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Saturday, December 29, 2007

Arrivederci al 2008

Con questo post il blog si prende una pausa fino al 3 gennaio. Auguro a tutti voi un buon nuovo anno, migliore di questo.

"More than This", Roxy Music (1982)

Molte teste e mani dietro l'assassinio della Bhutto

Il video è fin troppo chiaro: Benazir Bhutto non è morta sbattendo la testa, per il trambusto seguito alla deflagrazione del kamikaze, sul tettuccio dell'auto dalla quale si era sporta per salutare la folla, come ha sostenuto la polizia pachistana.

Dalle immagini si distingue perfettamente, un attimo prima dell'esplosione, la mano di un uomo che punta la pistola contro la Bhutto ed esplode due colpi. L'uomo riesce ad arrivarle a pochissimi metri di distanza, appena sotto al fuoristrada, dalla parte posteriore. Particolare che conferma la debolezza delle misure di sicurezza delle forze dell'ordine, e proprio nella cittadella militare di Rawalpindi (forse il luogo più controllato e blindato del paese, secondo gli analisti).

Quello di oggi sarà il giorno in cui verrà messa in dubbio la pista che porta ad Al Qaeda, a Mahsud, il suo luogotenente in Pakistan, e farà pensare invece più agli ambigui servizi segreti pachistani, se non direttamente a Musharraf. Certo, avrebbero fatto un grosso favore agli estremisti islamici, che dalla destabilizzazione del paese hanno tutto da guadagnare, ma avrebbero protetto anche ai loro interessi. E' noto infatti che la Bhutto intendeva porre dei limiti al loro strapotere nel paese.

Forse, per ora, rimane più probabile che ad uccidere Benazir sia stata la mano di Al Qaeda (e certo nessuno può credere all'alibi di queste ore, i fanatici che si fermerebbero di fronte alle donne in nome dell'islam). Ma sia dal punto di vista dei moventi che dell'organizzazione, tutto fa pensare a un attentato in tandem, fifty-fifty, Al Qaeda-Servizi segreti, dagli obiettivi non proprio sovrapponibili ma capaci di convergere nel comune interesse per la morte della Bhutto.

Morte che a giudicare dalle conseguenze, almeno in questo primo momento, sia in Pakistan sia a livello internazionale, non sembra favorire Musharraf, ma non si può neppure escludere quanto meno un suo via libera: in fondo, passata la tempesta iniziale, potrebbe rafforzarsi come unico uomo forte, agli occhi degli occidentali, in grado di mantenere il controllo sulla polveriera Pakistan.

Musharraf presidente non più generale e Benazir Bhutto primo ministro era lo scenario più probabile e verso cui con convinzione spingeva Washington, nell'ottica di un processo di democratizzazione e secolarizzazione del Pakistan. Una strategia condivisibile, ma bisogna anche pragmaticamente constatare che forse aver puntato troppo platealmente sulla Bhutto, ottenendo da lei assicurazioni sulla caccia ai terroristi nel Waziristan e nel resto del paese, l'ha in definitiva esposta mortalmente all'ira di troppi nemici contemporaneamente.

Oltre a non essere in grado di sradicare le roccaforti di Al Qaeda e dei Talebani nel Waziristan, un Pakistan destabilizzato si presta a divenire uno di quegli stati falliti in cui gli islamisti possono puntare a prendere il potere. Per questo l'unico modo in cui il Pakistan può davvero essere in grado di combattere il terrorismo è avere un governo legittimato democraticamente e secolare, che possa orientare il popolo pachistano contro Al Qaeda, i Talebani, e gli altri estremisti islamici.

Enzo Bettiza, su La Stampa di oggi, fa notare come dall'11 settembre in poi, nonostante gli attacchi in Spagna e Gran Bretagna, «la sequela degli attentati, tra autobombe e kamikaze suicidi, è stata molto più fitta, più ininterrotta, in definitiva più spietatamente concentrata nel labirinto dei Paesi islamici. L'ossessione dello "scontro di civiltà" tra Occidente e Islam appare, se non del tutto inesatta, quantomeno troppo rigida e preponderante se messa a confronto degli scontri di fazione e di potere che hanno seguitato a lacerare e lacerano soprattutto l'Islam». Di potere, politici, specifica bene Bettiza. Accortosi del calo delle azioni e del seguito di Al Qaeda in Iraq, è chiaro che Bin Laden o chi per lui sia «più che mai interessato a spostare il tiro principale sul Pakistan: forse ne vede già prossima la talebanizzazione a tappe spontanee più che forzate».

Di tutto questo l'Europa «dovrebbe tenere conto, evitando di separarsi dall'America o di tramutare gli errori americani in torti irreversibili. Cambiando l'ottica e il giudizio sulla realtà autocombustibile dell'Islam, mutando la nostra visione talora schematica del mappamondo, sarebbe improprio persistere soltanto nella critica irenica e nel "dialogo" in un momento in cui ci troviamo di fronte a un rischio dagli effetti incalcolabili: la possibile trasformazione del Pakistan in uno Stato talebano di prima classe con un arsenale di almeno 50 testate nucleari. La realtà con cui pure l'Europa così brava, così umana, così guardinga, dovrà nei prossimi tempi misurarsi va ben al di là delle bacchettate e dei dispetti tra occidentali: è l'atomo che può diventare brado a Islamabad o fisso sul missile a Teheran».

Referendum. Riflettori sulla Corte incostituzionale

Saltano le rassicurazioni interessate di quanti, come Zagrebelsky, smentiscono l'assedio di pressioni più o meno occulte sui giudici della Corte costituzionale in merito ai referendum elettorali. Le molte sentenze di inammissibilità su cui la Corte si è fatta condizionare dalla politica le ricorda oggi, sul Corriere della Sera, Francesco Verderami. Strano che non si ricordino sentenze di ammissibilità su cui siano state così determinanti le pressioni politiche.

Eloquenti, sull'ultimo quesito al vaglio della Corte a metà gennaio prossimo, le parole franche del leghista Calderoli, tra i contrari al referendum, registrate da Verderami:
«Rispetto al passato la Consulta oggi non esprime un blocco solido, ma è divisa tra chi appoggia il governo e auspica le elezioni nel 2011, e chi - sempre in area di centrosinistra — rappresenta un'altra linea e vede invece con favore il voto nel 2009. I primi sono contrari all'ammissibilità dei quesiti, i secondi favorevoli. E siccome sotto il profilo giuridico ci sono diverse scuole di pensiero, è chiaro che la sentenza sarà squisitamente politica. Perciò la decisione non è scontata. E chi dice che non vengono esercitate pressioni sulla Consulta, sa di dire il falso. So per certo che in questi giorni il fronte degli anti-referendari sta facendo sentire la propria voce».

I poco credibili difensori di Malpensa

Gli effetti negativi della vendita di Alitalia ad Air France su Malpensa non c'entrano nulla con la questione settentrionale e con le politiche punitive che questo governo ha sì attuato nei confronti dei ceti produttivi e, quindi, in gran parte nei confronti del Nord Italia.

Malpensa è uno scalo aeroportuale di proprietà del Comune di Milano sul quale ogni compagnia aerea può (e dovrebbe) decidere in piena autonomia se e quanto puntare, se e quanto investire, seguendo logiche commerciali. Finora Alitalia non ha potuto seguire quelle logiche, proprio per gli interessi e le pressioni della politica, non solo romana ma anche locale. Il Tesoro, azionista di maggioranza, ha dovuto tenere conto di tutte le istanze "politiche" nella gestione della compagnia di bandiera. Proprio queste palle al piede non hanno permesso ad Alitalia di essere gestita secondo logiche di mercato e l'hanno resa una compagnia da 400 milioni di euro di perdite l'anno. Coloro che oggi protestano per Malpensa sono parte del problema che ha portato Alitalia al fallimento.

E nel caso Malpensa abbiamo la migliore dimostrazione di quanto siano trasversali agli schieramenti i cosiddetti veto-player: veti corporativi, localistici, clientelari, posti da sindacati, partiti, enti locali di sinistra o di destra che sanno solo dire no e opporsi alle decisioni prese da Roma nell'interesse generale, come nel caso della Tav, o da un'azienda che per sopravvivere dovrebbe poter agire secondo logiche commerciali, come nel caso di Alitalia. Nel caso della Tav sono Verdi, comunisti, Disobbedienti e altre formazioni antagoniste, oltre ai sindaci della Val Susa. Oggi, nel caso di Malpensa, è Formigoni a guidare la protesta, gettando la maschera da liberale e mostrando le sua cultura democristiana. Protesta cavalcata anche da An e Lega, in compagnia dei sindacati. Eccolo qui il problema del nostro paese: per una volta che all'interno di un governo fallimentare prevale il "partito del mercato", è dall'opposizione di centrodestra che si leva la bandiera dell'italianità, strumentale a nascondere la voglia di partiti e sindacati di avere ancora le mani in pasta in Alitalia.

D'altra parte, come si spiega il no a Ryanair, che si è offerta di coprire in parte il parziale ritiro di Alitalia, per quanto riguarda le rotte internazionali a breve-medio raggio? Si vuole a tutti i costi mantenere una compagnia italiana a Malpensa, di proprietà dello Stato o delle banche, su cui poter esercitare la propria influenza politica e sindacale. Certo, passando ad Air France-Klm (primo vettore mondiale), quei partiti non potrebbero più tracciare rotte di loro comodo oppure sistemare "compagni" dirigenti.

Sono «senza senso» le proteste del «partito del Nord», spiega Andrea Giuricin, fellow dell'Istituto Bruno Leoni: «Alitalia ha scelto Roma Fiumicino nel suo piano industriale presentato in settembre. La stessa scelta viene ora portata avanti da Air France, probabile futuro acquirente della compagnia italiana. Sarà il mercato a dire se tale scelta industriale compiuta è giusta o meno... la realtà dura e cruda è solo una: Alitalia non è mai stata in grado di avere un doppio hub (Roma e Milano), se non con perdite di milioni di euro l'anno. Non deve essere lo Stato a salvare Malpensa, così come non doveva essere lo Stato a gestire Alitalia così male per così tanti anni».

Se Alitalia cederà gli slot su Malpensa, ciò non significa che non possano essere acquisiti da altre compagnie. Se non lo fossero, vuol dire che non c'è sufficiente traffico aereo e in quel caso autorità pubbliche e privati dovrebbero sforzarsi per attrarne. Il problema, quindi, è come sviluppare al meglio Malpensa, non più obbligando Alitalia a scelte autolesionistiche perché tanto pagano i contribuenti, ma puntando su una seria strategia commerciale. Il Comune di Milano, primo azionista della SEA Milano, «deve agire come un privato e cercare nuovi clienti». La domanda a questo punto è: saprà farlo?

«Se la domanda di traffico è reale, resterà tale, a prescindere da chi offrirà i voli», spiega anche Oscar Giannino, su Libero, rivolgendosi direttamente al presidente della Lombardia Formigoni. Il Nord, Malpensa, non sono stati traditi oggi, ma quando si «fece credere che, malgrado le perdite di Alitalia già evidenti, la compagnia avrebbe potuto senza problemi allestire una seconda propria base di armamento a Malpensa» e «in tutti gli anni successivi, fino a quando è apparso evidente anche ai più testoni, che ormai Alitalia era in condizioni puramente fallimentari, fuori dalle rotte internazionali, con il ricco traffico business del Nord sempre più aspirato da Monaco e Francoforte, con una flotta sempre più vecchia e velivoli che non valgono più nemmeno il prezzo della lega metallica con cui sono realizzati».

La sinistra che non digerisce il merito individuale

Perché per la sinistra è così difficile accettare che il salario sia in qualche modo legato al merito, cioè alla produttività anche individuale? Pesa la concezione marxista, ma anche cristiano-sociale, che il salario non sia legato al valore prodotto, bensì, come ha siegato Andrea Ichino, ieri sul Sole 24 Ore, ad una «astratta capacità umana, uguale per tutti», che ha valore in sé, indipendentemente dal bene prodotto.

I sindacati e la sinistra comunista ritengono le doti innate, e il contesto (cioè l'organizzazione dell'impresa), gli unici fattori che determinano la produttività anche individuale. Dunque, sarebbe «non solo eticamente ingiusto, ma anche inutile pagare i lavoratori in proporzione al risultato e in modo differenziato, perché questo non influirebbe sulla loro produttività».

Si tratta evidentemente di una convinzione profondamente viziata dall'ideologia, perché tutti sappiamo per esperienza diretta e per semplice buon senso che la produttività individuale dipende «anche dall'impegno che il lavoratore decide di esercitare». Ma chiaramente merito individuale e valore della prestazione sono concetti che scardinano il determinismo della teoria marxista sul conflitto di classe.

Per questo, «la soluzione proposta dalla teoria economica prevede un contratto in cui la retribuzione sia composta da una parte fissa, per assicurare il lavoratore dagli eventi a lui estranei, e una parte variabile in funzione del prodotto, per incentivare il lavoratore» a un impegno «ottimale». «Sembra proprio quanto prescrive l'art. 36 della Costituzione nelle sue due parti», fa notare Ichino.

Friday, December 28, 2007

Se la Corte si sostituisce agli elettori

Per fortuna qualcuno, il solito Angelo Panebianco, ha risposto all'indegno editoriale di Gustavo Zagrebelsky prima di Natale. La sua ultima opera («I falsi difensori della Consulta», la Repubblica, 24 dicembre) è un imbroglio.

Ricorrendo a uno smaccato artificio retorico degno di un azzecca-garbugli, accusa di pressioni sulla Corte costituzionale proprio coloro, come l'ex giudice Vaccarella e il referendario Guzzetta, che hanno denunciato le pressioni politiche sulla Corte in merito al referendum elettorale.

Tutto il ragionamento di Zagrebelsky si regge sulla premessa - falsa - che ad allarmare i sostenitori del referendum siano esclusivamente «dichiarazioni pubbliche di uomini di governo circa il contenuto della decisione della Corte». Su di esse anche Panebianco gli dà ragione: «Le Corti costituzionali o supreme vivono nel mondo e ci sono sempre stati, in tutte le democrazie che ne dispongono, tentativi di influenzarne le decisioni. Non vale la pena di scandalizzarsene...». Tentativi alla luce del sole, nel libero confronto politico.

Non staremmo parlando, secondo Zagrebelsky, di «trame segrete, di frequentazioni ambigue, di contiguità d'interessi politici, economici o professionali». Queste sì, aggiunge, «quando ci sono, sono allarmanti». Ebbene, è invece proprio di queste, emerse nei giorni scorsi dalle pagine di autorevoli quotidiani, e mai smentite, che si sta parlando, ma a Zagrebelsky fa comodo escluderle dal suo ragionamento.

La Corte, chiede provocatoriamente l'ex presidente della Consulta, ha forse bisogno di essere «tutelata»? «Non sa "tutelarsi" da sé, semplicemente facendo uso delle prerogative di autonomia che la Costituzione le concede in somma misura, una misura che non si riscontra con riguardo a nessun altro organo costituzionale? Una Corte che ha bisogno della protezione d'altri? Diffondere questa idea, questo davvero è un attentato alla sua indipendenza», sentenzia Zagrebelsky.

Semplicemente no. Non di «tutela» ha bisogno la Corte, ma di denuncia pubblica e preventiva della natura politica, e non giuridica, che potrebbe caratterizzare anche la sua prossima decisione sui referendum. Denunce e sospetti che appaiono più che mai fondati alla luce della lunga serie di precedenti, soprattutto in materia referendaria, e dell'edificazione di una giurisprudenza basata sull'espansione abnorme di criteri discrezionali che non trovano rispondenza nell'art. 75 della Costituzione.

Ma Zagrebelsky non si scomoda neanche a cercare di convincerci che invece la Corte giudica in punta di diritto e in modo indipendente. Con la ben nota tecnica retorica, egli punta l'indice non sul problema, ma su chi lo denuncia e "diffonde" una legittima preoccupazione.

Nell'ultimo capoverso del suo editoriale Zagrebelsky dimostra implicitamente quanto siano fondati i sospetti di una decisione politica della Corte. Egli stesso, infatti, suggerisce ai giudici un argomento per bocciare almeno uno, il più importante, dei quesiti referendari: come si potrebbero criticare i giudici, dice Zagrebelsky, se essi dichiarassero inammissibile un referendum che (vale la pena di citare testualmente le sue parole) «attribuisce un mai visto "premio di maggioranza" alla lista che ottiene un numero di voti qualunque, anche molto basso, purché superiore a quello di ognuna delle altre liste»?

La Corte ovviamente può benissimo anche ritenere non ammissibile il quesito, ma è chiamata a motivare la sua sentenza. Se però, come motivazione adducesse quella di Zagrebelsky, allora sì, darebbe la prova del cedimento alle pressioni politiche.

Quello che Zagrebelsky trova così assurdo, infatti, non è altro che il principio "First-Past-the-Post". All'insigne giurista dà fastidio ciò che può accadere in ogni sistema elettorale maggioritario: cioè che, in presenza di più di due candidati, partiti, o coalizioni, uno prevalga (aggiudicandosi il premio) «con un numero di voti qualunque, anche molto basso», (purché, si intende, almeno uno più degli altri). In pratica, osserva Panebianco, questo non accade, perché di solito «se c'è un premio alle coalizioni, gli elettori tendono a indirizzare i voti sulle due che hanno più probabilità di prevalere mentre nei collegi uninominali li concentrano sui due o tre candidati più quotati».

Premesso che un "premio di maggioranza" è già in vigore senza suscitare scandalo (con il referendum si tratterebbe di trasferirlo dalla coalizione al partito che prende più voti), dichiarare inammissibile il referendum respingendo il principio "First-Past-the-Post" equivarrebbe a sostenere l'inammissibilità costituzionale di qualsiasi legge elettorale maggioritaria, pluri o uninominale. Una tale sentenza sarebbe indiscutibilmente politica, perché la Corte non è chiamata a dichiarare la sua preferenza tra i diversi sistemi elettorali, bensì a decidere sull'ammissibilità del quesito alla luce di quanto prescrive l'articolo 75 della Costituzione (relativo alle condizioni di ammissibilità/inammissibilità).

«Non si può proprio definire "mai visto" un qualsivoglia sistema elettorale che dia la vittoria a chi ottiene — persino, eventualmente, con una bassissima percentuale di voti — anche un solo voto in più degli altri. La notissima espressione inglese "first past the post" usata per qualificare i sistemi maggioritari a un turno indica precisamente ciò. Anche se può fare orrore alla mentalità proporzionalistica, tuttora così diffusa nel nostro Paese, si tratta del principio cui si ispirano (in genere, vivendo piuttosto bene) le democrazie maggioritarie. Spero che la Corte dichiari i referendum ammissibili e che, durante la campagna referendaria, si possa di nuovo incrociare i fioretti: da un lato, i fautori del principio "maggioritario" (come me e come altri), dall'altro i "proporzionalisti", come Zagrebelsky e altri», conclude Panebianco.

Dunque, se la Corte bocciasse il quesito sulla base dell'argomento di Zagrebelsky, assumerebbe una decisione di carattere politico, aderirebbe nel merito all'opzione dei "proporzionalisti", prendendo il posto di coloro ai quali eventualmente spetta di aderirvi: gli elettori.

I limiti del "partito del rigore"

Mentre il presidente del Consiglio con un tono di voce da oltretomba fallisce negli ultimi illusionismi di fine anno, Panebianco e Ricolfi tornano a denunciare il declino italiano indicandone lucidamente le cause. Angelo Panebianco, sul Magazine del Corriere, se la prende con la cultura catto-comunista che ancora prevale nella politica e nella società italiana.

Si continua a proclamare la necessità di «riforme», ma in pochi spiegano quali, per fare cosa. «Politici e commentatori parlano poco di sviluppo perché temono di urtare la sensibilità di quelli che pensano che lo sviluppo sia una cosa, al tempo stesso, sporca (inquinante) e peccaminosa, immorale. E' più facile sentire omelie contro il denaro e il consumismo (e quindi, implicitamente, contro la crescita economica) che convinti discorsi a favore dello sviluppo». Semmai, abbondano discorsi a favore della «ridistribuzione senza crescita», che sembrano «ispirati a ideali di comunismo primitivo». Ma se in breve tempo non saremo in grado di sviluppare un tasso di crescita superiore al 3/4% annuo andremo incontro a un «impoverimento collettivo», e i greci, oltre che gli spagnoli, ci sorpasseranno.

E' «difficile immaginare un esecutivo ancora più dannoso e scomposto di quello che ci ha governati in questa legislatura», ma per Luca Ricolfi è anche «improbabile che un nuovo governo affronti i problemi che più stanno a cuore alla gente comune». E non solo perché «i nostri politici si sono autoconvinti che se non riescono a decidere non è colpa loro, ma delle istituzioni».

Anche perché quel "partito del rigore" che potrebbe subentrare, scalzando Rifondazione e i sindacati per tentare di realizzare «quel che Prodi e Padoa-Schioppa hanno sempre promesso nei loro Dpef, senza però mai mantenere l'impegno a causa dell'opposizione della sinistra estrema», punterebbe a «risanare i conti tenendo alta la pressione fiscale e tagliando la spesa corrente». Sarebbe ragionevole, si chiede Ricolfi, una simile politica, a prescindere dalle sue possibilità di successo?

No, perché non terrebbe conto di due questioni fondamentali: il drammatico calo del potere di acquisto e lo stato sociale «sprecone» e «incompleto». Non basta, insomma, «liberarci dal partito della spesa», se poi finiamo nelle mani di quello «dei banchieri». Ricolfi indica «tre impegni fondamentali»: una «vera riduzione delle imposte»; finanziare lo stato sociale eliminando gli sprechi: se «il ministro X vuole spendere 100 per un nuovo servizio, il governo gli concede 30 ma solo dopo che il ministro ha già raccolto 70 eliminando sprechi in un servizio preesistente (secondo valutazioni prudenti, gli sprechi eliminabili senza ridurre i servizi erogati superano ampiamente i 50 miliardi di euro all'anno)»; un «piano oculato di dismissioni e privatizzazioni».

Thursday, December 27, 2007

La più classica delle morti annunciate

Annunciata non solo perché precedenti tentativi erano falliti negli ultimi due mesi, da quando cioè aveva fatto ritorno in Pakistan dopo un lungo esilio, ma anche perché era la logica a suggerirlo. Anti-islamista e filo-occidentale, prima donna a capo del governo di un paese islamico (dal 1988 al 1990 e dal 1993 al 1996), personaggio controverso, ma indubbiamente Benazir Bhutto in questa fase rappresentava il più trascinante fattore di democratizzazione e di laicizzazione per il Pakistan. Un obiettivo perfetto per Al Qaeda, che ha rivendicato l'attentato, ma in molti potevano pensare di trarre vantaggi dalla sua morte. Per questo è lunga la lista dei sospetti.

Al Qaeda, per impedire le elezioni, sabotare il processo democratico, destabilizzare il paese, cerca di colpire e uccidere chiunque sia complice degli Usa nella guerra al terrorismo e all'islamismo e funzionale al processo democratico: la Bhutto corrisponde perfettamente all'identikit, ma anche lo stesso Musharraf.

Ma Al Qaeda gode di molte complicità in Pakistan. Dalla semplice mano d'opera alle connivenze con l'intelligence pachistana. La Bhutto sarebbe stata la sfidante più pericolosa per il presidente Musharraf alle prossime elezioni parlamentari dell'8 gennaio. Per questo, sarà importantissimo che le intelligence occidentali, americana ed europee, riescano a comprendere le reali responsabilità di Musharraf. Se gli attentatori abbiano goduto di complicità, quali e a che livello negli apparati di potere pachistani; se in qualche modo l'ex generale abbia favorito l'uccisione della sua principale avversaria o se, semplicemente, non abbia il controllo dei servizi di sicurezza.

Il marito della Bhutto ha già puntato il dito contro il governo, già oggetto di molte polemiche per le deboli misure di sicurezza riservate alla leader dell'opposizione.

Musharraf potrebbe aver pensato che l'instabilità conseguente all'assassinio della Bhutto gli avrebbe fornito una valida giustificazione per rinviare o annullare le elezioni e per assumere ulteriori poteri e iniziative di repressione. Ma l'instabilità rischia di trasformarsi in guerra civile e di travolgere egli stesso.

Il dolo, o il fallimento del presidente Musharraf nel garantire una protezione efficace alla Bhutto, pongono comunque pesanti interrogativi sul futuro del Pakistan e sulla politica da perseguire con Islamabad.

Gli Stati Uniti «condannano con forza questo atto codardo da parte di assassini estremisti che stanno cercando di sabotare la democrazia in Pakistan», ha dichiarato il presidente Bush. «I responsabili di questo crimine devono essere portati davanti alla giustizia. Noi ci uniamo ai pakistani nella loro lotta contro le forze del terrore e dell'estremismo. Li incoraggiamo a onorare la memoria di Benazir Bhutto continuando nel processo democratico per il quale ha così coraggiosamente sacrificato la sua vita».

Washington ha investito politicamente molto sulla riconciliazione tra la Bhutto e Musharraf. Il ritorno della Bhutto nel suo paese e la possibilità per lei e il suo partito di partecipare a elezioni libere e corrette erano i fondamentali della politica di Bush in Pakistan. E adesso?
Nel lontano 1988 la Bhutto era stata la prima donna eletta primo ministro in un paese musulmano. Qualcosa di impensabile oggi, a dimostrazione di quanta strada abbia compiuto il fondamentalismo da allora ad oggi e di quanto poco o nulla abbiano a che fare con la sua avanzata nel mondo islamico le politiche degli Stati Uniti, quelle post-11 settembre, quelle clintoniane degli anni '90 e tutte quelle volte a contrastare l'Unione sovietica, prima del 1989.

Tutti i giornalisti chiedevano a Benazir Bhutto se avesse paura di venire assassinata. Era la domanda di rito. Il suo semplice ritorno in patria nel 2007 si è rivelato una sfida all'islamismo molto più di quanto lo fosse nel 1988 venire eletta primo ministro.

Gli Stati che uccidono di più

Al di là delle intenzioni non certo anti-americane dei radicali (di molti altri forse sì), è però fuor di dubbio che il segno politico della battaglia per la moratoria sulla pena di morte, l'aver voluto cioè far esprimere l'Onu, sia stato in quei termini percepito sull'altra sponda dell'Atlantico. Sarà un effetto di quelli non desiderati, ma reale. Essendo gente pratica, gli americani scarsa o nulla importanza hanno attribuito al voto dell'Onu, perché incapace di produrre effetti più che meramente simbolici.

Nei giorni scorsi sia il Washington Post che il New York Times, nell'elencare i dati e i segnali che indicano una moratoria de facto della pena di morte negli Usa, moratoria vista con favore da entrambi i quotidiani, non hanno nemmeno citato il voto dell'Assemblea generale dell'Onu.

Ma far approvare la moratoria dal Comitato per i Diritti umani prima, e dall'Assemblea generale poi, organi screditatissimi proprio in tema di democrazia e diritti umani, politicamente ha significato porre sullo stesso piano "morale" paesi diversissimi come Stati Uniti e Iran, India e Pakistan, Cina e Giappone.

La pena capitale nel mondo è causa ogni anno di circa 5 mila morti, una minima parte dei morti causati direttamente o indirettamente dagli Stati, tra genocidi, repressioni, pulizie etniche, fame e sottosviluppo, guerre. Dei 51 paesi mantenitori della pena di morte, 40 sono paesi dittatoriali, autoritari o illiberali. In questi paesi, nel 2006, sono state compiute almeno 5.564 esecuzioni, pari al 98,8% del totale mondiale. Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa l'89% del totale mondiale.

Se il 98,8% delle esecuzioni hanno luogo in paesi dittatoriali, è lecito concludere che il problema della pena di morte sia solo un capitolo del più grande dossier che va sotto il nome di "dittatura". E allora, porre sullo stesso piano dal punto di vista politico e morale grandi democrazie e "stati canaglia", confondere un istituto di diritto penale, seppure brutale, comunque interno ad uno stato di diritto, con la violazione sistematica dei diritti umani fondamentali, è un regalo politico alle dittature responsabili del 98,8% delle esecuzioni nel mondo.

Gli Stati che uccidono di più - legalmente o no - sono quelli dove mancano democrazia, libertà e stato di diritto. Se non si inserisce il problema della pena di morte, in qualche modo sciogliendolo, all'interno di questa cornice più grande, si rischia di non cogliere il punto e di confondere i fronti.

Allo studioso John R. Schmidt il Dipartimento di Stato Usa ha affidato un'analisi sulla campagna europea e italiana contro la pena di morte. Uno studio da think tank, «limitato agli esperti e poco pubblicizzato», ma avviato da tempo. Ne ha parlato Massimo Franco, prima di Natale, sul Corriere della Sera. Durante tutto l'iter della moratoria e dopo la sua approvazione, il silenzio della stampa statunitense è stato «quasi totale», ma nel frattempo il Dipartimento di Stato faceva ricostruire «genesi e dinamiche» per valutare in anticipo «le motivazioni e le conseguenze della vittoria in primo luogo europea ed italiana».

La conclusione a cui è giunto Schmidt è che si tratta di «un tema-simbolo che le élites del Vecchio Continente hanno scelto da tempo per costruire una propria identità. E che ormai rappresenta non più un argomento di politica interna all'Ue, ma un biglietto da visita per esportare ed affermare un profilo internazionale autonomo; e con venature morali che storicamente l'Europa ha teso a rimproverare alla politica estera degli Stati Uniti», riassume Franco, riportando quanto annota Schmidt in un breve saggio apparso su Survival, la rivista dell'International Institute for Strategic Studies di Londra: «Il tema della pena di morte dimostra che esistono due visioni in competizione, che potrebbero provocare nel tempo frizioni crescenti nei rapporti transatlantici».

Gli Usa sono diventati uno dei principali bersagli della campagna abolizionista, anche perché essendo un paese alleato e democratico, le opinioni si possono liberamente esprimere, senza rischiare il carcere o rappresaglie commerciali. C'è un altro motivo, però, per cui gli abolizionisti puntano il dito contro gli Stati Uniti: perché sono sempre stati visti come una culla della democrazia, della libertà e dei diritti umani. Eppure, la pena di morte di certo non ha a che fare con la democrazia e la libertà, e con i diritti umani solo secondo una concezione estesa e progressista di essi che assolutizza la sacralità della vita.

Sul piano squisitamente morale, infatti, si potrebbe persino discutere la "moralità" di uno Stato che garantisca a un omicida vitto, alloggio, cure pluridecennali, mentre gran parte della sua popolazione muore di fame e malattie. Una condizione che potrebbe riguardare decine di stati, suprattutto in Africa.

«L'ironia - annota l'analista - è che durante la Guerra fredda molti alleati europei esitavano ad appoggiare le campagne contro le violazioni dei diritti umani da parte dell'Urss: dovevano essere stimolati da Washington». La vittoria della moratoria va attribuita alle élites europee, sottolinea Schmidt, «non nasce da un'ondata di indignazione popolare. L'ostilità contro la pena di morte è un tema elitario», scelto accuratamente a fini interni. A lungo si potrebbe discutere su questa valutazione. E' indubbio però che l'opinione pubblica su questo tema si esprime facendosi molto condizionare dall'emotività.

E' molto politically correct in Europa dirsi contrari alla pena di morte, sulla spinta di un sentimento solidaristico-umanitario promosso dalla cultura, dall'arte e dal cinema, dallo star-system, anche americano. Ma sull'onda emotiva di efferati delitti, la pena di morte smette di essere un tabù. Rispetto poi a quanto accade nel resto del mondo, fuori dall'Europa, gli europei si dimostrano disinteressati alla pena di morte come a molti altri temi, sono degli irriducibili isolazionisti. Che l'Europa sia diventata «la seconda presenza moralizzatrice nella comunità internazionale», è quindi un giudizio quanto meno affrattato, se non palesemente infondato.

Più che la pena di morte, avvertito a Washington come tema minore, se non altro perché è ciascuno stato e non il governo federale a decidere democraticamente, preoccupano le «lacerazioni» sulla guerra in Iraq e quelle, possibili venture, sulla crisi iraniana. Probabilmente, un altro difetto dell'analisi di Schmidt è quello di osservare l'Europa come un interlocutore più o meno unitario, mentre le differenze culturali e le divisioni politiche sono ancora marcate.

Il Corriere ha intervistato su quest'analisi il radicale Marco Cappato, che ha farcito la sua replica criticando gli Usa per l'uso degli «strumenti militari, seguendo peraltro interessi legati al petrolio», che avrebbero prodotto «risultati devastanti». Tra questi, secondo Cappato, «basta guardare come, negli Stati arabi, sia crollata la popolarità della stessa parola democrazia». La risposta di Cappato non fa che confermare l'ipotesi di Schmidt. A noi non risulta che la parola democrazia sia stata mai molto amata in quella regione prima del 2003. Piuttosto, osserviamo che le "piazze arabe" non si sono affatto lasciate andare a violenze anti-americane e anti-occidentali, come molti avevano predetto prima dell'invasione dell'Iraq.

I baristi tengono lontana Starbucks

Vi sarete chiesti perché in Italia non è ancora approdata la Starbucks, la grande catena americana di caffetterie. E vi sarete dati una risposta. Pur considerando i suoi prodotti assolutamente gradevoli, bevande ben diverse dal caffé e dal capuccino che si bevono qui da noi, ho sempre pensato che Starbucks non si sentisse in grado di competere con i bar italiani.

Oggi dal Financial Times giunge la conferma: se Starbucks non è sbarcata in Italia è perché sente di non poter vincere la concorrenza con i nostri baristi. E' costretta a «inchinarsi ai baristi italiani», scrive addirittura il quotidiano economico. Ha aperto in Giordania, Russia, Egitto, per un totale di 43 paesi al mondo, ma non in Italia. Perché gli italiani sono "fissati" con la caffeina, scrive Adrian Michaels, e amano i loro baristi.

Non è che la gamma dei prodotti Starbucks non sia di qualità ed estremamente variegata. Il punto è che la catena in Italia incontrerebbe una concorrenza serratissima (quale non esiste in nessuna altra parte del mondo) senza poter offrire prezzi competitivi. «Un espresso in Italia costa di solito meno di 1 euro, un doppio espresso da Starbucks a Parigi costa 2 euro e il singolo non esiste», osserva il FT. Gli italiani poi sono abituati ad avere la loro tazzina in pochi secondi, mentre da Starbucks c'è quasi sempre la fila. E la compagnia sostiene: «Se non siamo in Italia è per una questione di umiltà e rispetto. Non perché l'Italia non sia una priorità strategica».

Monday, December 24, 2007

Auguri

Auguro a tutti i lettori un sincero Buon Natale. Il blog si ferma fino al 27. Intanto, gustatevi questo Nat King Cole d'annata in "Deck the Hall".

Sunday, December 23, 2007

Alitalia. Anche il centrodestra ha i suoi Pecoraro Scanio

La vera «sconfitta nazionale» di cui parla Bonanni, segretario della Cisl, è non aver ristrutturato Alitalia secondo logiche di mercato, e non averla rilanciata privatizzandola, a suo tempo, quando forse era ancora possibile, come parecchie compagnie di "bandiera" europee, compresa Air France, hanno fatto. Prima di scandalizzarsi delle offerte non certo esaltanti giunte da quelli che in definitiva sono suoi competitori, occorre ricordare a caratteri cubitali che con 400 milioni di euro di perdite l'anno Alitalia è da considerarsi una società fallita (ripeto: fallita). Quanto vale una società che produce 400 milioni di euro di debito l'anno? Non credo molto.

Inutili dunque le pretestuose accuse che si levano da esponenti e giornali di centrodestra: sì, Prodi sta liquidando Alitalia. Qualcuno lo farà comunque, prima o poi, perché altro non si può fare. Sì, Air France-Klm-Alitalia faranno di Malpensa l'uso che a loro più conviene dal punto di vista commerciale. E a noi non risulta che altri paesi europei mantengano due hub delle dimensioni attuali di Malpensa e Fiumicino. E intanto ci manca un vero e proprio hub di dimensioni adeguate alle esigenze e all'importanza del nostro paese.

Ma alle molte voci demagogiche che si sono alzate in queste ore e che continueranno ad alzarsi, il consiglio d'amministrazione della compagnia ha risposto con una decisione responsabile, motivata in un «documento» oggi apprezzato, sul Corriere della Sera, da Francesco Giavazzi: contiene «argomentazioni di buon senso», un «confronto preciso fra le due offerte» e «analisi industriali e finanziarie» fondate sui «pareri tecnici degli advisor della società». Pensiamo davvero che una compagnia solo italiana, seppure privatizzata, possa sostenere la concorrenza di grandi gruppi a livello europeo? E pensiamo che potrebbe farlo sostenendosi quasi unicamente sul flusso di voli da e per l'Italia?

Eppure, dopo un anno di tentennamenti, in cui tutte le questioni sul tavolo sono state analizzate e vivisezionate, il Governo si è preso altre due settimane per decidere. Due settimane che sembrano incoraggiare gli oppositori dell'opzione franco-olandese. Come dire: "Chi vuol esercitare pressioni, lo faccia ora e sarà ascoltato, o mai più".

E quello che Giavazzi ha definito «il partito del Nord» non ha tardato a farsi sentire. Un coro straordinariamente compatto di voci. Ci sono sindacati, banchieri, politici di maggioranza e di opposizione, sindaci, presidenti di regione, il presidente di Confindustria.

Da una parte la difesa della corporazione di steward e piloti; dall'altra, interessi localistici e il mito dell'"italianità". Solo all'interno della squadra di governo, il ministro per i Trasporti, il comunista Bianchi («La partita non è ancora chiusa»), e il ministro della Cultura, Francesco Rutelli («Partita aperta»).

Ma a mostrare il loro vero volto sono le componenti corporative e anti-mercato del centrodestra, che tanta responsabilità hanno se la privatizzazione non si è fatta nella scorsa legislatura e se, oltre ad aver perso negli ultimi anni centinaia di milioni di euro l'anno, ora quella di Alitalia è una svendita.

La Lega Nord, ovviamente: «È in atto un attacco organizzato nei confronti del Nord, colpevole non solo di mantenere tutti ma anche di voler avere un ruolo nelle politiche decisionali del Paese», ha proclamato Calderoli, minacciando persino blocchi autostradali, come No-Tav e Disobbedienti; e An: una scelta che «rischia di penalizzare in modo grave personale e scali aeroportuali», ha avvertito Gasparri.

Ma anche il presidente della Lombardia Formigoni, al quale addirittura quella del CdA Alitalia sembra una «scelta folle, concepibile solo da una compagnia come Air France, che ha interesse strategico a sviluppare i propri hub di Parigi e Amsterdam avendo poi una piccola propaggine al sud, a Roma, e togliendo di mezzo il proprio concorrente più importante, che è Malpensa. Che Air France persegua questo interesse è comprensibile ma che Alitalia si metta in mano al proprio nemico storico autolimitandosi a diventare una compagnia regionale e al massimo che serve metà del paese, il centro sud d'Italia, questo appare inaccettabile». Ma oggi Alitalia è ancor meno della compagnia regionale che Formigoni teme possa diventare.

Anche il centrodestra ha i suoi No-Tav, i suoi veto-player, i suoi Pecoraro Scanio. Ci auguriamo che Berlusconi non voglia più subire il prezzo dell'inazione dovuto alla loro linea e che vada dritto per la strada di un partito a «vocazione maggioritaria».

Friday, December 21, 2007

Veltroni accerchiato, Berlusconi può rompere l'assedio

E' davvero spassosissima la telefonata tra Berlusconi e Saccà che Repubblica.it/L'Espresso ci ha dato modo di ascoltare sui suoi siti ieri. Lo è perché, come ha efficacemente scritto oggi Aldo Grasso sul Corriere, «è un piccolo capolavoro di antropologia culturale», un «dialogo surreale degno di Totò e Peppino», la scena di un film dei fratelli Vanzina. E' uno spaccato rappresentativo, a tutti i livelli, dal gradino più basso a quello più alto, dell'Italia in cui viviamo.

E ciò che più inquieta è che quella telefonata ci induce a immaginare un leader politico come Berlusconi, ex premier, che perde le sue giornate al telefono barcamenandosi tra raccomandazioni e favori. Vogliamo dirla tutta: Berlusconi non esce poi così male da quella telefonata. Meno arrogante di quanto si potesse supporre, più in balìa dei fastidi da comune mortale che abbia una briciola di potere a cui tutti cercano di aggrapparsi. E dal punto di vista politico ed economico "piazzare" due attricette per far cadere un governo che così tanti danni sta infliggendo al paese è un prezzo più che accettabile. Ben altro il giudizio politico su quei senatori che avendolo appoggiato, quel governo, erano disposti a farlo cadere per portarsi a letto due attricette. Ma siamo pur sempre nel politicamente, non nel penalmente rilevante. Tra l'altro, non essendo caduto il governo, è semmai ipotizzabile che alcuni di quei senatori siano stati "comprati" con provvedimenti in Finanziaria.

A volte le intercettazioni, seppure barbare, sono spassose, bisogna riconoscerlo. Gradiremmo solo che per par condicio si potessero ascoltare anche quelle di D'Alema e Fassino su Unipol, o i sottilissimi ragionamenti politici di un Casini, o di un Fini, o i disinteressatissimi contatti di Prodi con il mondo bancario, e chi più ne ha più ne metta. Detto questo, rispetto agli altri paesi la magistratura fa un abuso sconcertante, il più delle volte immotivato se non per motivi di ricatto politico, di intercettazioni: sono milioni e milioni di euro a carico del contribuente e sottratti a indagini e strumenti investigativi di ben più urgente necessità. Esplosa la bolla, le inchieste che dalle intercettazioni partono quasi mai arrivano al processo.

Peccato che chi ha confezionato l'attacco a Berlusconi non abbia fatto i conti con le doti di grande comunicatore del Cav., che ha subito, a mio avviso, girato a proprio vantaggio la situazione senza che i suoi avversari neanche se ne accorgessero. Trasformando il caso da un'ipotesi di corruzione di senatori - archiviata come inesistente dalla stessa procura che aveva aperto l'indagine e che probabilmente ha girato l'mp3 a la Repubblica - a un attacco contro la Rai, si badi bene, su un aspetto largamente condiviso dall'opinione pubblica.

L'establishment politico e giornalistico di sinistra, prigioniero del suo stesso pregiudizio, non se ne accorgeva e rilanciava scandalizzato le "ingiuriose" parole di Berlusconi su tutte le tv e le prime pagine dei giornali: «In Rai sono tutti raccomandati, a partire dal direttore generale. Ci lavora solo chi si prostituisce e chi è di sinistra».

Bene, bravi, bis. Con questa affermazione incontrovertibile Berlusconi ha vinto anche questa mano, posizionandosi in totale sintonia con l'opinione pubblica. E viene da ridere a leggere i nomi dei giornalisti Rai intervenuti sui giornali per difendere il proprio onore. Anzi, verrebbe da piangere. La Rai è tutta in quelle due frasi di Berlusconi. Niente di più, altro che di tutto di più. Lo sanno tutti.

Piuttosto sarebbe miope non inquadrare questa nuova polemica nella strategia lungo l'asse Palazzo Chigi-procure-la Repubblica volta a cannoneggiare e affondare il dialogo tra Veltroni e Berlusconi sulla legge elettorale. Attaccare Berlusconi per alimentare l'antiberlusconismo e rendere più costoso a Veltroni dialogarci, isolare e logorare il leader del Pd, prolungare la vita del Governo Prodi.

Ed è scellerato per chi, come i radicali, ha sempre spinto in direzione di una legge elettorale maggioritaria e bipartitica, non accorgersi che oggi il fronte più avanzato di quella battaglia è rappresentato da Veltroni e Berlusconi, non certo dai Mastella, dai Casini, dai D'Alema che cercano di sabotarli. I radicali potrebbero incalzare i due leader con l'uninominale, ma imbarcandosi con chi rema contro finiscono per remare contro se stessi, e sorge il sospetto che anche a loro interessi unicamente la sopravvivenza del governo.

Il dialogo, appunto. Veltroni è accerchiato: all'interno del suo stesso partito da dalemiani, fassiniani, rutelliani e mariniani, tutti per il modello tedesco; dall'esterno, dai "nanetti", che minacciano di far cadere il governo e quindi mettono Prodi contro Veltroni. «Guardate che io non mi faccio bruciare a fuoco lento», ha reagito giorni fa. Accusato di perseguire l'inciucio, giustamente ha osservato come il sistema tedesco sia «un inciucio che rischia di riportarci indietro ai tempi del pentapartito».

L'unico suo alleato è Berlusconi: condividono la preoccupazione di impedire, con qualsiasi legge elettorale, l'operazione di un partito di "centro" di matrice cattolica, la "cosa bianca", che si ponga come ago della bilancia del sistema politico. Come? Si vedrà, ma questo sembra un punto irrinunciabile per entrambi. E Giuliano Ferrara si sforza di strappare a entrambi anche la promessa che, qualsiasi sia la prossima legge elettorale, Pd e Pdl si presenteranno da soli.

Fino a quando la Corte costituzionale non ammetterà i referendum elettorali, la pistola carica puntata sulla tempia l'hanno Veltroni e Berlusconi, che non possono usare fino in fondo il ricatto referendario.

Ma per rompere l'assedio Berlusconi potrebbe raccogliere l'assist che Veltroni potrebbe avergli voluto lanciare. Il doppio turno di collegio alla francese è «sul tavolo, non l'abbiamo mai ritirato», avrebbe detto il segretario del Pd secondo quanto riportava oggi Goffredo De Marchis su la Repubblica. Fini e D'Alema non potrebbero dire di no, sostenendolo da sempre come prima opzione. E' noto che Berlusconi, però, non ama i collegi uninominali ed è convinto che i moderati non vadano a votare la seconda domenica. Panebianco giorni fa invocava un ulteriore slancio politico di Berlusconi, che potrebbe dirsi «pronto a un accordo sul maggioritario a doppio turno di tipo francese», spiazzando alleati e avversari, mettendo così alla prova sia Fini, sia Veltroni, sia tutti «quelli che (soprattutto dentro il Partito democratico) sono sempre stati pronti, a parole, a immolarsi per quel sistema elettorale».

Eppure, a un escamotage per far accettare a Berlusconi il doppio turno alla francese si potrebbe lavorare.

"Rupture" di Sarkozy anche con l'"ancienne laicité"

Il presidente "ultra-moderno", che si è da poco separato dalla moglie Cécilia e che ha fatto parlare di sé le cronache rosa e politiche per la sua nuova relazione con la modella e cantautrice Carla Bruni; che ha appena proposto il passaggio dal divorzio breve al divorzio lampo, permettendo a moglie e marito, se sono d'accordo, di sbrigarsela in pochi minuti davanti a un notaio, per alleggerire i tribunali da migliaia di pratiche; lo stesso presidente, Nicolas Sarkozy, incontrando ieri a Roma i vertici della Chiesa cattolica ha messo radicalmente in discussione la celebrata laicité tanto cara ai francesi. Per il 2008 dobbiamo aspettarci nuove "rupture", stavolta rispetto alla laicità e ai rapporti tra Stato e Chiesa?

Se Enrico IV si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, Sarkozy sembra intenzionato a guidare la Francia verso una «laicità nuova e matura», «positiva». Quello della laicità «sana», che riconosca il ruolo pubblico della religione e ad essa apra le porte della politica e il cuore (e la borsa) del legislatore, è concetto caro a Papa Benedetto XVI.

Il presidente Sarkozy ha citato «le radici essenzialmente cristiane della Francia», tra le «maggiori fonti della sua civilizzazione», e il «legame indefettibile che dai tempi di Carlo Magno unisce la Francia alla Città Eterna». La laicità «non ha il potere di tagliare la Francia dalle sue radici cristiane», ha detto con forza, raccogliendo l'ovazione della Curia e il plauso del Papa, anche perché la Francia è la nazione che più si oppose al riferimento alle radici cristiane nel preambolo della Costituzione Ue.

Il colloquio con il segretario di Stato Bertone e il discorso pronunciato nella basilica di San Giovanni in Laterano sono stati incentrati sulla legislazione francese in materia religiosa. Il presidente ha esplicitamente messo in discussione la legge del 1905 sulla separazione tra Stato e Chiesa, addirittura offrendo il suo «mea culpa» per le «sofferenze» vissute dai cattolici in Francia «prima e dopo» quella data. «La Repubblica laica ha sottostimato l'importanza dell'aspirazione spirituale», ha ammesso.

Non solo affermazioni generiche, seppure dirompenti, Sarkozy ha indicato nello specifico cosa non va: lo Stato francese tiene ancora sotto tutela le congregazioni religiose, non riconosce carattere di culto alle attività caritative, né il valore dei diplomi rilasciati dagli istituti cattolici. Per farsi un'idea delle implicazioni delle sue parole, basta accostare a questa apertura verso le scuole cattoliche l'accento posto sulla «libertà per i genitori di far dare ai loro figli un'educazione conforme alle loro convinzioni» e «di non essere discriminati dall'amministrazione per la propria fede». Si apre uno spazio per una qualche forma di finanziamento statale agli istituti cattolici.

Non riteniamo che il riferimento alle radici cristiane della Francia, quindi dell'Europa, fosse funzionale a rafforzare il no francese all'ingresso della Turchia nell'Ue. Innanzitutto, perché non era necessario mettere in discussione l'assetto laico della Repubblica per sostenere una posizione che all'Eliseo non nasce certo con Sarkozy. Poi, perché di recente, dalla visita del Papa in Turchia, l'atteggiamento della Chiesa sull'argomento è molto più possibilista.

E' probabile invece che Sarkozy intenda rivoluzionare l'approccio dello Stato verso la religione cattolica. Ma abbandonando il peculiare modello di laicità francese, che tende a negare alla religione qualsiasi valore pubblico, quale altro assetto ha in mente? E perché? Sarkozy utilizzerà la sintonia con il Papa e la Santa Sede come una specie di investitura per una invasività ancora più marcata dello Stato negli affari religiosi, anche cattolici, o dobbiamo aspettarci una curvatura verso logiche concordatarie?

Premesso che l'influenza della Chiesa sulla politica e la legislazione francese difficilmente raggiungerà i deprecabili livelli italiani – per ragioni storiche che vanno dalla maggiore solidità dello Stato francese alla questione romana e al peso infinitamente maggiore, grazie alle sue proprietà e alla sua capillarità, della Chiesa in Italia – riteniamo preferibile il modello americano di separazione. Negli Stati Uniti l'originaria pluralità di culti i cui fedeli fuggivano dalle persecuzioni in Europa ha costretto lo Stato a non favorire alcuno di essi, permettendo una tangibile e vitale libertà religiosa e mantenendo laiche le istituzioni.

In Francia vivono già oggi 5 milioni di musulmani e nei confronti dell'islam Sarkozy ha adottato una politica di forte ingerenza dello Stato. La Fondazione per le opere dell'Islam di Francia, istituita due anni fa dal premier de Villepin e voluta dal presidente Chirac, si occuperà di raccogliere i fondi destinati alla costruzione delle moschee, monitorando i flussi di denaro sia interni che provenienti dall'estero, di formare i rappresentanti di culto e di finanziare corsi di lingua, cultura e diritto francese. Lo scopo dichiarato da Sarkozy è di «far emergere un Islam francese prima che un Islam in Francia». La valorizzazione delle «radici cristiane» potrebbe rappresentare un altro pilastro con il quale Sarkozy intende bilanciare la vitalità dell'islam non sempre immune dal fondamentalismo.

D'Alema e il pragmatismo ritrovato

Unilaterale quando ti conviene

Da quando Massimo D'Alema ha ritrovato la lingua della concretezza l'Italia è tornata ad avere un ministro degli Esteri di qualità. Da quando si è finalmente appannato il velleitarismo con cui la Farnesina era stata trasformata in sponda dei più vari fermenti antiamericani o antisraeliani, da cercare sotto la bandiera di Hezbollah o dell'Iran di Ahmadinejad, la nostra politica estera sembra restituita a un registro di sano pragmatismo». Così Andrea Romano, oggi su La Stampa.

E' la politica estera «più saggia per un Paese come l'Italia che non voglia rinunciare a svolgere la propria parte in quella porzione d'Europa che solo qualche anno fa ha contribuito a stabilizzare, pur tra molte fatiche e ambiguità: evitare di nascondersi dietro il paravento dell'unanimismo Onu, prendersi le proprie responsabilità insieme con i partner, anticipare l'evolversi di una crisi che solo con molta malasorte potrebbe riportarci al Kosovo in guerra di qualche anno fa», prosegue Romano, che conclude suggerendo a D'Alema di «tornare a cimentarsi con quanto gli è sempre riuscito meglio: governare i rapporti di forza reali senza perdere di vista il senso di cos'è giusto e cos'è sbagliato».

Anche noi riconosciamo a D'Alema questo ritrovato «sano pragmatismo», di cui diede prova nel '99 facendo partecipare l'Italia in prima linea nell'intervento Nato contro la Serbia di Milosevic. Proprio perché non partecipiamo alla demonizzazione dell'unilateralismo Usa, neanche oggi critichiamo la posizione del ministro D'Alema sull'indipendenza del Kosovo, che però dovrà pur riconoscere che qualche volta, quando l'Onu è impotente, qualcuno deve pur prendersi le responsabilità cui gli eventi richiamano: anche in modo unilaterale, oggi come nel '99.

Thursday, December 20, 2007

La falsa stabilità putiniana

Siamo d'accordo che "il personaggio dell'anno" di Time non debba per forza avere un connotato positivo, ma che soprattutto venga scelto per la propria capacità di incidere sul corso degli eventi e di influenzare la vita di milioni di persone. Eppure, il settimanale Usa avrebbe potuto presentare molto diversamente da come ha fatto la decisione di proclamare il presidente russo Vladimir Putin "Person of the Year".

André Glucksmann, in un intervento sul Corriere della Sera, critica duramente la scelta e ne contesta in particolare le motivazioni, negando che Putin sia artefice di stabilità nel suo paese e promotore di sicurezza a livello internazionale. Sono questi i due concetti chiave, la cui reale nozione a suo avviso viene travisata, su cui si sviluppa la sua critica.

L'intellettuale francese rammenta la popolazione cecena «massacrata», la libertà dei mezzi d'informazione «ridotta all'osso»; l'uccisione dei «giornalisti più coraggiosi per rimettere in riga gli altri». A fronte di tutto questo e molto altro, «invece i giornalisti del Time si sforzano di definire qual è il "bene" che Putin ha portato al suo popolo e al mondo: una "stabilità" che la Russia non conosceva da un secolo. "Prima l'ordine, poi la libertà". E questo equivale a dire che la scelta di Time Magazine è al tempo stesso ingenua, irrazionale e immorale. In realtà, non esiste stabilità quando le diverse mafie al potere si demoliscono e si eliminano reciprocamente all'ombra del Cremlino... occorre ignorare di proposito i regolamenti di conti, gli omicidi su commissione, le detenzioni, le cure speciali negli ospedali psichiatrici e le deportazioni arbitrarie, per chiamare "stabilità" il clima di intimidazione permanente che organizza la spartizione delle ricchezze tra oligarchi e gallonati dell'Fsb... Che non sia la stabilità dei cimiteri?».

Venuta a conoscenza dell'omicidio di Paul Klebnikov, redattore capo dell'edizione russa della rivista Forbes, ricorda Glucksmann, Anna Politkovskaya scriveva: «È innegabile, la stabilità è tornata in Russia. Una stabilità mostruosa, in cui nessuno invoca giustizia... in cui solo un matto oserebbe ancora pretendere la protezione delle forze dell'ordine incancrenite dalla corruzione. La legge del taglione ha sostituito ormai il diritto, sia negli animi che nelle azioni. Ce ne da l'esempio il presidente stesso». Quella Anna che «non ha potuto apprezzare l'articolo di Time», morta assassinata a sua volta il 7 novembre 2006.

E ancora: «Occorre rinunciare a cuore e cervello e mettere a tacere la propria anima per incoronare Putin come garante della sicurezza mondiale».

Insomma, Glucksmann contesta alla radice i meriti attribuiti da Time a Putin: non c'è "stabilità" in Russia, ma un fragile equilibrio tra bande e oligarchi di una nomenklatura che occupa palazzi del potere, servizi segreti e Gazprom, in un contesto di illegalità, corruzione e violenza.

Né si può sostenere che Putin abbia reso la Russia un attore che promuove "sicurezza" sulla scena internazionale. Ne abbiamo avuta conferma proprio ieri, al Consiglio di Sicurezza dell'Onu sullo status del Kosovo, ma è Paul Berman, intervistato dal Corriere, a puntare il dito su due dei tavoli ai quali la Russia gioca una partita spregiudicata e fonte di instabilità: «Putin mi sembra troppo pronto a collaborare con il regime degli ayatollah in Iran, che mira ad avere l'atomica e reprime l'opposizione. Per ciò che concerne l'Europa, Putin attua una strategia energetica ricattatoria, si serve del gas e del petrolio per condizionarla».

La Russia, è la constatazione di Berman, «non appartiene ancora al mondo delle democrazie». E sembra che «il futuro democratico della grande nazione non sia nelle mani del suo presidente, che ha controllato dall'inizio alla fine la campagna elettorale e il processo politico, ma in quelle dei dissidenti, che vanno aiutati». Preso atto che la condizione della Russia «è mista», occorre da parte dell'Occidente una «risposta mista», ossia di «pressioni e dialogo assieme». Bisogna «tornare ad appoggiare i dissidenti», a «conferire più prestigio ai loro leader». Anche se è «molto triste dover chiamare di nuovo l'opposizione "dissidenza", è un segno che la battaglia per la democrazia rimane aperta».

Non si può certo «far scomparire chi è al potere al Cremlino, ma non dobbiamo nemmeno fingere di avere di fronte dei democratici. Occorre continuare a trattare senza venire meno ai nostri principi: da un lato, cercare accordi dove possibile, dall'altro denunciare le violazioni dei diritti umani».

Nessun isolamento, è dunque la ricetta di Berman, che sarebbe oltretutto velleitario, ma il perseguimento degli interessi comuni con Mosca va «accompagnato dal dialogo con gli uomini d'affari russi, con i leader della società civile, da un impegno complessivo e soprattutto da una vigorosa difesa dei diritti umani».

Vigilare sulla Corte costituzionale

E' attraverso l'escamotage di un diario personale che Francesco Verderami, oggi sul Corriere, fa tornare l'ex giudice della Consulta Romano Vaccarella su quelle voci «mai smentite» di pressioni esercitate dai politici per bocciare i referendum elettorali e sulle sue conseguenti dimissioni dal supremo organo nell'aprile scorso.

«Oggi come allora si torna a parlare di pressioni, oggi come allora i vertici istituzionali tacciono». Ha scritto l'ex giudice in una pagina di "diario":
«Non sono un marziano né faccio il puritano. Lo so che molti nodi politici vengono scaricati sulla Corte, ma c'è una linea di coerenza e dì dignità che va salvaguardata. Invece niente. E il livello di credibilità è precipitato... Lo sanno tutti quali giochi politici si celino dietro i referendum. Per Veltroni e Berlusconi, se si arriva o meno alla consultazione non cambia nulla. Per Prodi sì, è l'unico che ci rimetterebbe.

È vero che il referendum ha valenza politica, ma la Corte deve decidere in punta di diritto. Il rischio è che accettando le pressioni screditi l'istituzione, che ammetta di rispondere al fischio della politica e che lo ammetta in piazza. Sarebbe dichiarare bancarotta... Su una materia delicata come quella elettorale, una Corte che si rispetti, si attacca ai precedenti e si uniforma, per evitare che nel Paese si accrediti un'idea qualunquista e pericolosa, in base alla quale non esistono più organismi di garanzia».
Dai "diari" di Vaccarella emerge anche un altro particolare a dir poco inquietante: 'Italia stava per diventare una Repubblica sotto la tutela di un "Consiglio di Guardiani". «Purtroppo, quando si affrontano questioni che hanno una valenza politica, anche minima, nella Corte gli schieramenti subito si compattano e rispondono a logiche che non hanno stretta pertinenza giuridica. Se penso che fummo a un passo dall'ammettere che il Csm potesse sollevare il conflitto di attribuzioni contro il Parlamento su questioni riguardanti la magistratura... Incredibile: il Csm voleva porsi sullo stesso piano del Parlamento... Per fortuna abbiamo resistito».

Moratoria, successo sopravvalutato

La moratoria Onu sulla pena di morte è stata ignorata dalla stampa estera. Solo trafiletti sui quotidiani Usa. Intanto, negli Stati Uniti diminuiscono le esecuzioni - mai così poche negli ultimi 13; il New Jersey ha abolito la pena di morte dopo una moratoria de facto che dura dal '62; la Corte Suprema sta esaminando la costituzionalità delle iniezioni letali. Segni inequivocabili che i più efficaci strumenti per mettere in discussione la pena di morte sono la democrazia, lo stato di diritto. Dunque, la loro promozione e diffusione.

Dei 51 paesi mantenitori della pena di morte, 40 sono dittatoriali, autoritari o illiberali. In questi paesi, nel 2006, sono state compiute almeno 5.564 esecuzioni, pari al 98,8% del totale mondiale. Un paese solo, la Cina, ne ha effettuate almeno 5.000, circa l'89% del totale mondiale; l'Iran ne ha effettuate almeno 215. Negli Usa un film è senz'altro più efficace che una pronuncia della screditatissima Onu.

L'impegno per la moratoria non solleva il Governo Prodi dalla responsabilità di una politica estera poco attenta ai diritti umani, tanto più che è discutibile che tra questi rientri anche l'abolizione della pena di morte.

Stefano Vaccara, su America Oggi, racconta di aver stuzzicato il ministro D'Alema sull'incoerenza del governo. Ieri, durante la conferenza stampa, gli ha chiesto «perché proprio nei giorni in cui l'Italia con coraggio combatteva per far rientrare la pena di morte come una questione di diritti umani in seno all'Onu, il suo governo si rifiutava di incontrare il Dalai Lama in visita in Italia. La "Ragione di Stato", come ha alla fine confessato in tv Prodi, è dove si ferma la coerenza del suo governo a favore del diritto e della dignità umana che, in questo caso, dovrebbe valere anche per il popolo tibetano oppresso dalla Cina?»

«Al governo non è giunta una richiesta ufficiale...» di un incontro, ha risposto stizzito il ministro, che però si è trovato a condividere con Vaccara l'ascensore della Rappresentanza italiana all'Onu:
«... ritrovandomi di fronte il ministro, osservo che i tempi della visita del Dalai Lama sono stati "sfortunati"... "Mi spieghi perché?" mi chiede D'Alema con fare sarcastico. Lo aveva appena spiegato lui in conferenza stampa, dicendo che alcuni paesi potenti che avevano votato contro la moratoria sulla pena di morte non si erano comunque impegnati nell'ostruzionismo: "Ministro, ma se Prodi avesse incontrato il Dalai Lama chissà cosa la Cina avrebbe potuto combinare oggi all'Onu..." D'Alema ascolta. Noi lo provochiamo ancora: Bush ha visto il Dalai Lama. "Sì ma non alla Casa Bianca.." dice un funzionario. E allora? Prodi poteva incontrarlo a Piazza Navona! D'Alema ci guarda, accenna qualcosa ma poi dice. "Neanche il Papa lo ha incontrato, lei lo sa perché?" Certo, per la stessa paura vostra, quella di ritorsioni ai cattolici cinesi. Insistiamo: ministro l'Italia rischia tanto, però la cancelliera tedesca Merkel l'ha ricevuto il Dalai Lama e la Germania ha tanti interessi in Cina, significa forse che l'Italia non ha la stessa forza della Germania per non farsi imporrre chi può incontrare il suo capo del governo, è così? Le porte dell'ascensore si aprono. Una liberazione per il ministro dalle domande del cronista».
Una «giornata storica», per l'Italia all'Onu. «Eppure, al di là di ogni ipocrisia, dopo quelle dichiarazioni sulle "ragioni di stato", il governo italiano ha ancora molta strada da compiere prima di potersi ergere ad esempio per gli altri nella difesa dei diritti umani nel mondo», conclude Vaccara.

Wednesday, December 19, 2007

Kosovo indipendente. La Serbia ha infranto il contratto

Il Consiglio di Sicurezza dell'Onu è ancora riunito, presieduto dal ministro degli Esteri D'Alema, ma quasi certamente sancirà l'impossibilità di un accordo tra serbi e kosovari nella definizione dello status del Kosovo e l'inconciliabilità della posizione russa e cinese con quella degli altri tre membri permanenti (Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia).

Tra la Russia, che sostiene la Serbia ponendo il veto sull'indipendenza e chiedendo il proseguimento dei negoziati diretti, terminati senza esito il 10 dicembre scorso, e gli Stati Uniti, che spingono per l'indipendenza unilaterale, è stretta l'Unione europea, consapevole dell'inevitabilità dell'indipendenza ma preoccupata per i possibili effetti destabilizzanti sulla regione.

L'obiettivo dell'Ue, ha spiegato il ministro D'Alema lunedì scorso alla Commissione Esteri della Camera, è l'avvio di un «processo governato», sotto la responsabilità europea, verso l'indipendenza del Kosovo, nella consapevolezza che sia venuta meno la possibilità di governarlo da parte dell'Onu e che i negoziati diretti non hanno dato risultati, se non l'impegno solenne delle parti ad astenersi dall'uso della forza. In questi mesi sono sì emerse proposte che «potranno tornare utili» – «un insieme di patti e vincoli, compresi organismi comuni, che configurano un patto federativo» – ma sul nodo di principio dell'indipendenza le posizioni rimangono inconciliabili.

Lo status quo di un protettorato Onu permanente non è un'opzione: il Kosovo ha comunque bisogno di una dimensione statuale e di una classe politica responsabilizzata. Né è realistico il ritorno dei kosovari sotto la sovranità serba. D'Alema ha sottolineato come la prospettiva attuale dell'indipendenza derivi direttamente da una vicenda storica la cui responsabilità non può essere imputata ad altri che allo Stato serbo, anche se non all'attuale classe dirigente.

Si va quindi a passo spedito verso l'indipendenza del Kosovo che, per quanto concordata e coordinata «nei tempi e nei modi» con l'Unione europea, avrà la caratteristica dell'unilateralità. Un processo da tenere il più possibile sotto controllo, perché i rischi di destabilizzazione sono molteplici e vanno dal separatismo serbo in Bosnia a quello degli albanesi in Macedonia, e persino degli ungheresi in Serbia. Per non parlare della minaccia implicita di Putin di alimentare il separatismo in Ossezia e Abkazia, regioni contese nella Georgia governata dal presidente filo-occidentale Saakashvili.

Appurata l'ennesima situazione di stallo all'Onu, la primaria responsabilità dell'Ue in questo processo sarà di supervisione e controllo, soprattutto per garantire il rispetto dei diritti della minoranza serba in Kosovo. Si tratta, ha spiegato D'Alema, di un «test primario», un «vero banco di prova» per la politica estera dell'Ue. D'altra parte, la lunga «guerra civile balcanica», ha osservato, «troverà una sua definitiva dimensione di pace solo nella prospettiva dell'integrazione» dei Balcani nell'Ue, «condizione essenziale per costruire stabilità» e «largamente condivisa da governi e opinioni pubbliche di quei paesi».

Il Consiglio europeo ha deciso di dispiegare in Kosovo, dove già operano 16 mila soldati Nato, una missione civile di 2 mila funzionari, ma il presidente serbo Kostunica ha già detto che la missione è «impossibile senza il mandato delle Nazioni Unite».

Non mancano, anche nel Parlamento italiano, gli scettici e i contrari all'indipendenza unilaterale del Kosovo: Lega Nord, Rifondazione comunista, Pdci e Verdi su tutti. E' ipotizzabile «solo nel momento in cui la Serbia, il Kosovo e altri entreranno nell'Ue», secondo il leghista Giancarlo Giorgetti. Mentre Forza Italia e An sembrano più preoccupati di pizzicare D'Alema sull'unilateralismo: «Non crede il ministro che Usa e Ue adotterebbero lo stesso unilateralismo rimproverato in Iraq qualora riconoscessero l'indipendenza senza l'Onu?», fa notare Dario Rivolta.

Il principale argomento dei serbi, dei russi, e di tutti coloro che sono contrari all'indipendenza unilaterale del Kosovo è il rispetto della legalità internazionale, del suo principio base dell'inviolabilità dei confini e della sovranità statuale, in questo caso della Serbia. Ma a questo unico principio ogni altro dev'essere sacrificato? Non fa parte della legalità internazionale anche il rispetto da parte degli Stati dei diritti umani delle popolazioni su cui esercitano il loro potere? Non esiste in questo senso un contratto tra governanti e governati? Certo, molti sono i paesi in cui questi diritti, per svariati motivi, non sono garantiti, ma l'attuale prospettiva di indipendenza del Kosovo è stata spalancata dall'ultimo atto di pulizia etnica scatenato da Milosevic nel '99. Quel giorno, e il giorno in cui la Nato ha deciso di intervenire in difesa della popolazione albanese, ricordando gli errori compiuti in Bosnia, la Serbia ha stracciato quel contratto e perso la propria sovranità sul Kosovo. Se la popolazione albanese fosse stata soggiogata o cacciata, Belgrado avrebbe mantenuto con la forza quella sovranità, pur perdendone la legittimità. Ma se quella popolazione si fosse salvata, come poi è avvenuto, con l'intervento della Nato, era chiaro che non sarebbe più potuta tornare sotto l'autorità serba.

Non partecipando alla demonizzazione dell'unilateralismo Usa, non critichiamo oggi la posizione del ministro D'Alema, che però dovrà pur riconoscere che qualche volta, quando l'Onu è impotente, qualcuno deve pur prendersi le responsabilità cui gli eventi richiamano.

Tuesday, December 18, 2007

Il più bel dono di Natale (e un po' di carbone)

Una notizia buona e una cattiva per i radicali. La buona è che finalmente è stata approvata dall'Assemblea generale dell'Onu la moratoria sulla pena di morte. Una vittoria dell'Italia, che l'ha promossa prima in sede Ue e che poi è stata affiancata da grandi nazioni di tutti i continenti, il cui merito va però ai radicali. Senza la spinta decisiva di Pannella, Bonino e compagni, durata ben 14 anni, sia nei momenti più difficili che in quelli più promettenti, nessun governo avrebbe avuto la forza di volontà necessaria per raggiungere questo obiettivo, che - ricordiamolo - è simbolico. Perché da domani gli Stati in cui vige la pena di morte non saranno obbligati a rendere esecutiva la moratoria, che rimane un auspicio dell'Assemblea generale.

Dispiace, purtroppo, che in pochi vogliano riconoscere i meriti dei radicali. Tra questi non c'è sicuramente D'Alema, cui la parola "radicali" non riesce proprio a sfuggire di bocca. «Gratitudine alla società civile», dichiara genericamente il ministro degli Esteri, citando «organizzazioni non-governative come Nessuno Tocchi Caino e Amnesty International, ma senza neanche nominare quello che è un partito politico, il Partito Radicale, né Marco Pannella, che ci ha rimesso la salute, né la Bonino, che è sua collega.

Il presidente del Consiglio Prodi ringrazia «i ministri D'Alema e Bonino per il loro totale impegno, gli altri membri del governo, le istituzioni, le associazioni e i singoli cittadini che con noi si sono mobilitati per raggiungere questo risultato». Anche qui perché non fare riferimento al contributo decisivo di uno in particolare dei partiti che fanno parte della coalizione di governo. Il presidente della Repubblica Napolitano ringrazia Parlamento, Governo, Ministro degli Affari Esteri, Rappresentanza d'Italia presso le Nazioni Unite, società civile italiana. Nessun nome.

Fanno eccezione finora il presidente del Senato Franco Marini, che ha evidenziato il ruolo «in particolare» dei Radicali e di Marco Pannella, e del ministro Rutelli, che ha sottolineato «il successo sia del Governo che dell'opposizione, perché eravamo uniti. Ma anche dei radicali e del mondo delle associazioni, dalla Comunità di Sant'Egidio ad Amnesty International».

Un successo comunque subito divenuto nazional-popolare, acclamato da tutto l'arco costituzionale. E il titolo di questo post riprende una delle tante dichiarazioni - non diremo di chi - per dare il senso del genere di retorica che unisce il nostro Paese in questi momenti.

Ma il Natale non porta con sé solo doni, arriva pure un po' di carbone. E' la cattiva notizia: proprio oggi, infatti, è ufficiale che il gruppo della Rosa nel Pugno alla Camera ha finalmente cambiato denominazione, a seguito della semplice «constatazione» del fallimento dell'«esperimento politico» Rosa nel Pugno. I 21 deputati che ne fanno parte hanno all'unanimità scelto di chiamarsi "Socialisti e Radicali-Rnp".

E' prevalsa la ragione identitaria sui due aggettivi, "laici e liberali", che d'altra parte hanno fatto parte della politica della Rosa nel Pugno forse solo in un primissimo momento. Ma in questo anno e mezzo alla Camera, e soprattutto al governo, non si può certo dire che quei deputati e il ministro radicale abbiano espresso una politica liberale - semmai flebilmente riformista - né laica. Certo, hanno sposato la nuova agenda dei diritti civili, ma senza dare prova di laicità nel metodo, rispetto agli altri temi, ai rapporti con il governo e persino al loro interno.

Dalai Lama. Qualcuno ha da imparare da Bertinotti

La Bonino sembra scoprire oggi che Prodi e D'Alema non avrebbero incontrato il Dalai Lama. Le sue, comunque flebili, osservazioni, poteva esprimerle giorni fa, ma non lo ha fatto e quindi non valgono. Oggi suonano come parole di circostanza e il Dalai Lama è già lontano.

Si è fatto sentire, piuttosto, l'ambasciatore cinese in Italia, Dong Jinyi, che ha rimproverato al Palramento italiano la decisone di accogliere e far parlare nella Sala della Lupa il leader tibetano e si è raccomandato per il futuro perché «non offra facilitazioni né luogo al Dalai Lama, che fa una forte attività separatista».

Mentre il ministro degli Esteri D'Alema ha rivendicato, anche in sede di commissione parlamentare, il fatto che il Dalai Lama non sia stato ricevuto dal Governo (affermando impudentemente che nessuno incontro è stato chiesto, ma ci risulta diversamente), dobbiamo dire che Bertinotti non si è fatto prendere alla sprovvista e ha difeso la dignità del Parlamento con una replica diplomatica ma non remissiva.

Il presidente della Camera ha «ribadito all'ambasciatore cinese il significato e il valore dell'iniziativa della Camera dei deputati che ha ospitato il Dalai Lama, offrendogli la possibilità di esprimersi in un luogo così rilevante sia dal punto di vista istituzionale che politico» e sottolineato anche che «l'incontro è stato realizzato per la rilevanza internazionale del Dalai Lama, premio Nobel per la pace, e per dare voce all'istanza di autonomia culturale e religiosa del popolo tibetano. Istanza che il Dalai Lama ha rappresentato riconoscendo contemporaneamente l'integrità geografica della Repubblica popolare cinese». «Istanza di autonomia culturale e religiosa»... E politica, avremmo aggiunto noi, ma Bertinotti ha dimostrato di essersi lasciato alle spalle ogni tipo di sudditanza "ideologica" nei confronti di quella che un tempo era un continente comunista e oggi è "solo" una dittatura.

Monday, December 17, 2007

Le tre paure e la rassegnazione

Anche Luca Ricolfi ritiene abbastanza "verista" il quadro dipinto dal New York Times della nostra infelicità, del malessere e della sfiducia nelle istituzioni.

Basta guardare agli ultimi giorni: scioperi selvaggi e agitazioni attuati o minacciati; le disastrose Finanziarie del 2007 e del 2008, che hanno frenato la crescita e peggiorato i conti pubblici; i due schiaffoni al ministro Padoa-Schioppa, punito per le sue "epurazioni" (caso Petroni e caso Speciale). Tutto questo sotto lo sguardo assente e trasognato della "casta" politica.

A fronte di tutto questo e molto altro, «non c'è speranza né rabbia, non c'è voglia di cambiare né impegno. Solo una grande rassegnazione, e un cocktail pericoloso di scetticismo e di paura», osserva Ricolfi. Innanzitutto, «generica paura del futuro», per l'incertezza normativa e politica, per l'evidenza che «da anni non siamo governati». Paura «per la situazione economica delle famiglie»: finalmente qualcuno si accorge che «la realtà, molto probabilmente, è che le statistiche non sono state in grado di registrare lo "scalino" dell'euro (fra il 2002 e il 2003), e ora sottovalutano le difficoltà delle famiglie a far quadrare i bilanci... appesantiti dall'aumento del costo del denaro e dalla stangata fiscale della prima finanziaria del governo Prodi». Infine, «la paura della criminalità e dell'immigrazione».

«Ci vorranno anni - conclude Ricolfi - per liberarci da questa classe dirigente, anni per tornare a recuperare il potere di acquisto perduto, anni per tornare a vivere in città più sicure. Molti italiani ormai l'hanno capito, altri se ne stanno rendendo conto dopo le illusioni e le ubriacature dell'ultimo decennio. Forse è anche questo che ci rende un po' tristi, come ci dipinge il New York Times».

Le presunte gite di Speciale aggravanti per Padoa-Schioppa e il Governo

Se il filmato, diffuso da la Repubblica, che sembrerebbe ritrarre il generale Speciale in gita domenicale al Passo Rolle con moglie e amici al seguito utilizzando i mezzi della Guardia di Finanza - un elicottero e un aereo da trasporto Atr 42 - dovesse essere rappresentativo dell'uso che il comandante ha fatto delle risorse pubbliche, sarà un Tribunale militare a stabilirlo.

Ci sembra evidente che Bonini e la Repubblica cerchino in qualche modo di dimostrare che l'allontanamento del generale Speciale dal comando fosse giustificato dal suo discutibile operato. Per la scarsa considerazione che abbiamo per gli apparati dello Stato nella gestione delle risorse pubbliche, ai massimi livelli di sprechi e privilegi, non ci stupiremmo, anzi, avremmo solo delle conferme, se venisse accertata una condotta davvero biasimevole da parte di Speciale. Non sarebbe il primo e non sarà, purtroppo, nemmeno l'ultimo, ad approfittare con disinvoltura e arroganza disarmanti dei potenti mezzi a disposizione per uso personale. E sui troppi "occhi chiusi" dai finanzieri, o dai vigili urbani, le voci sono molte e non del tutto infondate.

Tuttavia, queste circostanze non alleggeriscono, semmai aggravano, la posizione del Governo e del ministro Padoa-Schioppa. Ne sanciscono definitivamente l'incapacità. Per loro, infatti, parla l'atto di revoca di Speciale su cui si è espressa la Corte dei Conti: non solo non era motivata, e prefigura un «eccesso di potere», ma pensavano persino di promuoverlo alla Corte dei Conti. Insomma, agli atti non risulta che la decisione di rimuoverlo fosse minimamente dovuta ai disdicevoli comportamenti che oggi sembrano venire alla luce.

Dunque, se quella condotta era nota al ministro, non averne fatto riferimento esplicito come giustificazione della revoca delinea una comprensione ai limiti di un comportamento omertoso. Se invece non ne era a conoscenza, allora sarebbe dimostrata la sua incapacità nel gestire la macchina amministrativa.

Un'aggravante, dicevamo, perché con la loro epurazione politica il Governo e Padoa-Schioppa hanno creato le condizioni tali per cui, se davvero il generale Speciale si fosse macchiato della condotta che gli viene attribuita, un cattivo funzionario pubblico se ne potrebbe tranquillamente andare a spasso con la patente del martire politico, in barba ai contribuenti che gli avrebbero pagato le gite domenicali.

Un'incapacità simile a quella dei magistrati che perseguono un imputato senza avere prove sufficienti per ottenerne la condanna. Nel caso in cui quello stesso imputato fosse davvero colpevole, il danno sarebbe doppio: non solo si perde il processo, ma si regala a quell'imputato l'aureola del martire.

Post-Vassallum. Ancora due vie d'uscita

Com'era prevedibile Salvatore Vassallo è di nuovo intervenuto sul Corriere per replicare alle superficiali e pretestuose obiezioni di Sartori alla sua proposta di riforma elettorale, detta Vassallum. Da Sartori si aspettava «maggiore coerenza logica e attenzione ai dettagli».

Proprio Sartori, in uno dei suoi lavori, ricorda Vassallo, spiega che «nella sua forma pura il proporzionale generalmente fallisce...», che «il sistema proporzionale è meglio quando viene corretto» e che il modello tedesco, misto per i criteri di voto, è «perfettamente proporzionale» nell'esito. Quindi, se in origine i partiti sono di più, di più tendono a rimanere.

Il Vassallum invece, rivendica il suo ideatore, «corregge la pura proporzionalità del tedesco con due elementi che lo rendono più semplice per gli elettori e gli conferiscono la necessaria torsione maggioritaria: il voto unico, l'assegnazione dei seggi in circoscrizioni medio-piccole». Sartori, dal suo canto, sostiene che il voto doppio è meglio del voto unico, ma non spiega perché, gli rimprovera Vassallo. E' evidente che il doppio voto riaprirebbe le porte a tutti i «giochetti» e le desistenze del Mattarellum.

Ma Vassallo spiega anche che sarebbe «molto, molto più complicato ridisegnare i collegi uninominali» previsti dal modello tedesco e che tecnicamente è «del tutto fittizia l'alternativa tra assegnazione dei seggi nelle circoscrizioni e in un collegio unico nazionale, perché l'effetto è pressoché identico, cioè puramente proporzionale».

Vassallo osserva poi che Fini e Rifondazione, al solo scopo di non dare vantaggi a Berlusconi e Veltroni, rischiano di appoggiare un sistema che nel lungo termine «li penalizzerebbe molto più del nuovo bipolarismo veltroniano», e infine denuncia anche lui le «pressioni politiche indebite» che il "partito tedesco" starebbe esercitando sulla Corte costituzionale in vista della decisione di ammissiblità del referendum Guzzetta.

E' chiaro infatti che finché non si pronuncerà la Corte, ammettendo i quesiti referendari, la pistola carica puntata sulla tempia sembrano averla Veltroni e Berlusconi, che non potranno usare fino in fondo il ricatto referendario e che invece subiscono l'assedio dei proporzionalisti del "partito tedesco".

Sempre sul Corriere, Angelo Panebianco si dice pessimista fino a ritenere «inesistenti» le «probabilità di successo del dialogo tra Veltroni e Berlusconi». Basta guardare al «formidabile fuoco di sbarramento» in atto nei due schieramenti. Non solo, ci pare, gli alleati temono «un eccessivo rafforzamento dei due leader», non solo sembrano animati da quel pregiudizio italiano nei confronti delle «leadership forti», che «a differenza di quanto accade nelle democrazie ben funzionanti, continuano a essere considerate da tanti l'anticamera della dittatura». Ci pare che siano mossi da ben più egoistici propositi.

Eppure, Panebianco individua «due possibilità residue». Il referendum, dicendosi fiducioso del fatto che le pressioni sulla Corte di cui si parla non sortiranno effetti («Sarebbe un duro colpo per la credibilità della Corte se essa togliesse, alla crisi in atto del sistema politico, anche l'ultimo possibile sbocco positivo»); e un ulteriore slancio politico di Berlusconi, che potrebbe dirsi «pronto a un accordo sul maggioritario a doppio turno di tipo francese», spiazzando alleati e avversari, mettendo così alla prova sia Fini, sia Veltroni, sia tutti «quelli che (soprattutto dentro il Partito democratico) sono sempre stati pronti, a parole, a immolarsi per quel sistema elettorale».

Come hanno «saggiamente» suggerito Bardi, Ignazi e Massari, sul Sole 24 Ore, «quel sistema avvantaggerebbe i grandi partiti senza danneggiare necessariamente i partiti medi».

Sunday, December 16, 2007

Mr. Spocchia. E gli schiaffoni sono due

Ma lui resta col suo muso arrogante inchiodato al suo posto. L'impermeabilità della nostra classe politica a qualsiasi ammissione delle proprie responsabilità è uno degli elementi che rendono gli italiani «depressi e arrabbiati», come ha scritto l'altro giorno il New York Times.

Quelli compiuti dal Ministero del Tesoro, di cui Padoa-Schioppa è il titolare, responsabile politico e amministrativo, allontanando prima il consigliere Rai Petroni, poi il generale della Guardia di Finanza Speciale, non sono errori politici, che pure rientrano in una complessa attività di governo. Sono atti illegali, abusi di potere dichiarati tali dai Tribunali competenti. E in qualsiasi paese democratico le dimissioni sarebbero l'unica via, invocata dalla stampa, indicata dalla politica per salvaguardare la propria credibilità, e praticata dal ministro non "coinvolto", ma responsabile.

Di quanti atti illegali il ministro Padoa-Schioppa dovrà ancora macchiarsi, approfittando del suo ufficio per avvantaggiare la parte politica oggi al governo, perché qualcuno abbia un sussulto di dignità?

E' vero che ombre piuttosto consistenti si addensano sull'operato del generale Speciale, che per la Procura militare di Roma, secondo quanto riportava tempo fa Carlo Bonini, sarebbe responsabile del più tipico dei peculati - e dei più diffusi, temiamo, nella Guardia di Finanzia - ma è anche sotto gli occhi di tutti come la sua rimozione non fosse affatto dovuta a questi presunti illeciti, ma all'aver in qualche modo intralciato il viceministro Visco nei suoi tentativi di proteggere Unipol dalle indagini della Finanza.

Sartori sputa-sentenze

Questo «non va bene», quello «non va bene», quell'altro «va malissimo». Se ci fate caso Sartori, oggi sul Correre, col suo modo sprezzante nei confronti dei colleghi Vassallo e Ceccanti, sentenzia sul Vassallum e sulla bozza bianco, colpevoli (se questa può essere considerata una colpa) di «favorire troppo i due partiti maggiori». Ma a ben vedere Sartori è privo di argomenti. «Senza addentrarmi in una analisi tecnica», è la sua premessa a una serie di sentenze.

Il suo unico argomento sembra essere quello che non ci sia nulla da temere da un sistema elettorale che favorisca l'operazione di una "cosa bianca". Dice che non è detto che si trovi nella posizione di esercitare un ruolo da «ago della bilancia», implicitamente confermando che la possibilità è concreta. Tant'è che alla fine Sartori riconosce anche nel carattere preminentemente cattolico di questo "centro", e nella presenza del Vaticano, «una complicazione vera». Il partito di centro, osserva, «è soprattutto l'elemento moderatore o riequilibrante del sistema». Noi invece crediamo che «l'elemento moderatore o riequilibrante del sistema» debba ricercarsi in due grandi partiti che per vincere si contendano il centro moderato e pragmatico dell'elettorato. Un partito di centro sarebbe invece l'elemento della palude.

Ecco: che Sartori la pensi come D'Alema e Rutelli ci può anche stare, è ultra-legittimo, ma noi a questo punto ci chiediamo a cosa serva un politologo, un esperto di sistemi elettorali comparati, se poi la sua è un'opzione puramente "politica" e non un parere tecnico.

Friday, December 14, 2007

Per le fumose stanze della Corte costituzionale

Sono due gli aspetti della bozza Bianco per la legge elettorale in grado di determinare o meno i desiderati effetti maggioritari e bipartitici: il voto singolo e la cosiddetta "correzione ispanica", cioè circoscrizioni di piccole dimensioni riguardo i seggi da assegnare. Il primo aspetto la bozza lo lascia alla discrezione dei lavori in commissione; del secondo aspetto, l'ampiezza delle circoscrizioni, a quanto mi risulta non si è ancora parlato, ma è un fattore davvero determinante.

Più il sistema diventa simile a quello tedesco, più ci sarebbe spazio per una forza centrista, per quella "cosa bianca" che sarebbe esiziale per l'alternanza; più si avvicina, invece, a quello spagnolo, più sarebbe favorito un assetto bipartitico che vedrebbe largamente maggioritari Pd e Pdl, e satelliti gli alleati.

Negli ultimi giorni ha cominciato a spirare una brutta aria. Contro l'accordo Veltroni-Berlusconi sono stati lanciati siluri mediatico-giudiziari lungo l'asse Palazzo-Chigi-procure-la Repubblica. I piccoli partiti hanno minacciato di non votare la Finanziaria e Mastella esplicitamente di far cadere Prodi, il quale, ovviamente, già si muove a tutela dei "nanetti" per motivi di autoconservazione. Oltre a Udc e Lega, anche An pare ormai convinta dell'ineluttabilità del sistema tedesco, soprattutto se la Consulta non dovesse ammettere il referendum.

Qualcuno dà già per spacciato il Vassallum. «Il CaW sotto attacco delle armate rosse e prodiane inizia a parlare tedesco», titolava oggi Il Foglio. All'interno del Pd mariniani, dalemiani, rutelliani e fassiniani sono tutti fautori del "tedesco puro", perché guardano alla possibilità di un'alleanza tra il Pd e una "cosa bianca", magari montezemoliana, l'unica che potrebbe riportarli al governo dopo il disastro prodiano, anche nel caso in cui il partito di Berlusconi ottenesse la maggioranza relativa. Lasciarsi convincere del modello tedesco sarebbe un azzardo per Berlusconi.

L'arma che finora Berlusconi e Veltroni hanno tentato di utilizzare per convincere i riottosi è quella del referendum. La legge che ne uscirebbe, infatti, produrrebbe in modo ancor più brutale gli esiti del Vassallum.

Ma oggi un retroscena di Federico Geremicca, su La Stampa, gettava pesanti ombre sulla Corte costituzionale, che sarebbe pronta ancora una volta a giocare il ruolo di conservazione da «suprema cupola della mafiosità partitocratica», per usare un'espressione di Pannella, al quale però, a quanto pare, non interessa poi tanto la sorte di questo referendum e del diritto dei cittadini a esprimersi.

Dubbi, cavilli, ma soprattutto «pressioni» per evitare il voto. La novità degli ultimi giorni, scrive Geremicca, è che «il responso rischia di essere assai meno scontato di quel che sembrava alcune settimane fa. Nei corridoi della Corte tira infatti un'arietta che, al momento, non lascia ipotizzare né un percorso tutto in discesa, né una facile unanimità».

Quel solito criterio di «immediata applicabilità della norma» così come uscirebbe dal referendum, che la Corte si è di sana pianta inventata per aumentare la propria discrezionalità nei giudizi di ammissibilità, lascia di fatto alla Corte lo spazio per una decisione politicissima: sono in gioco la sorte del Governo, della legislatura, la sopravvivenza dei piccoli partiti, l'assetto dell'intero sistema politico.

«Di scontato c'è poco o nulla», conclude Geremicca. Di certo c'è solo il «diluvio di pressioni».

Per Prodi, referendum o legge elettorale veltroniana, poco cambia: l'orizzonte è la caduta. Ma se per caso la Consulta bloccasse almeno uno dei quesiti referendari, quello che assegna il premio di maggioranza, allora al tavolo di discussione sulla legge elettorale Veltroni e Berlusconi si troverebbero con la pistola scarica. E a quel punto, se una nuova legge elettorale dovesse essere approvata, di certo i piccoli partiti riuscirebbero a strapparne una conveniente e il governo sarebbe salvo.

Il vertice di maggioranza sulla legge elettorale è guarda caso fissato al 10 gennaio, presumibilmente circa cinque giorni prima della decisione della Corte. Cosicché fino a quella data la pistola carica puntata sulla tempia sembrano averla Veltroni e Berlusconi, che non potranno usare fino in fondo il ricatto referendario. A quel vertice rischia di essere deciso il responso della Corte, o per lo meno qualcuno capirà quante e quali pressioni esercitare.

Facce di bronzo

Con la sua consueta faccia di bronzo, il ministro degli Esteri D'Alema, non prima di aver chiarito a beneficio di orecchie molto, molto distanti, che non c'è stato alcun incontro con il Dalai Lama a livello governativo, ha voluto anche rivendicare che «il governo non è disposto a cedere a nessuna pressione nel suo sostegno per l'affermazione dei diritti umani in Cina». Così D'Alema, lo stesso giorno in cui appariva a tutti eclatante il buon esito delle pressioni di Pechino, evidentemente ritenendo gli italiani incapaci di intendere e vedere.

Lo stesso Tenzin Gyatso, da Ciampino, spiegava rammaricato che «non ci sono stati attacchi ufficiali, ma ci sono stati attacchi ufficiosi che hanno condizionato la disponibilità all'incontro e al dialogo da parte di alcune autorità pubbliche e di alcuni esponenti ecclesiastici».

I presidente della Camere, Bertinotti e Marini, si sono ben comportati e il Dalai Lama ha parlato in una delle sale più importanti e simboliche del nostro Parlamento. In "transatlantico" si è fermato ad «abbracciare affettuosamente Marco Pannella».

Una delegazione radicale (Pannella, Perduca, Cappato, Mellano, Della Vedova) ha incontrato nel pomeriggio di oggi il Dalai Lama per illustrargli l'iniziativa del "Satyagraha mondiale per la Pace", che nel 2008, soprattutto in coincidenza con le Olimpiadi cinesi, dovrebbe prendere vita e forma. I radicali vorrebbero alla testa della loro iniziativa gandhiana proprio il Dalai Lama, che però ha fatto notare come il governatore britannico fosse ben diverso dal governo cinese. Certo, la questione della democrazia in Cina è la chiave anche per altre situazioni come il Tibet, il Darfur, la Corea, la Birmania. Si rivedranno tra Natale e Capodanno a Dharamsala, in India, Pannella e il Dalai Lama, e comunque speriamo che riescano ad organizzare un'iniziativa credibile e concreta.

Che vi potessero essere dubbi sul fatto che Emma Bonino incontrasse il Dalai Lama è già emblematico della scaduta credibilità dei radicali al governo. L'incontro c'è stato, al Campidoglio, giusto il tempo per un "come stai?". «Tempi difficili?», ha chiesto la Bonino retoricamente. «Sì, tempi difficili, ma mai mollare, mai rinunciare», ha risposto il leader tibetano. Un "incontro" che la Bonino ha accettato che la Farnesina prima, D'Alema poi, declassassero a meramente personale, senza alcun valore politico e governativo.

Ma non osavamo nemmeno pensare che la Bonino non incontrasse, sia pure per pochi minuti, il Dalai Lama. Resta il fatto, ed è questo che conta, che nel '94 i radicali convinsero Berlusconi a incontrare il Dalai Lama. Nel 2003 protestarono rumorosamente perché non vi fu il bis. Il guaio, oggi, non è tanto non esserci riusciti con Prodi, quanto il non aver nemmeno tentato.