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Wednesday, October 17, 2007

Bush prende per mano il Dalai Lama e sfida Pechino

«Ammiro il Dalai Lama. Appoggio le libertà religiose e se posso vado a tutte le cerimonie di consegna delle medaglie d'oro del Congresso. Ho detto al presidente cinese Hu Jintao che sarei andato a questa cerimonia, e gli ho spiegato anche perché, per rendere onore a quest'uomo. Ho detto a Hu che la tutela delle libertà religiose è nell'interesse della Cina, ho detto che dovrebbero incontrarlo, il Dalai Lama. Se si sedessero allo stesso tavolo con lui scoprirebbero che è un uomo di pace».
(George W. Bush, 17 ottobre 2007)

Com'era prevedibile, il Congresso e il presidente degli Stati Uniti non hanno abbassato lo sguardo di fronte alle minacce cinesi. Lo scorso martedì Bush ha incontrato privatamente il Dalai Lama e, il giorno successivo, ha partecipato alla cerimonia di conferimento della Medaglia d'Oro del Congresso Usa, la più alta onorificenza civile americana, al leader del buddismo tibetano, che vive in esilio dal 1959 a seguito dell'occupazione cinese del Tibet.

Il portavoce del Ministero degli Esteri, Liu Jianchao, aveva reiterato la richiesta di annullare le cerimonie previste ma, soprattutto, l'incontro del presidente Bush con il Dalai Lama e la sua presenza alla consegna del premio, ritenendoli «un'indecente ingerenza negli affari interni cinesi». La decisione di Pechino di rendere così plateale il proprio malcontento – «quest'azione danneggerà gravemente le relazioni fra la Cina e gli Stati Uniti», si era spinto a dichiarare il portavoce – ha senz'altro contribuito a conferire all'evento ancor più risalto e valore politico.

Bush ha fatto di più: ha consegnato egli stesso la medaglia d'oro nelle mani del Dalai Lama: «Gli americani non possono guardare la sciagura degli oppressi nella loro religione e chiudere gli occhi o distogliere lo sguardo». Il premio dà «grande gioia e incoraggiamento al popolo tibetano», ha risposto il Dalai Lama, ringraziando il presidente Usa per «la sua determinata presa di posizione per la libertà religiosa e la democrazia».

La Medaglia d'Oro del Congresso viene spesso assegnata come riconoscimento "politico" a personaggi che si distinguono per la loro azione a favore della democrazia e dei diritti umani. Premiati, tra gli altri, l'ex presidente del Sudafrica Nelson Mandela, Rosa Parks, Papa Giovanni Paolo II, Ronald e Nancy Reagan, Natan Sharansky e Tony Blair.

Rispettata, dunque, da parte di Bush la sua dottrina di promozione globale della democrazia? Sì e no. Sì, perché il presidente Usa non ha mai rinunciato, usando la forza delle parole nelle sedi più autorevoli e la sua agenda personale, alla costante opera di legittimazione delle opposizioni democratiche nei regimi dittatoriali non solo del Medio Oriente, ma di tutto il mondo. I suoi frequenti incontri con il Dalai Lama, ma anche con attivisti democratici di altri paesi, e le sue molte prese di posizione affinché quelli imprigionati, come l'egiziano Saad Eddin Ibrahim o la birmana Aung San Suu Kyi, venissero subito liberati, non hanno un valore meramente simbolico. Hanno anche ricadute politiche, magari non immediate, all'interno di quei paesi "chiusi" al resto del mondo e svolgono l'importante funzione di legittimare, dare voce, forza, convinzione e seguito ai democratici, indicandoli come futuri leader dei popoli oggi oppressi.

Non si tratta di gesti gratuiti. Pur di esercitare una pressione sulla Cina per i diritti umani, Bush ha messo nel conto dei costi, esposto il suo paese a difficoltà diplomatiche con una potenza mondiale con la quale ormai esiste un rapporto di interdipendenza economica. E, certo, questo episodio non renderà più facile vedere accolta da Pechino la richiesta di modificare alcuni comportamenti di natura economica e commerciale che incidono negativamente anche sull'economia americana.

Tuttavia, da un punto di vista più politico e strategico, Bush è in ritardo con la sua agenda, soprattutto in Asia. Dovrebbe essere maggiore l'impegno nell'istituzionalizzare una Lega delle democrazie asiatiche. La recente crisi birmana ha sì confermato l'attenzione della Casa Bianca per la causa della democrazia, ma ne ha anche evidenziato l'impotenza, l'incapacità di condizionare, direttamente o attraverso i paesi "amici", gli eventi in quella parte del mondo, giungendo al paradosso di dover confidare proprio nell'intervento di Pechino per la soluzione pacifica della crisi e l'avvio in Birmania di un improbabile processo democratico.

Il nervosismo cinese è un utile indicatore di quanto tali gesti non siano affatto inutili o solo simbolici. Pechino ha paura dell'influenza del Dalai Lama sul piano internazionale, teme il buddismo tibetano, ancor più dopo che i monaci buddisti birmani hanno dimostrato di poter mobilitare quanto meno le coscienze del mondo libero contro la Giunta militare a Yangon. A parte gli interessi commerciali e strategici, se i monaci buddisti fossero riusciti a rovesciare il regime avrebbero potuto essere di esempio ai buddisti del Tibet. In ogni caso, il conflitto tra i buddisti e la dittatura birmana ha fatto tornare di attualità la questione tibetana e la popolarità, l'autorevolezza di cui gode il Dalai Lama nel mondo è oggi ancor di più un pericolo per la stabilità di regime in Tibet.

Il Dalai Lama, che in un'intervista a Voice of America ha tra l'altro apprezzato le gesta dei monaci birmani, di fronte al caso diplomatico ha ostentato la sua proverbiale e ascetica serenità: «Succede tutte le volte», ha detto ridendo. «Ci conosciamo, e abbiamo creato, credo, una vera profonda amicizia, è come una riunione di famiglia», ha aggiunto su Bush. Da qualche anno il leader spirituale buddista non parla più di indipendenza per il Tibet, ma di «genuina autonomia», sperando di avviare così un dialogo con Pechino. Ma il governo cinese continua ad accusarlo di attività secessioniste. La regione è stata occupata dall'esercito cinese di Mao nel 1950. Verrà prima o poi dimostrato che da allora la politica attuata da Pechino è stata di vera e propria pulizia etnica, se non di genocidio: massacri, distruzione dei monasteri e dei simboli della cultura tibetana, "cinesizzazione" forzata della composizione etnica della popolazione, campagne di rieducazione.

Il 2008 sarà l'anno delle Olimpiadi in Cina e qualcuno, come Bernard Henry-Levy, propone al mondo libero di minacciare il boicottaggio. Un'idea che non deve apparire né irrealistica, né inutile o controproducente. Sarebbe utile se in modo coordinato Usa, Ue e le democrazie asiatiche svolgessero un'azione volta a obiettivi di concreta apertura, soprattutto per quanto riguarda la libertà d'espressione. In Italia, ministri attenti all'export, come D'Alema e Bonino, tentano di screditare l'ipotesi, equiparandola a un embargo, o a un totale isolamento della Cina, che nessuno vuole né sarebbe in grado di attuare.

1 comment:

Anonymous said...

Con Bush il Dalai Lama...
con noi il D'Alema...

Ecco perchè non ce la possiamo fare.

Bush vs Pechino...
Baffino a tappetino...