa mostrata durante tutto il campionato. Assistito da Pepe e Iaquinta. A centrocampo De Rossi, Palombo finché Pirlo è infortunato (tanto vale avere più sostanza se in quel ruolo non abbiamo alternative di qualità) e Montolivo. Oppure, Pazzini al centro e Di Natale seconda punta. A centrocampo Pepe a destra e Montolivo a sinistra, con De Rossi e Palombo sempre al centro.
In attesa di Brasile e Spagna, le altre "grandi" che hanno giocato finora non sono andate molto meglio di noi. Solo la Germania ha impressionato (in gran forma Klose e Podolski), ma l'Australia era ben poca cosa. Probabile che i tedeschi, compatti e organizzati ma non eccelsi, facciano come al solito un buon Mondiale, pur senza arrivare in cima. Francia-flop come previsto, dovrà guardarsi da Uruguay e Sudafrica e, soprattutto, dal solito Domenech (che ha lasciato fuori i più brillanti tra i suoi, Henry e Malouda). L'Argentina mi ha deluso: solo Messi, ma non tutte le squadre lo lasceranno in pace come hanno fatto i nigeriani. Per il resto, tanta disorganizzazione, e le "maradonate" rischiano di pesare: non convocati Cambiasso e Zanetti, fuori Milito per un Tevez che è un doppione inutile di Messi, e Veron in mezzo lento come il 30 barrato in manovra. Bene l'Inghilterra di Capello (gli Usa erano la squadra più ostica tra quelle incontrate dalle "grandi" all'esordio), ma quanto peserà l'insicurezza in porta?
Ha deluso anche l'Olanda, impacciata a aiutata solo dalla fortuna contro una buona ma grigia Danimarca. Tra le africane tutte le aspettative sono per Ghana e Costa d'Avorio. Finora Camerun e Nigeria hanno deluso, mentre il Sudafrica potrebbe essere la sorpresa. Vedo sicure agli Ottavi dai primi sei gironi Argentina e Corea del Sud, Inghilterra e Stati Uniti, Germania e Ghana, Olanda e Italia. A rischio invece la Francia, con Uruguay, Messico e Sudafrica minacciose. Al di là delle favorite Spagna e Brasile, due euri per la vittoria finale li punterei sulla Costa d'Avorio, ma anche sull'Inghilterra con il valore aggiunto Capello. Considerate che mai una squadra europea ha vinto un Mondiale fuori dall'Europa, ma questa volta non c'è fuso orario e la temperatura è fresca.
Quando ha ripreso la guida della nazionale, Lippi aveva due strade davanti a sé: usare il suo prestigio per costruire e far crescere un nuovo gruppo, puntando sui giovani e due-tre 'esperti' (per esempio Buffon, Pirlo e De Rossi); o affidarsi al vecchio gruppo dei "reduci" del 2006. Ha scelto la seconda strada e l'ha imposta a tutti con decisione, chiedendo rispetto e fiducia. Fino a pochi giorni dal Mondiale, quando evidentemente ha cominciato a dubitare e molto "italianamente" a inseguire una confusa via di mezzo, né carne né pesce.
In questi due anni ha mantenuto per sette undicesimi la stessa squadra del 2006. Improvvisamente, a pochi giorni dalle convocazioni, ha cominciato a capire che il gruppo andava svecchiato. Prima ha fatto fuori Grosso dai 23, poi Camoranesi dagli 11 titolari. E infine, sorprendendo tutti, ha escluso Di Natale dalla prima per fare spazio a Marchisio in un modulo inedito. Io avrei intrapreso dall'inizio la prima strada, puntando sui giovani. Ma chi? Non ci sono giovani di talento, mi sento ripetere. Eppure, secondo me è solo una questione di notorietà e in due anni si poteva costruire un buon gruppo. Ma ora è troppo tardi per affidarsi totalmente ai giovani che non si sono fatti crescere in questi due anni e per "sperimentare" nuovi moduli.
Per di più, infatti, in preda ad un evidente stato confusionale, Lippi ha adottato per l'esordio un modulo e una formazione mai provati prima. Iaquinta, Marchisio e Pepe dietro ad un'unica punta, Gilardino. E' dovuto tornare in fretta al 4-4-2 nel secondo tempo, inserendo uno alla volta Camoranesi e Di Natale, pur non riuscendo tuttavia a nascondere i suoi errori. La squadra è migliorata davanti, ma i problemi noti rimangono: Iaquinta ha passato una stagione travagliata ed è un blocco di marmo; Camoranesi e Zambrotta bolliti. Cannavaro non è più quello del 2006. Con Criscito gli è andata benino, ma con Marchisio malissimo. Montolivo è ancora acerbo, senza ruolo. Gilardino poco assistito e lento; Di Natale ha dimostrato già allo scorso Europeo di essere da Udinese ma non da nazionale.
Ma ormai è tardi per tornare indietro, gli uomini sono questi. Proverei a mettere Di Natale al centro dell'attacco, più vicino possibile alla porta, dove potrebbe meglio sfruttare la vena realizzativa mostrata durante tutto il campionato. Assistito da Pepe e Iaquinta. A centrocampo De Rossi, Palombo finché Pirlo è infortunato (tanto vale avere più sostanza se in quel ruolo non abbiamo alternative di qualità) e Montolivo. Oppure, Pazzini al centro e Di Natale seconda punta. A centrocampo Pepe a destra e Montolivo a sinistra, con De Rossi e Palombo sempre al centro.
In attesa di Brasile e Spagna, le altre "grandi" che hanno giocato finora non sono andate molto meglio di noi. Solo la Germania ha impressionato (in gran forma Klose e Podolski), ma l'Australia era ben poca cosa. Probabile che i tedeschi, compatti e organizzati ma non eccelsi, facciano come al solito un buon Mondiale, pur senza arrivare in cima. Francia-flop come previsto, dovrà guardarsi da Uruguay e Sudafrica e, soprattutto, dal solito Domenech (che ha lasciato fuori i più brillanti tra i suoi, Henry e Malouda). L'Argentina mi ha deluso: solo Messi, ma non tutte le squadre lo lasceranno in pace come hanno fatto i nigeriani. Per il resto, tanta disorganizzazione, e le "maradonate" rischiano di pesare: non convocati Cambiasso e Zanetti, fuori Milito per un Tevez che è un doppione inutile di Messi, e Veron in mezzo lento come il 30 barrato in manovra. Bene l'Inghilterra di Capello (gli Usa erano la squadra più ostica tra quelle incontrate dalle "grandi" all'esordio), ma quanto peserà l'insicurezza in porta?
Ha deluso anche l'Olanda, impacciata a aiutata solo dalla fortuna contro una buona ma grigia Danimarca. Tra le africane tutte le aspettative sono per Ghana e Costa d'Avorio. Finora Camerun e Nigeria hanno deluso, mentre il Sudafrica potrebbe essere la sorpresa. Vedo sicure agli Ottavi dai primi sei gironi Argentina e Corea del Sud, Inghilterra e Stati Uniti, Germania e Ghana, Olanda e Italia. A rischio invece la Francia, con Uruguay, Messico e Sudafrica minacciose. Al di là delle favorite Spagna e Brasile, due euri per la vittoria finale li punterei sulla Costa d'Avorio, ma anche sull'Inghilterra con il valore aggiunto Capello. Considerate che mai una squadra europea ha vinto un Mondiale fuori dall'Europa, ma questa volta non c'è fuso orario e la temperatura è fresca.
Monday, June 14, 2010
Soccorso finiano
Ecco come un 'finiano' che si reputa più furbo degli altri cerca di passare per uno che chiede di «abbassare le tasse», mentre sta solo cercando di salvare i dipendenti pubblici dai "sacrifici" della manovra. Sarebbe lodevole l'intenzione di tagliare di più la spesa per poterci permettere «sgravi fiscali» alle imprese e alle famiglie (applicando nei confronti di queste ultime «il primo modulo del quoziente familiare»). Se non fosse che il titolo («Tagliare gli sprechi e abbassare le tasse») nasconde la vera preoccupazione dell'on. Bocchino, che si scorge proseguendo nella lettura: «E' meglio bloccare la spesa delle regioni ai parametri dell'anno precedente che prendercela con gli statali e i pensionati».
Bocchino propone di bloccare ai livelli del 2009 la spesa per l'acquisto di «beni e servizi». Non so dire se ciò produrrebbe, come sostiene, un risparmio di 15 miliardi, ma so che regioni ed enti locali contribuiscono già con tagli ai trasferimenti pari a circa 13 miliardi in due anni, e i ministeri con tagli ai bilanci del 10 per cento. Tagli cui adempiranno presumibilmente con una contrazione degli acquisti di beni e servizi. Per carità, ovunque si tagli qui si è contenti e si è convinti che margini per tagliare ancora ce ne siano eccome. Ma come risponderebbe, l'on. Bocchino, ad un'opposizione che gridasse al taglio di materiale scolastico, di garze e siringhe, di benzina per le auto della polizia? E non è stato forse qualche 'finiano' a fare della demagogia proprio sulle auto della polizia a corto di carburante?
Secondo Bocchino, la manovra «frena di circa l'1% la crescita del Pil» (Bankitalia dice forse - solo forse - lo 0,5% in due anni) e «rappresenta un taglio di un 2% circa allo sviluppo dell'economia italiana» (qui non capiamo proprio a cosa si riferisca). Bocchino si preoccupa molto dell'impatto recessivo della manovra, ma ammesso e non concesso che ad ogni cent di spesa pubblica in meno corrisponda automaticamente (e molto keynesianamente) una riduzione del Pil, i tagli da lui proposti a ben vedere aggraverebbero questo presunto effetto recessivo, annullando di fatto l'effetto pro-crescita degli sgravi fiscali per imprese e famiglie che vuole finanziarci. Quei 15 miliardi in meno di spesa in «beni e servizi», infatti, sarebbero altrettanti minori incassi per chi produce quei «beni e servizi».
Se si parte dal presupposto che tagliare la spesa pubblica significa frenare la crescita, dove si taglia non è così importante. Bocchino propone solo di spostare i tagli dagli statali (in realtà il blocco degli aumenti di stipendi cresciuti del 40% negli ultimi 10 anni) ai fornitori di beni e servizi per la pubblica amministrazione, cioè quelle imprese che poi vorrebbe aiutare con gli sgravi fiscali. Un'operazione legittima, ma che poco ha a che vedere con la crescita e molto più con il proprio elettorato di riferimento, e in perfetta continuità con le grane che piantò nel 2005 l'An di Fini per garantire agli statali il massimo dell'aumento. E qui si scommette che a breve rispunterà tra i finiani l'idea di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie.
Bocchino propone di bloccare ai livelli del 2009 la spesa per l'acquisto di «beni e servizi». Non so dire se ciò produrrebbe, come sostiene, un risparmio di 15 miliardi, ma so che regioni ed enti locali contribuiscono già con tagli ai trasferimenti pari a circa 13 miliardi in due anni, e i ministeri con tagli ai bilanci del 10 per cento. Tagli cui adempiranno presumibilmente con una contrazione degli acquisti di beni e servizi. Per carità, ovunque si tagli qui si è contenti e si è convinti che margini per tagliare ancora ce ne siano eccome. Ma come risponderebbe, l'on. Bocchino, ad un'opposizione che gridasse al taglio di materiale scolastico, di garze e siringhe, di benzina per le auto della polizia? E non è stato forse qualche 'finiano' a fare della demagogia proprio sulle auto della polizia a corto di carburante?
Secondo Bocchino, la manovra «frena di circa l'1% la crescita del Pil» (Bankitalia dice forse - solo forse - lo 0,5% in due anni) e «rappresenta un taglio di un 2% circa allo sviluppo dell'economia italiana» (qui non capiamo proprio a cosa si riferisca). Bocchino si preoccupa molto dell'impatto recessivo della manovra, ma ammesso e non concesso che ad ogni cent di spesa pubblica in meno corrisponda automaticamente (e molto keynesianamente) una riduzione del Pil, i tagli da lui proposti a ben vedere aggraverebbero questo presunto effetto recessivo, annullando di fatto l'effetto pro-crescita degli sgravi fiscali per imprese e famiglie che vuole finanziarci. Quei 15 miliardi in meno di spesa in «beni e servizi», infatti, sarebbero altrettanti minori incassi per chi produce quei «beni e servizi».
Se si parte dal presupposto che tagliare la spesa pubblica significa frenare la crescita, dove si taglia non è così importante. Bocchino propone solo di spostare i tagli dagli statali (in realtà il blocco degli aumenti di stipendi cresciuti del 40% negli ultimi 10 anni) ai fornitori di beni e servizi per la pubblica amministrazione, cioè quelle imprese che poi vorrebbe aiutare con gli sgravi fiscali. Un'operazione legittima, ma che poco ha a che vedere con la crescita e molto più con il proprio elettorato di riferimento, e in perfetta continuità con le grane che piantò nel 2005 l'An di Fini per garantire agli statali il massimo dell'aumento. E qui si scommette che a breve rispunterà tra i finiani l'idea di aumentare la tassazione sulle rendite finanziarie.
Pericolosa deviazione di senso
Oggi tradotto in italiano sul Corriere della Sera, un imprescindibile articolo di Bernard-Henri Levy contro «l'ondata di ipocrisia, di malafede e, in ultimo, di disinformazione» che si è rovesciata come al solito su Israele, e che «sembrava aspettare solo un pretesto per dilagare nei mass media del mondo intero». Un articolo in cui denuncia le 5 fondamentali mistificazioni cui abbiamo assistito in questi giorni e in cui sono caduti anche gli osservatori più accorti e alcuni "amici" di Israele:
1) «La formula, ripetuta fino alla nausea, del blocco di Gaza imposto "da Israele", mentre la più elementare onestà vorrebbe già che si precisasse: da Israele e dall'Egitto; congiuntamente, dai due lati, dai due Paesi che distano in maniera identica dalle frontiere di Gaza; e questo con la benedizione, appena velata, di tutti i regimi arabi moderati, ben felici che altri arginino, per conto e con soddisfazione di tutti, l'influenza nella regione di un braccio armato, di una base avanzata, un giorno forse di una portaerei, dell'Iran».BHL, che si definisce «un militante dell'ingerenza umanitaria», lancia l'allarme su quella sempre più frequente «deviazione di senso che mette al servizio dei barbari lo spirito stesso di una politica che fu concepita per contrastarli», sulla «confusione di un'epoca in cui si combattono le democrazie come se si trattasse di dittature o di Stati fascisti. In questo turbine di odio e di follia - conclude - c'è Israele, ma in pericolo sono anche, stiamo attenti, alcune delle conquiste più preziose, per la sinistra in particolare, del movimento di idee da trent'anni a questa parte. A buon intenditor, poche parole».
2) «Il blocco - non dobbiamo stancarci di ricordarlo - riguarda soltanto armi e materiali per fabbricarne; non impedisce il passaggio, tutti i giorni, in provenienza da Israele, di 100, 120 camion carichi di viveri, medicinali, materiale umanitario di ogni genere; dire che "si muore di fame" nelle strade di Gaza-City significa mentire. Che il blocco militare sia o non sia la buona opzione per indebolire e un giorno abbattere il governo islamo-fascista di Isnnail Haniyeh, se ne può discutere. Ma un fatto è indiscutibile: gli israeliani che operano, giorno e notte, ai posti di controllo fra i due territori sono i primi a fare l'elementare ma essenziale distinzione fra il regime (che occorre tentare di isolare) e la popolazione (che si guardano bene dal confondere con questo regime e, ancor meno, di penalizzare, poiché gli aiuti, ripeto, non hanno mai smesso di passare)».
3) «Il silenzio del mondo intero sull'incredibile atteggiamento di Hamas: infatti, ora che il carico della flottiglia ha riempito la sua funzione simbolica, ora che quest'atteggiamento ha permesso di cogliere in fallo lo Stato ebraico - e di rilanciare come mai prima d'ora il meccanismo della sua demonizzazione - ora che sono gli israeliani, fatta l'ispezione, a voler inoltrare gli aiuti verso i suoi presunti destinatari, Hamas blocca i suddetti aiuti... Visto che i bambini di Gaza non sono mai stati altro, per la gang di integralisti islamici andati al potere tre anni fa con la forza, che scudi umani, carne da cannone o vignette mediatiche...».
4) «Il discorso, a Konyan, nel centro della Turchia, di un Primo ministro che fa gettare in prigione chiunque osi evocare pubblicamente il genocidio degli armeni, ma che ha la faccia tosta, di fronte a migliaia di manifestanti eccitati e che gridano slogan antisemiti, di denunciare il "terrorismo di Stato" israeliano».
5) «Il lamento degli utili idioti caduti, prima di Israele, nella trappola di quegli strani individui "umanitari" che sono, per esempio nella ong turca Ihh, adepti della Jihad, fanatici dell'apocalisse anti-israeliana e anti-ebraica, alcuni dei quali, qualche giorno prima dell'assalto, dicevano di volere "morire da martiri"».
Realizzato il programma (del Pd)
Il blog Camelotdestraideale ripesca l'ultimo programma elettorale del Pd (febbraio 2008) e al capitolo giustizia di legge che «il divieto assoluto di pubblicazione di tutta la documentazione relativa alle intercettazioni e delle richieste e delle ordinanze emesse in materia di misura cautelare fino al termine dell'udienza preliminare, e delle indagini, serve a tutelare i diritti fondamentali del cittadino e le stesse indagini, che risultano spesso compromesse dalla divulgazione indebita di atti processuali. E' necessario individuare nel Pubblico Ministero il responsabile della custodia degli atti, ridurre drasticamente il numero dei centri di ascolto e determinare sanzioni penali e amministrative molto più severe delle attuali, per renderle tali da essere un'efficace deterrenza alla violazione di diritti costituzionalmente tutelati».
Friday, June 11, 2010
Chi difende l'inciviltà
Del perché la legge sulle intercettazioni approvata ieri dal Senato non mi entusiasma ho già scritto qui e in questi giorni non è accaduto nulla che mi abbia fatto cambiare parere: una brutta legge, purtroppo inutile. Perché il problema è sistemico, sono gli incentivi perversi insiti nell'ordinamento giudiziario che rendono i magistrati absoluti, irresponsabili della cattiva amministrazione della giustizia: si fanno troppe intercettazioni e male, "a strascico", e si viola il segreto istruttorio per determinare un esito politico prim'ancora di ogni accertamento giudiziario. Ma la vera soluzione, dunque, non può che essere sistemica, anche se tutti possono immaginare cosa accadrebbe se qualcuno ci provasse per davvero a "sistemare" le cose.
Mi limito a segnalare alcune riflessioni condivisibili, indicative di quanto sia poco difendibile lo status quo per il quale ci si stracciano le vesti in piazza e sui giornali. La prima, quella di Sallusti su il Giornale...
Di sicuro c'è anche, come ha ricordato Ferrara su Il Foglio, che «chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla». E il caso Blagojevich, lungi dal rappresentare una smentita, è un caso di «fatti separati dalle intercettazioni». La legge approvata al Senato sarà efficace per cambiare questo stato di cose? A mio avviso no, sarà solo di intralcio ad un certo andazzo. Forse è il massimo che si poteva fare, ma a che prezzo?
UPDATE 12 giugno - Come sospettavo. Ecco le risposte che alcuni corrispondenti stranieri hanno dato a Il Foglio:
Mi limito a segnalare alcune riflessioni condivisibili, indicative di quanto sia poco difendibile lo status quo per il quale ci si stracciano le vesti in piazza e sui giornali. La prima, quella di Sallusti su il Giornale...
«Forse i giornalisti la smetteranno di essere semplici portavoce delle Procure, che ci forniscono su un piatto d'argento solo quello che vogliono e quando vogliono, spesso per motivi di opportunità politica. Il vero giornalismo "cane da guardia del potere" è quello che provoca inchieste giudiziarie (ricordate il Watergate?), per fotocopiare carte non serve essere iscritti all'Ordine».La seconda, di Maurizio Belpietro, su Libero:
«Abbiamo sempre saputo che alla base di tutto c'è un triangolo, fatto di pm, investigatori e giornalisti, i quali con la facile scusa della giustizia e del diritto all'informazione, fanno i comodi loro. Con le fughe di notizie si sono costruite splendide carriere, nei giornali come nella magistratura e quasi sempre i successi professionali hanno avuto un approdo politico».Quella attuale, lungi dal dover essere difesa, è una situazione di profonda inciviltà giuridica, politica e informativa, lontanissima dalla libertà di informazione. L'unica certezza è l'uso politico che una parte della magistratura fa delle inchieste, e delle intercettazioni (che si prestano perfettamente alla manipolazione). Passando il proprio taglia-e-cuci alla stampa cosiddetta "libera" le Procure cercano di orientare l'opinione pubblica a favore di quella che è la versione dell'accusa. Per di più una versione non già definita e pronta per essere dimostrata in un processo, ma agli inizi della fase istruttoria, quindi ancora meramente un'ipotesi, inevitabilmente indiziaria e lacunosa. In breve, evidentemente a corto di prove, cercano l'appoggio della piazza. Un malcostume che colpisce potenti ma anche cittadini comuni, come dimostrano i processi di Perugia e Garlasco.
Di sicuro c'è anche, come ha ricordato Ferrara su Il Foglio, che «chiunque legga una decina di giornali quotidiani o di settimanali stranieri, in lingua francese, tedesca e inglese, non è mai, si dica mai, mai nella vita, incappato nelle lenzuolate delle intercettazioni di cui si parla». E il caso Blagojevich, lungi dal rappresentare una smentita, è un caso di «fatti separati dalle intercettazioni». La legge approvata al Senato sarà efficace per cambiare questo stato di cose? A mio avviso no, sarà solo di intralcio ad un certo andazzo. Forse è il massimo che si poteva fare, ma a che prezzo?
UPDATE 12 giugno - Come sospettavo. Ecco le risposte che alcuni corrispondenti stranieri hanno dato a Il Foglio:
Jörg Bremer, della Frankfurter Allgemeine Zeitung, risponde con molta decisione che «in Germania niente del genere sarebbe possibile. È vietato e non è mai successo. Per quanto riguarda la Faz, il mio giornale, non ha mai pubblicato il testo di un'intercettazione prima di un processo».
Libération, Eric Joseph, dice che a sua conoscenza «mai in Francia, né sul mio giornale né su altri, sono state pubblicate intercettazioni con particolari privati che non abbiano un interesse pubblico. Solo il Nouvel Observateur ha pubblicato un presunto sms di Sarkozy alla ex moglie Cécilia, ed è finita con le scuse del giornale».
Miguel Mora, del quotidiano spagnolo El País: «Non è mai successo che venissero pubblicate intercettazioni come accade sui giornali italiani, anche perché noi abbiamo una norma deontologica che lo evita. Evita, cioè, che persone che non hanno a che fare con una certa indagine compaiano con nome e cognome sui giornali. Il contrario sarebbe strano».
Peter Popham, Independent: «In Inghilterra non è mai successo ed è impensabile».
Patricia Mayorga, cilena di El Mercurio: «Non è mai successo che il mio giornale abbia pubblicato intercettazioni del genere di quelle che escono in Italia. Direi di più: in Cile le intercettazioni non si usano tanto, se non altro per il ricordo di quello che è stato il regime di Pinochet».
Rachel Donadio, del New York Times, dice che non sono mai state pubblicate pagine di intercettazioni sul New York Times o altrove, «se non quelle rese pubbliche durante i processi». Conclude Donadio: «E' diversa anche la sinistra, che in Italia vuole più intercettazioni, al contrario di quanto avviene negli Stati Uniti».
Wednesday, June 09, 2010
Partorite le sanzioncine
Ci sono voluti sei mesi di estenuanti trattative, ma nonostante annacquamenti e ammorbidimenti (e chissà quali altre rinunce e concessioni sotto banco), l'amministrazione Obama ha mancato l'unanimità del Consiglio di Sicurezza, che si prefiggeva come obiettivo politico. E' riuscita a ottenere il sì di Russia e Cina, ma si è fatta "bruciare" da Ahmadinejad, che con il recente accordo ha astutamente portato dalla sua parte Brasile e Turchia, che a loro volta hanno approfittato della crisi iraniana per lucrare una fetta di visibilità sulla scena internazionale. E infatti oggi, come previsto, hanno votato contro il quarto round di sanzioni nei confronti di Teheran.
La montagna diplomatica messa in piedi dalla coppia Obama-H. Clinton ha partorito delle sanzioncine: ulteriore stretta sull'acquisto di armi pesanti, come carri armati, elicotteri d'attacco e missili; divieto di far partecipare l'Iran a progetti che abbiano a che fare con tecnologia nucleare; altre 40 compagnie inserite nella blacklist dei soggetti sottoposti a misure restrittive come il congelamento dei beni e la limitazione della libertà di viaggio. Tra di esse, tre società controllate dalla maggiore compagnia di navigazione iraniana e ben 15 legate ai Pasdaran.
Della lista nera avrebbero dovuto far parte anche due banche, ma all'ultimo momento (considerando la fretta di chiudere, da parte di Washington, dopo lo schiaffo dell'accordo turco-brasiliano-iraniano) la Cina è riuscita a far escludere dalle sanzioni la "Export Development Bank of Iran". E un solo individuo è stato inserito nella blacklist: si tratta di Javad Rahiqi, capo del centro di tecnologia nucleare di Isfahan. Prevista anche l'ispezione in mare aperto di navi sospettate di portare componenti per i programmi missilistici e nucleare iraniani, ma non senza il loro consenso. Non c'è alcuna autorizzazione infatti all'abbordaggio con la forza. Un regime ispettivo simile, quindi, a quello in vigore nei confronti della Corea del Nord.
Insomma, siamo molto lontani dalle sanzioni «devastanti» minacciate dalla Clinton un anno fa. In pratica, si tratta di un ampliamento e di un irrigidimento di quelle esistenti, ma senza alcun salto di qualità. Niente sanzioni sul settore energetico e su quello finanziario, quelli più sensibili, come avrebbero voluto gli Usa. Risultato: le vere sanzioni - ammesso che ce ne siano di efficaci - dovranno deciderle e attuarsele comunque unilateralmente Stati Uniti ed Europa. Dunque, tanto valeva non perdere tempo all'Onu. Come ha anticipato ieri il segretario alla Difesa, Robert Gates, ora è probabile che i singoli stati approvino misure proprie per andare oltre quelle dell'Onu.
La montagna diplomatica messa in piedi dalla coppia Obama-H. Clinton ha partorito delle sanzioncine: ulteriore stretta sull'acquisto di armi pesanti, come carri armati, elicotteri d'attacco e missili; divieto di far partecipare l'Iran a progetti che abbiano a che fare con tecnologia nucleare; altre 40 compagnie inserite nella blacklist dei soggetti sottoposti a misure restrittive come il congelamento dei beni e la limitazione della libertà di viaggio. Tra di esse, tre società controllate dalla maggiore compagnia di navigazione iraniana e ben 15 legate ai Pasdaran.
Della lista nera avrebbero dovuto far parte anche due banche, ma all'ultimo momento (considerando la fretta di chiudere, da parte di Washington, dopo lo schiaffo dell'accordo turco-brasiliano-iraniano) la Cina è riuscita a far escludere dalle sanzioni la "Export Development Bank of Iran". E un solo individuo è stato inserito nella blacklist: si tratta di Javad Rahiqi, capo del centro di tecnologia nucleare di Isfahan. Prevista anche l'ispezione in mare aperto di navi sospettate di portare componenti per i programmi missilistici e nucleare iraniani, ma non senza il loro consenso. Non c'è alcuna autorizzazione infatti all'abbordaggio con la forza. Un regime ispettivo simile, quindi, a quello in vigore nei confronti della Corea del Nord.
Insomma, siamo molto lontani dalle sanzioni «devastanti» minacciate dalla Clinton un anno fa. In pratica, si tratta di un ampliamento e di un irrigidimento di quelle esistenti, ma senza alcun salto di qualità. Niente sanzioni sul settore energetico e su quello finanziario, quelli più sensibili, come avrebbero voluto gli Usa. Risultato: le vere sanzioni - ammesso che ce ne siano di efficaci - dovranno deciderle e attuarsele comunque unilateralmente Stati Uniti ed Europa. Dunque, tanto valeva non perdere tempo all'Onu. Come ha anticipato ieri il segretario alla Difesa, Robert Gates, ora è probabile che i singoli stati approvino misure proprie per andare oltre quelle dell'Onu.
Tuesday, June 08, 2010
E vai col solito fotoritocco
Come quattro anni fa. Reuters evidentemente non ha perso il vizietto di ritoccare le proprie foto. Nel 2006 moltiplicava le colonne di fumo che si innalzavano su Beirut per ingigantire la portata dei bombardamenti israeliani. Oggi fa sparire i coltelli dalle mani dei militanti pro-Hamas, per non smentire la versione delle navi di "pacifisti". Togli o aggiungi, ma sempre al servizio della propaganda anti-israeliana.
Monday, June 07, 2010
Occasione da non perdere
La Commissione europea oggi è apparsa irremovibile sulla necessità dell'equiparazione immediata, a partire già dal primo gennaio 2012 (e non dal 2018 come previsto dal governo), dell'età di pensionamento delle donne nel settore pubblico a quella degli uomini, cioè a 65 anni. E' una fortuna. La manovra, ha riconosciuto il ministro del Welfare Sacconi, è «il veicolo più tempestivo» per adeguarci alla richiesta dell'Ue. E c'è davvero da augurarci che il governo non sia così stupido da lasciarsi sfuggire questa occasione. Oltre a risparmiare centinaia di milioni di sanzioni, potrebbe fare subito una riforma strutturale comunque inevitabile, migliorando la manovra sul fronte della tenuta dei conti pubblici.
Certo, le proteste delle parti sociali e delle categorie più retrive sarebbero ancora più veementi, mettendo alla prova la determinazione riformista sia della maggioranza che dell'opposizione. Ma per arginare l'impopolarità della misura il governo può sempre contare sul solido - e solito - argomento "l'Europa ci obbliga", senza il quale pare che in Italia non sia possibile alcuna riforma significativa. E chissà che la dialettica tra il ministro Sacconi e la commissaria Reding non fosse nient'altro che un più che opportuno gioco delle parti. Il risparmio per le casse dello Stato sarebbe in effetti piuttosto esiguo nel breve termine, ma nel medio-lungo termine potrebbe liberare importanti risorse per riequilibrare la spesa sociale a vantaggio dei capitoli ad oggi trascurati. E potrebbe rendere più accettabile l'innalzamento dell'età pensionabile anche nel settore privato.
Certo, le proteste delle parti sociali e delle categorie più retrive sarebbero ancora più veementi, mettendo alla prova la determinazione riformista sia della maggioranza che dell'opposizione. Ma per arginare l'impopolarità della misura il governo può sempre contare sul solido - e solito - argomento "l'Europa ci obbliga", senza il quale pare che in Italia non sia possibile alcuna riforma significativa. E chissà che la dialettica tra il ministro Sacconi e la commissaria Reding non fosse nient'altro che un più che opportuno gioco delle parti. Il risparmio per le casse dello Stato sarebbe in effetti piuttosto esiguo nel breve termine, ma nel medio-lungo termine potrebbe liberare importanti risorse per riequilibrare la spesa sociale a vantaggio dei capitoli ad oggi trascurati. E potrebbe rendere più accettabile l'innalzamento dell'età pensionabile anche nel settore privato.
Friday, June 04, 2010
Voglia di deregulation
Colpo di reni di Berlusconi e Tremonti, che dopo tanto rigore sulla stabilità dei conti e sui tagli alla spesa, riportano l'attenzione sulla crescita, con un annuncio tutto da verificare (di promesse non mantenute e annunci a vuoto è lastricata la via dei governi Berlusconi), ma comunque positivo. Si poteva cogliere già dalla nota di ieri di Palazzo Chigi che qualcosa del genere bolliva in pentola. Laddove, smentendo le voci su presunti contrasti tra il premier e il ministro dell'Economia, faceva riferimento ad «un grande progetto di liberalizzazione delle attività economiche», «per rendere il nostro Paese competitivo sulla crescita». Oggi il ministro Tremonti ha chiarito i contorni del progetto: una misura straordinaria «per la libertà di impresa», che porti ad una «sospensione per 2-3 anni» delle autorizzazioni richieste alle piccole medie imprese, alla ricerca e alle attività artigiane. Una sorta di deregulation, dunque, che riguardi l'economia reale e non la finanza. Una misura che non comporterebbe i soliti incentivi fiscali, quindi spesa ulteriore. Una di quelle riforme a costo zero a lungo invocate.
Una proposta che il ministro dell'Economia intende presentare domani al vertice G20 di Busan, in Corea del Sud, e lunedì prossimo all'Ecofin. «Non si tratta di liberalizzazioni o di privatizzazioni - ha spiegato Tremonti - perché non si cambia il sistema dall'interno, ma di una rivoluzione liberale che renda possibile tutto ciò che non è proibito». Il ministro pensa quindi «ad una radicale e totale autocertificazione per le pmi, l'artigianato e la ricerca, con i controlli e la verifica dei requisiti fatta ex post», ma «limitata all'economia reale e non alla finanza, e con l'urbanistica che abbia un regime a parte». Finalmente qualcosa di liberale.
L'Europa, ha osservato il ministro, deve eliminare «l'eccesso di regole» che si sono stratificate negli ultimi 30 anni, pena «una dolce morte». «Non ha alternative», perché ormai l'eccessiva regolamentazione dell'economia reale «è un lusso che non si può permettere», data la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo. «Inutile mettere benzina in un'auto che è bloccata da un macigno», sarebbero «soldi buttati». Per questo, secondo Tremonti, da un lato la stabilità dei conti pubblici «è tutto quello che si deve fare», ma la crescita è possibile solo «liberandosi dalla zavorra» delle regole. «O lo fai - ha concluso - oppure l'Europa si autosoffoca e non c'è sviluppo e può fare solo il guardiano di un cimitero o, al massimo, il tenutario elegante di un antico Relais».
Non si capisce perché si dovrebbe passare attraverso l'incognita di una modifica dell'art. 41 della Costituzione, e ci attendiamo dai 'finiani' e dalla sinistra i soliti richiami alla «legalità» da garantire. Vedremo se almeno su questo il governo saprà non farsi frenare.
Una proposta che il ministro dell'Economia intende presentare domani al vertice G20 di Busan, in Corea del Sud, e lunedì prossimo all'Ecofin. «Non si tratta di liberalizzazioni o di privatizzazioni - ha spiegato Tremonti - perché non si cambia il sistema dall'interno, ma di una rivoluzione liberale che renda possibile tutto ciò che non è proibito». Il ministro pensa quindi «ad una radicale e totale autocertificazione per le pmi, l'artigianato e la ricerca, con i controlli e la verifica dei requisiti fatta ex post», ma «limitata all'economia reale e non alla finanza, e con l'urbanistica che abbia un regime a parte». Finalmente qualcosa di liberale.
L'Europa, ha osservato il ministro, deve eliminare «l'eccesso di regole» che si sono stratificate negli ultimi 30 anni, pena «una dolce morte». «Non ha alternative», perché ormai l'eccessiva regolamentazione dell'economia reale «è un lusso che non si può permettere», data la concorrenza dei Paesi in via di sviluppo. «Inutile mettere benzina in un'auto che è bloccata da un macigno», sarebbero «soldi buttati». Per questo, secondo Tremonti, da un lato la stabilità dei conti pubblici «è tutto quello che si deve fare», ma la crescita è possibile solo «liberandosi dalla zavorra» delle regole. «O lo fai - ha concluso - oppure l'Europa si autosoffoca e non c'è sviluppo e può fare solo il guardiano di un cimitero o, al massimo, il tenutario elegante di un antico Relais».
Non si capisce perché si dovrebbe passare attraverso l'incognita di una modifica dell'art. 41 della Costituzione, e ci attendiamo dai 'finiani' e dalla sinistra i soliti richiami alla «legalità» da garantire. Vedremo se almeno su questo il governo saprà non farsi frenare.
La casta per antonomasia
E' quella dei magistrati, che non si smentiscono mai. Quando si tratta di privilegi sono i primi a farsi sentire. Lo sciopero proclamato dall'Anm contro le misure della manovra che li riguardano è emblematico. La manovra prevede infatti il taglio del 10% ai compensi dei componenti degli organi di autogoverno della magistratura, esattamente come per i ministri e, probabilmente, i parlamentari; il blocco degli aumenti di stipendio per tre anni, come tutti gli altri dipendenti pubblici; il taglio del 5% sulla parte della retribuzione eccedente i 90 mila euro e del 10 su quella eccedente i 150 mila euro, esattamente come per i dirigenti pubblici. Ma la misura che li ha fatti imbestialire è la fine dell'automatismo degli adeguamenti, per cui passati i tre anni di blocco dovranno contrattare con il governo ogni aumento di stipendio (una riforma strutturale, questa). Poverini, esattamente come tutti gli altri dipendenti pubblici. Ma loro non si sentono e non vogliono essere come gli altri dipendenti pubblici. Ovviamente il Pd si è schierato subito e senza esitazioni al fianco della casta delle toghe.
Difetto di legittima difesa
Più che Israele, a cadere nella trappola degli attivisti pro-Hamas sono stati come al solito i media e i commentatori occidentali, che nonostante l'abbondanza di precedenti hanno aderito alla facile e deresponsabilizzante lettura dell'«eccesso di legittima difesa» e della reazione «sproporzionata» da parte israeliana. Più leggo ricostruzioni e commenti, sia sui giornali che in rete, più mi convinco delle ragioni di Israele anche in questo caso. Se ci troviamo di fronte a situazioni in cui i militanti islamici vincono sempre, qualsiasi cosa facciano (sia che fossero riusciti a violare il blocco, che a quel punto sarebbe fallito, legittimando il governo terrorista di Hamas; sia che - com'è accaduto - avessero costretto Israele ad usare la forza, e quindi a pagare un caro prezzo di immagine) è anche colpa nostra, che ancora non abbiamo imparato a vaccinarci nei confronti di questo tipo di azioni.
Se gli attivisti della flottiglia pro-Hamas fossero stati davvero intenzionati a consegnare gli aiuti ai palestinesi di Gaza, avrebbero accettato una delle soluzioni proposte dalle autorità israeliane, ma in realtà il loro unico obiettivo - politico e militare - era quello di violare il blocco e di farlo a costo del maggior numero di vite umane anche tra loro stessi. Saranno anche stati dei civili, ma in quel momento sapevano di partecipare ad un'operazione militare. Per questo erano armati e hanno colto di sopresa i commandos israeliani quando sono saliti a bordo delle navi.
E' difficile con le notizie in nostro possesso capire se le navi potevano essere fermate diversamente. Certo è che Israele avrebbe potuto usare metodi ancora più cruenti. Di fronte a ben sei navi pronte a violare il blocco, avrebbe potuto anche prenderle a cannonate dopo i dovuti avvertimenti, senza rischiare nemmeno un uomo, ma ha preferito comunque una via "chirurgica", che ha provocato dei morti perché i milianti a bordo erano armati e disposti a combattere pur di violare il blocco. Ancora una volta, Israele ha mostrato semmai un difetto di legittima difesa. E il contraccolpo d'immagine è dovuto solo al pregiudizio negativo con cui i media e le opinioni pubbliche occidentali guardano a qualsiasi cosa faccia Israele.
La fragilità di Israele passa inosservata, si dà per scontato che possa difendersi da solo. Il blocco della Striscia di Gaza nei confronti di un governo terrorista è sacrosanto e dovrebbe piuttosto vedere la partecipazione attiva delle marine militari occidentali. E' interesse dell'Occidente condividere la responsabilità della sicurezza di Israele, come avamposto di civiltà in una regione dove prevale la barbarie.
Dal punto di vista geopolitico, spicca la definitiva rottura tra Turchia e Israele e il progressivo abbandono, sotto il governo di Erdogan, della vocazione euro-atlantica di Ankara, che sembra proiettata verso Siria e Iran. Un processo aggravato dall'incapacità statunitense di esercitare la propria leadership in Medio Oriente nei confronti dell'Iran e del processo di pace, dalle incertezze dell'Ue sulle prospettive di adesione della Turchia, ma fondamentalmente voluto dalle autorità turche. Bisogna prenderne atto. Infine, aggiungo sommessamente, ma ci sarà tempo per approfondire, precisare e casomai correggere, che gli eventi degli ultimi anni stanno mettendo in luce l'inesistenza di fatto di un "popolo palestinese" e, di conseguenza, la difficile praticabilità della soluzione "due popoli due stati".
Se gli attivisti della flottiglia pro-Hamas fossero stati davvero intenzionati a consegnare gli aiuti ai palestinesi di Gaza, avrebbero accettato una delle soluzioni proposte dalle autorità israeliane, ma in realtà il loro unico obiettivo - politico e militare - era quello di violare il blocco e di farlo a costo del maggior numero di vite umane anche tra loro stessi. Saranno anche stati dei civili, ma in quel momento sapevano di partecipare ad un'operazione militare. Per questo erano armati e hanno colto di sopresa i commandos israeliani quando sono saliti a bordo delle navi.
E' difficile con le notizie in nostro possesso capire se le navi potevano essere fermate diversamente. Certo è che Israele avrebbe potuto usare metodi ancora più cruenti. Di fronte a ben sei navi pronte a violare il blocco, avrebbe potuto anche prenderle a cannonate dopo i dovuti avvertimenti, senza rischiare nemmeno un uomo, ma ha preferito comunque una via "chirurgica", che ha provocato dei morti perché i milianti a bordo erano armati e disposti a combattere pur di violare il blocco. Ancora una volta, Israele ha mostrato semmai un difetto di legittima difesa. E il contraccolpo d'immagine è dovuto solo al pregiudizio negativo con cui i media e le opinioni pubbliche occidentali guardano a qualsiasi cosa faccia Israele.
La fragilità di Israele passa inosservata, si dà per scontato che possa difendersi da solo. Il blocco della Striscia di Gaza nei confronti di un governo terrorista è sacrosanto e dovrebbe piuttosto vedere la partecipazione attiva delle marine militari occidentali. E' interesse dell'Occidente condividere la responsabilità della sicurezza di Israele, come avamposto di civiltà in una regione dove prevale la barbarie.
Dal punto di vista geopolitico, spicca la definitiva rottura tra Turchia e Israele e il progressivo abbandono, sotto il governo di Erdogan, della vocazione euro-atlantica di Ankara, che sembra proiettata verso Siria e Iran. Un processo aggravato dall'incapacità statunitense di esercitare la propria leadership in Medio Oriente nei confronti dell'Iran e del processo di pace, dalle incertezze dell'Ue sulle prospettive di adesione della Turchia, ma fondamentalmente voluto dalle autorità turche. Bisogna prenderne atto. Infine, aggiungo sommessamente, ma ci sarà tempo per approfondire, precisare e casomai correggere, che gli eventi degli ultimi anni stanno mettendo in luce l'inesistenza di fatto di un "popolo palestinese" e, di conseguenza, la difficile praticabilità della soluzione "due popoli due stati".
Thursday, June 03, 2010
Non cadiamo nel tranello
Berlusconi può essere criticabile per non aver dato seguito, abbassando le tasse, a quel concetto espresso nel 2004 e ripetuto in tante altre occasioni («se lo Stato mi chiede il 50% e passa di tasse è una richiesta scorretta e io mi sento moralmente autorizzato a evadere, per quanto posso»), ma non per essersi contraddetto con la smentita di martedì sera a Ballarò, o con le misure anti-evasione adottate dal suo governo con questa manovra. Interpretare quella smentita come un'abiura di quanto affermato anni fa, oltre che un errore, significherebbe cadere nell'inganno dialettico teso dagli amanti delle tasse, che per delegittimare un argomento sacrosanto ed efficace lo bollano pretestuosamente come incitamento all'evasione.
Quello usato innanzitutto dai liberali - e poi da Berlusconi - non è mai voluto essere un argomento per giustificare l'evasione fiscale, tanto meno per sostenerla, ma una pura constatazione: e cioè che una pressione fiscale avvertita come eccessiva e ingiusta rende moralmente e socialmente più accettabile evadere il fisco. Credo sia una realtà, un sentimento diffuso, di cui abbiamo esperienza nella vita di tutti i giorni. E' un fatto da cui trarre delle conseguenze, non una giustificazione né un incitamento. Nello smentire che lo sia non c'è contraddizione. La contraddizione che si può imputare a Berlusconi, semmai, è di non averne ancora tratto le dovute conseguenze, cioè di non avere ridotto le tasse.
Tasse basse e spese bene accrescono la «morale tributaria», osserva oggi Francesco Forte, su il Giornale. La nostra Costituzione prescrive che «tutti sono tenuti alle spese pubbliche in relazione alla loro capacità contributiva». Ma «una vasta dottrina tributaria afferma che le imposte con aliquote molto alte, che privano sostanzialmente il contribuente del suo diritto di proprietà e di iniziativa o della retribuzione del lavoro, sono incostituzionali».
Sia chiaro, a me non piacciono né la retorica anti-evasione del governo, né la caccia alle streghe praticata in concreto. Primo, perché inasprendo la repressione (magari anche in modo costoso) puoi recuperare qualche spicciolo, ma il più efficace strumento di contrasto dell'evasione rimane uno solo: cominciare a chiedere il giusto (massimo il 33% ai ricconi), dopo di ché sì, puoi pretendere che tutti paghino ed essere duro con chi evade. Secondo, la mia impressione è che più si incrudelisce la lotta, più nel medio-lungo termine si rischia un effetto depressivo. L'ho già scritto più volte: con l'elevata pressione fiscale e contributiva, i costi occulti dell'inefficienza della pubblica amministrazione e della giustizia civile, della rigidità del mercato del lavoro e della scarsa competitività, l'evasione è spesso l'unico modo per fare attività economica, impresa e lavoro. Per questo concordo con Enzo: «Quando per un liberale il problema principale diventa l'evasione fiscale e non l'entità del prelievo, vuol dire che ha già abdicato ai suoi principi».
Non bisogna però scordare che tra la soglia della tracciabilità abbassata a 5 mila euro da Tremonti e quella a 500 o 100 euro di Prodi-Visco c'è (ancora) una grande differenza. E il governo di centrosinistra quando si trovò per le mani il famoso "tesoretto", i soldi recuperati dall'evasione, lo dilapidò in spese improduttive e assistenziali, come accrescere le finestre di pensionamento, abolire lo "scalone" Maroni, assumere in massa i precari della scuola.
Quello usato innanzitutto dai liberali - e poi da Berlusconi - non è mai voluto essere un argomento per giustificare l'evasione fiscale, tanto meno per sostenerla, ma una pura constatazione: e cioè che una pressione fiscale avvertita come eccessiva e ingiusta rende moralmente e socialmente più accettabile evadere il fisco. Credo sia una realtà, un sentimento diffuso, di cui abbiamo esperienza nella vita di tutti i giorni. E' un fatto da cui trarre delle conseguenze, non una giustificazione né un incitamento. Nello smentire che lo sia non c'è contraddizione. La contraddizione che si può imputare a Berlusconi, semmai, è di non averne ancora tratto le dovute conseguenze, cioè di non avere ridotto le tasse.
Tasse basse e spese bene accrescono la «morale tributaria», osserva oggi Francesco Forte, su il Giornale. La nostra Costituzione prescrive che «tutti sono tenuti alle spese pubbliche in relazione alla loro capacità contributiva». Ma «una vasta dottrina tributaria afferma che le imposte con aliquote molto alte, che privano sostanzialmente il contribuente del suo diritto di proprietà e di iniziativa o della retribuzione del lavoro, sono incostituzionali».
Sia chiaro, a me non piacciono né la retorica anti-evasione del governo, né la caccia alle streghe praticata in concreto. Primo, perché inasprendo la repressione (magari anche in modo costoso) puoi recuperare qualche spicciolo, ma il più efficace strumento di contrasto dell'evasione rimane uno solo: cominciare a chiedere il giusto (massimo il 33% ai ricconi), dopo di ché sì, puoi pretendere che tutti paghino ed essere duro con chi evade. Secondo, la mia impressione è che più si incrudelisce la lotta, più nel medio-lungo termine si rischia un effetto depressivo. L'ho già scritto più volte: con l'elevata pressione fiscale e contributiva, i costi occulti dell'inefficienza della pubblica amministrazione e della giustizia civile, della rigidità del mercato del lavoro e della scarsa competitività, l'evasione è spesso l'unico modo per fare attività economica, impresa e lavoro. Per questo concordo con Enzo: «Quando per un liberale il problema principale diventa l'evasione fiscale e non l'entità del prelievo, vuol dire che ha già abdicato ai suoi principi».
Non bisogna però scordare che tra la soglia della tracciabilità abbassata a 5 mila euro da Tremonti e quella a 500 o 100 euro di Prodi-Visco c'è (ancora) una grande differenza. E il governo di centrosinistra quando si trovò per le mani il famoso "tesoretto", i soldi recuperati dall'evasione, lo dilapidò in spese improduttive e assistenziali, come accrescere le finestre di pensionamento, abolire lo "scalone" Maroni, assumere in massa i precari della scuola.
Israele non ha alternative
La Turchia gioca con il fuoco
Il voto contrario dell'Italia, insieme a Stati Uniti e Paesi Bassi, alla risoluzione approvata dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu (alias Consiglio per i diritti umani secondo i dittatori) contro il blitz israeliano è uno squarcio di luce in una politica estera fin qui tutt'altro che entusiasmante e coraggiosa. Un testo squilibrato rispetto a quello uscito dal Consiglio di Sicurezza dopo il blocco Usa ad una versione più dura. Al di là di come siano andati i fatti, e di quanto sia stata ingenua e sproporzionata la reazione israeliana, smettiamola di chiamare "pacifisti" quelli che in realtà non sono che militanti anti-israeliani, filo-Hamas, che non hanno nulla di pacifico e che per la causa di un'organizzazione terroristica sono disposti ad offrirsi come scudi umani e «mine diplomatiche». Come molte delle organizzazioni filantropiche islamiche, infatti, anche quella turca che ha organizzato la flottiglia ha legami con l'estremismo, in particolare con la Fratellanza musulmana, Hamas e persino al Qaeda.
Si fa presto a dire che Israele è «caduto nella trappola». Certo che ci è caduto, ma che altro poteva fare? Come altre volte in passato paga a caro prezzo politico e d'immagine scelte necessarie a difesa della credibilità della propria deterrenza (solo un assaggio di ciò che avverrà quando dovrà affrontare da solo la minaccia iraniana). Non aveva alternative: o permettere che il blocco si trasformasse in un colabrodo, o prendersi le rampogne internazionali. Non so se quella flottiglia di navi turche dietro i presunti aiuti nascondesse o meno armi per Hamas, ma non è questo il punto. Il blocco israeliano della Striscia di Gaza è politico, ma non è un assedio, nel senso che cibo, medicinali e assistenza umanitaria vengono forniti alla popolazione da Egitto e Israele.
Le autorità israeliane avevano offerto agli attivisti di consegnare direttamente il carico di aiuti umanitari ai palestinesi, purché senza violare il blocco e dopo regolari controlli sulla merce. Ma il loro obiettivo reale era esattamente la violazione del blocco, non la consegna degli aiuti. Qualcosa che Israele non poteva assolutamente permettere. Chiunque minimamente in buona fede è in grado di capirlo: la violazione del blocco avrebbe significato un'importante vittoria politica per Hamas, la legittimazione del suo governo terrorista a Gaza, per la quale gli attivisti - parola di alcuni di loro - erano pronti anche al «martirio». L'incidente quindi è stato deliberatamente provocato, gli attivisti erano armati e pronti allo scontro.
C'era un modo indolore, per esempio il sabotaggio, per fermare le navi dei militanti filopalestinesi, come Max Boot ha ipotizzato sul Wall Street Journal? Difficile dirlo, ma qualsiasi azione avrebbe comunque scatenato l'indignazione internazionale. E al di là della retorica ufficiale, sempre dura nei confronti di Israele (le cui reazioni sono sempre «sproporzionate» a quanto pare), il blocco di Gaza continua a essere sostenuto dagli Stati Uniti e dalle altre potenze occidentali. Altro che un'inchiesta internazionale, in un mondo non sottosopra internazionale dovrebbe essere il blocco di Gaza, in modo che Israele non debba sopportare da solo il peso di difendere la propria esistenza.
Piuttosto, l'incidente aggrava le preoccupazioni sulla partita che sta giocando la Turchia. Erdogan sembra avere l'intenzione di usarlo come pretesto per modificare in profondità le relazioni con Israele, che «non saranno più le stesse». Di recente protagonista, insieme al Brasile di Lula, dell'accordo con Ahmadinejad sul nucleare per far uscire dall'isolamento Teheran, la Turchia sembra volersi allontanare sempre più dalla sua tradizionale vocazione euro-atlantica e volgersi verso Russia, Siria e Iran, non per giocare un ruolo di mediazione in Medio Oriente, ma per contribuire a creare un nuovo ordine nella regione, del quale potrebbe condividere la leadership con Damasco e Teheran.
La progressiva de-occidentalizzazione della politica estera turca, così come le tendenze "bolivariane" e anti-Usa in America Latina, che sembrano ora coinvolgere anche il Brasile di Lula, sono effetti imputabili almeno nel loro aggravarsi alla disastrosa politica estera smart della coppia Obama-Clinton nei confronti dell'Iran e del Medio Oriente, ma certamente anche alle incertezze europee sulle prospettive di adesione della Turchia. Certo che le ultime mosse di Ankara giustificano più di un dubbio sulla genuinità delle sue ambizioni europeiste.
Il voto contrario dell'Italia, insieme a Stati Uniti e Paesi Bassi, alla risoluzione approvata dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu (alias Consiglio per i diritti umani secondo i dittatori) contro il blitz israeliano è uno squarcio di luce in una politica estera fin qui tutt'altro che entusiasmante e coraggiosa. Un testo squilibrato rispetto a quello uscito dal Consiglio di Sicurezza dopo il blocco Usa ad una versione più dura. Al di là di come siano andati i fatti, e di quanto sia stata ingenua e sproporzionata la reazione israeliana, smettiamola di chiamare "pacifisti" quelli che in realtà non sono che militanti anti-israeliani, filo-Hamas, che non hanno nulla di pacifico e che per la causa di un'organizzazione terroristica sono disposti ad offrirsi come scudi umani e «mine diplomatiche». Come molte delle organizzazioni filantropiche islamiche, infatti, anche quella turca che ha organizzato la flottiglia ha legami con l'estremismo, in particolare con la Fratellanza musulmana, Hamas e persino al Qaeda.
Si fa presto a dire che Israele è «caduto nella trappola». Certo che ci è caduto, ma che altro poteva fare? Come altre volte in passato paga a caro prezzo politico e d'immagine scelte necessarie a difesa della credibilità della propria deterrenza (solo un assaggio di ciò che avverrà quando dovrà affrontare da solo la minaccia iraniana). Non aveva alternative: o permettere che il blocco si trasformasse in un colabrodo, o prendersi le rampogne internazionali. Non so se quella flottiglia di navi turche dietro i presunti aiuti nascondesse o meno armi per Hamas, ma non è questo il punto. Il blocco israeliano della Striscia di Gaza è politico, ma non è un assedio, nel senso che cibo, medicinali e assistenza umanitaria vengono forniti alla popolazione da Egitto e Israele.
Le autorità israeliane avevano offerto agli attivisti di consegnare direttamente il carico di aiuti umanitari ai palestinesi, purché senza violare il blocco e dopo regolari controlli sulla merce. Ma il loro obiettivo reale era esattamente la violazione del blocco, non la consegna degli aiuti. Qualcosa che Israele non poteva assolutamente permettere. Chiunque minimamente in buona fede è in grado di capirlo: la violazione del blocco avrebbe significato un'importante vittoria politica per Hamas, la legittimazione del suo governo terrorista a Gaza, per la quale gli attivisti - parola di alcuni di loro - erano pronti anche al «martirio». L'incidente quindi è stato deliberatamente provocato, gli attivisti erano armati e pronti allo scontro.
C'era un modo indolore, per esempio il sabotaggio, per fermare le navi dei militanti filopalestinesi, come Max Boot ha ipotizzato sul Wall Street Journal? Difficile dirlo, ma qualsiasi azione avrebbe comunque scatenato l'indignazione internazionale. E al di là della retorica ufficiale, sempre dura nei confronti di Israele (le cui reazioni sono sempre «sproporzionate» a quanto pare), il blocco di Gaza continua a essere sostenuto dagli Stati Uniti e dalle altre potenze occidentali. Altro che un'inchiesta internazionale, in un mondo non sottosopra internazionale dovrebbe essere il blocco di Gaza, in modo che Israele non debba sopportare da solo il peso di difendere la propria esistenza.
Piuttosto, l'incidente aggrava le preoccupazioni sulla partita che sta giocando la Turchia. Erdogan sembra avere l'intenzione di usarlo come pretesto per modificare in profondità le relazioni con Israele, che «non saranno più le stesse». Di recente protagonista, insieme al Brasile di Lula, dell'accordo con Ahmadinejad sul nucleare per far uscire dall'isolamento Teheran, la Turchia sembra volersi allontanare sempre più dalla sua tradizionale vocazione euro-atlantica e volgersi verso Russia, Siria e Iran, non per giocare un ruolo di mediazione in Medio Oriente, ma per contribuire a creare un nuovo ordine nella regione, del quale potrebbe condividere la leadership con Damasco e Teheran.
La progressiva de-occidentalizzazione della politica estera turca, così come le tendenze "bolivariane" e anti-Usa in America Latina, che sembrano ora coinvolgere anche il Brasile di Lula, sono effetti imputabili almeno nel loro aggravarsi alla disastrosa politica estera smart della coppia Obama-Clinton nei confronti dell'Iran e del Medio Oriente, ma certamente anche alle incertezze europee sulle prospettive di adesione della Turchia. Certo che le ultime mosse di Ankara giustificano più di un dubbio sulla genuinità delle sue ambizioni europeiste.
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