Del veltronismo abbiamo già parlato in un post di qualche giorno fa, chiedendoci se nei prossimi mesi si aprirà davvero l'era del veltronismo "nazionale", se cioè il sindaco di Roma riuscirà a trasferire a livello nazionale il suo modello romano di creazione del consenso e gestione del potere.
Dipende.
L'estraneità del veltronismo alla politica "adrenalinica", fatta di scelte rischiose, potrebbe spiegare con largo anticipo il fallimento della sua trasposizione a livello nazionale. «Responsabilità, coerenza, coraggio di condurre battaglie ideali e culturali in campo aperto» sono le qualità della leadership citate da Andrea Romano parlando del blairismo, ben diverse però dal sonnacchioso galleggiamento di Veltroni, al quale si addicono di più «la dissimulazione elevata a metodo politico, il familismo come strategia, la tutela da ogni rischio come cifra della propria stagione».
A questo punto, tuttavia, Veltroni ha di fronte a sé due strade. Può porsi in continuità con il suo personaggio: continuare cioè a magnificare valori impossibili da non condividere, scansando ogni scelta che possa provocare divisioni, e a usare una retorica tanto vuota e generica da non scontentare nessuno, da non dover scartare nulla, per godere del consenso del più ampio arco di forze politiche e cercare di riprodurre la sua fortunata, anche se inconcludente, formula di potere. Oppure, può sorprenderci: decidendo che sia giunta l'ora di incassare l'ampio consenso di cui gode presso l'opinione pubblica e investirlo in un progetto politico qualificante, per il quale cioè sia disposto ad accettare la rottura di quella concordia, nella sinistra, sulla sua immagine di sindaco e candidato "buono per tutti".
Dovrebbe indicare per tempo cosa intende fare, avere il coraggio di scontentare qualcuno, pronunciarsi subito in modo netto su tre o quattro questioni, come le pensioni, le tasse, la Tav, la sicurezza, e via via su tutti gli altri temi dell'agenda di governo. Solo esponendosi, accettando il rischio della sfida politica in campo aperto, può vincere e, forte di una legittimità fondata su impegni chiari presi nei confronti dei cittadini, riuscire a governare.
Se vuole evitare di incamminarsi sulla stessa via prodiana al fallimento, guai a bissare le finte primarie che incoronarono Prodi nell'ottobre 2005. Da un nuovo plebiscito, stavolta per Veltroni, senza vere alternative e senza l'indicazione di una linea di governo chiara, dirimente, uscirebbe l'ennesimo programma di 281 pagine "fatto apposta per sommare le proposte di tutti i partiti della coalizione senza sostanzialmente sceglierne nessuna".
Perché la candidatura di Veltroni non sia solo un'operazione di cosmesi, e il Partito democratico non si riveli che un altro nome con cui chiamare l’Ulivo, ereditandone tutti i problemi, Veltroni dovrebbe rompere con la sinistra massimalista e comunista, dichiarare prima possibile che il Partito democratico si presenta ai cittadini come forza capace di assumere autonomamente la responsabilità del governo, e a questo scopo dovrebbe sostenere una legge elettorale uninominale. In un sistema maggioritario, infatti, con il suo 30% il Pd potrebbe aspirare a conquistare tutti o quasi i collegi non vinti da un partito di centrodestra. Quasi il 50% dei seggi in caso di sconfitta. Un po' di più in caso di vittoria.
Sarebbe questa la vera riforma della sinistra, e la via maestra per la riforma del paese, ma dubitiamo che Veltroni intenda intraprenderla. Non rimane che aspettare il discorso di mercoledì, al Lingotto di Torino.
Da LibMagazine
1 comment:
Credo che non ci sorprenderà. Ed è a mio parere superfluo quello che dirà domani a Torino. Le parole formeranno infatti la consueta magnetica melodia che tanti simpatici animaletti attira e aggrega in vista delle elezioni. Appena messo alla prova dei fatti, i topolini riconosceranno presto la solita vecchia strada verso il dirupo. E prenderanno a calci il pifferaio di turno. Anche questa mission verso il nulla passerà in fretta, come le altre. Saluti, woody.
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