Quanto avevamo paventato giorni fa si sta verificando. Mentre diminuiscono le chance di Tony Blair di diventare presidente del Consiglio europeo (come previsto ha contro proprio i socialisti, cosa che dovrebbe far riflettere, e pure alcuni governi popolari), ecco che diventa sempre più probabile vedere un socialista nella veste di Mr. Pesc, il ministro degli Esteri europeo. Ed ecco che Massimo D'Alema è nella lista. La sua non è tra le candidature più forti, ma nella lista compilata dai leader progressisti europei incaricati (Zapatero, Faymann, Rasmussen e Schulz) c'è. E per di più pare che il governo italiano sia disponibile a sostenerlo, almeno stando alle dichiarazioni - per la verità piuttosto confuse - del ministro Frattini: «Valuteremo tutti i nomi, dal primo all'ultimo, senza far questioni di maggioranza e opposizione».
Da quanto si comprende anche dal comunicato di Palazzo Chigi («il governo valuterà con serietà e responsabilità le candidature capaci di assicurare all'Italia un incarico di così alto prestigio»), se D'Alema avesse davvero una possibilità concreta di farcela, il governo dell'odiato Berlusconi lo sosterrebbe come proprio rappresentante in Commissione al posto di Tajani, il candidato ufficiale, con una scelta a mio avviso sciagurata (non per l'assenza di Tajani, ma per la scelta di D'Alema agli Esteri), anche perché pregiudicherebbe del tutto la possibilità di portare Tremonti all'Eurogruppo o Draghi alla Bce. Pur ritenendo di non avere molte possibilità, D'Alema si è detto «onorato» di essere stato inserito nella lista e «grato al governo italiano per avere detto che, nel caso in cui ci sia questa candidatura, da parte italiana ci sarà un sostegno e non una opposizione».
Nonostante le resistenze del premier britannico Brown, la famiglia socialista dovrebbe decidere di chiedere per sé la poltrona di responsabile della politica estera europea e vicepresidente della Commissione, come preannunciato ieri dal primo ministro spagnolo Zapatero. Questa opzione chiuderebbe di fatto la porta in faccia a Blair. Solo che i leader popolari non hanno ancora deciso se puntare alla presidenza, lasciando ai socialisti il Mr. Pesc, o viceversa prendersi proprio la carica degli Esteri, che dura cinque anni, lasciando che il presidente (in carica per due anni) sia un socialista. «Noi abbiamo detto sempre che apprezziamo Tony Blair; la sua leadership è fuori discussione», ha ribadito Frattini, ammettendo però che «anche della famiglia popolare» ci sono «problemi» sul nome di Blair, e il primo presidente del Consiglio europeo non può certo permettersi una «maggioranza risicata».
Speriamo che Sarkozy, la Merkel e Berlusconi giochino bene le loro carte. A nostro avviso l'ipotesi migliore per i leader di centrodestra sarebbe Blair presidente e un popolare al Pesc. Sfumata questa soluzione, non resta che sperare in un'accoppiata Balkenende-Miliband, oppure... in Vaclav Klaus che mandi tutto a monte...
Friday, October 30, 2009
La controproposta di Teheran è un sostanziale rifiuto
New York Times e Washington Post sono arrivati alle stesse conclusioni, ascoltando le loro fonti diplomatiche europee ed americane: l'Iran di fatto respinge il punto centrale della bozza preparata dall'Aiea, e ufficialmente approvata la settimana scorsa da Usa, Russia e Francia, per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero. Un alto funzionario europeo definisce la risposta iraniana «sostanzialmente un rifiuto», spiegando al NYT che «il problema principale è che l'Iran non vuole esportare il suo uranio leggermente arricchito. Questo non è un dettaglio di secondaria importanza, questo è il nocciolo del problema».
Non è chiaro, però, se quella giunta ad El Baradei (pare oralmente) sia la risposta definitiva o una controproposta. Il direttore dell'Aiea avrebbe risposto all'ambasciatore iraniano all'Onu che la loro controproposta, così com'è strutturata, non verrebbe accettata da Russia, Francia e Usa, chiedendo ulteriori «chiarimenti» da parte di Teheran. Si attende una risposta formale, scritta, entro oggi, nella quale gli iraniani potrebbero ancora accettare la bozza prendendo atto dell'indisponibilità sulla loro controproposta.
Di fatto l'Iran al momento respinge l'idea di trasferire in blocco il 75% (circa 1.180 chilogrammi) del proprio uranio a basso arricchimento all'estero, una quantità che gli impedirebbe, per almeno un anno, di avere scorte sufficienti per produrre una bomba atomica. E la proposta dell'Aiea era finalizzata esattamente a dare alla diplomazia un anno di tempo per arrivare ad un più ampio accordo. Come avevamo anticipato ormai giorni fa, Teheran vorrebbe mantenere in ogni momento le attuali scorte di uranio a basso arricchimento, quindi acconsentirebbe a spedirle "a rate" per l'arricchimento all'estero, consegnando la successiva tranche solo dopo aver ricevuto, arricchito al 19,75%, l'uranio della spedizione precedente. Ma come osserva anche il WaPo, «it would mean its stockpile of enriched uranium would not be significantly reduced».
Quasi tutti i giornali italiani abboccano alle parole concilianti di Ahmadinejad («Siamo pronti a collaborare»), mentre solo il Corriere della Sera e il Giornale nei titoli avvertono che «non c'è intesa sulla bozza» e «l'imbroglio è dietro l'angolo».
UPDATE 18:34
Come quella consegnata da Teheran al direttore dell'Aiea, El Baradei, non era una risposta ma una controproposta e una richiesta di «ulteriori negoziati». Lo chiarisce l'agenzia Irna, citando fonti governative: «La Repubblica islamica non ha fatto altro che annunciare di avere un atteggiamento positivo sul negoziato, aggiungendo di essere pronta a colloqui che tengano conto di considerazioni tecniche e economiche su come fornire il combustibile necessario al reattore di Teheran». L'imbroglio continua... quanto ci metteranno a Washington a capirlo? A quanto pare di capire dalla dichiarazione del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, non hanno neanche i dettagli della risposta iraniana all'Aiea.
Non è chiaro, però, se quella giunta ad El Baradei (pare oralmente) sia la risposta definitiva o una controproposta. Il direttore dell'Aiea avrebbe risposto all'ambasciatore iraniano all'Onu che la loro controproposta, così com'è strutturata, non verrebbe accettata da Russia, Francia e Usa, chiedendo ulteriori «chiarimenti» da parte di Teheran. Si attende una risposta formale, scritta, entro oggi, nella quale gli iraniani potrebbero ancora accettare la bozza prendendo atto dell'indisponibilità sulla loro controproposta.
Di fatto l'Iran al momento respinge l'idea di trasferire in blocco il 75% (circa 1.180 chilogrammi) del proprio uranio a basso arricchimento all'estero, una quantità che gli impedirebbe, per almeno un anno, di avere scorte sufficienti per produrre una bomba atomica. E la proposta dell'Aiea era finalizzata esattamente a dare alla diplomazia un anno di tempo per arrivare ad un più ampio accordo. Come avevamo anticipato ormai giorni fa, Teheran vorrebbe mantenere in ogni momento le attuali scorte di uranio a basso arricchimento, quindi acconsentirebbe a spedirle "a rate" per l'arricchimento all'estero, consegnando la successiva tranche solo dopo aver ricevuto, arricchito al 19,75%, l'uranio della spedizione precedente. Ma come osserva anche il WaPo, «it would mean its stockpile of enriched uranium would not be significantly reduced».
Quasi tutti i giornali italiani abboccano alle parole concilianti di Ahmadinejad («Siamo pronti a collaborare»), mentre solo il Corriere della Sera e il Giornale nei titoli avvertono che «non c'è intesa sulla bozza» e «l'imbroglio è dietro l'angolo».
UPDATE 18:34
Come quella consegnata da Teheran al direttore dell'Aiea, El Baradei, non era una risposta ma una controproposta e una richiesta di «ulteriori negoziati». Lo chiarisce l'agenzia Irna, citando fonti governative: «La Repubblica islamica non ha fatto altro che annunciare di avere un atteggiamento positivo sul negoziato, aggiungendo di essere pronta a colloqui che tengano conto di considerazioni tecniche e economiche su come fornire il combustibile necessario al reattore di Teheran». L'imbroglio continua... quanto ci metteranno a Washington a capirlo? A quanto pare di capire dalla dichiarazione del portavoce della Casa Bianca, Robert Gibbs, non hanno neanche i dettagli della risposta iraniana all'Aiea.
Thursday, October 29, 2009
In quale Italia vogliamo vivere
Due interessanti analisi sul Sole 24 Ore di oggi, purtroppo non on line. Roberto Perotti è scettico sui tagli fiscali, perché non si parla di tagli alla spesa, e in queste condizioni potrebbe aver ragione Tremonti a resistere:
«Che ci piaccia o no, finché non si affronta l'argomento di una spesa pubblica vicina al 50% del Pil, qualsiasi taglio alle tasse che si riuscisse realisticamente ad attuare sarà sempre una goccia nel mare».E' quanto temeva giorni fa il Wall Street Journal, in un editoriale dedicato al nostro Paese: un taglio fiscale non sufficiente a stimolare una crescita più sostenuta, ma abbastanza grande da mettere a rischio i conti. Alberto Alesina e Pietro Ichino contestano il modello social-conservative tremontiano, che riconoscono essere fondato, coerente e attraente, ma la sua vera forza è che non ci accorgiamo di quanto sia costoso e inefficiente.
«La gente vuole sicurezza e, aggiungiamo noi, vota chi promette sicurezza senza evidenziarne i costi, un particolare che sicuramente non sfugge al ministro Tremonti. Facendo un paragone con gli Stati Uniti, è qualcosa di simile a quella visione della destra repubblicana vicina alla religious right del Sud e della Bible belt del Centro, che si contende la direzione di quel partito con la destra liberista e pro-mercato dei repubblicani del Nord-Est. L'analogo di questi ultimi in Italia, se esiste nel centro-destra, non riesce a farsi valere e preferisce vivere della luce riflessa del ministro dell'Economia.
(...)
Il piccolo mondo antico tremontiano offre certamente anche benefici economici non trascurabili... ma costi molto alti. La coesione familiare riduce la fiducia verso il mondo esterno alla famiglia, diminuendo anche l'attenzione verso il bene pubblico e quindi il "capitale sociale". La mancanza di mobilità geografica e sociale ostacola la meritocrazia e la concorrenza fra persone e imprese. La conseguenza è una minore produttività che si traduce in salari e profitti più bassi.
(...)
Non è solo un problema di competitività ed efficienza, è anche un problema di equità. Il posto fisso è tale per una minoranza a esclusione di molti altri, donne, giovani, precari. I pochi che lavorano nel mercato sostengono, con le loro imposte, i tanti che non lavorano. Quindi il posto è sì fisso, ma il salario al netto delle imposte è basso. Non solo, ma, se pochi lavorano, poco si produce e poco rimane da dividere, quindi il reddito pro capite è scarso.
(...)
Questo assetto sociale, che produce tanto attraverso le famiglie ma protegge pochi a scapito di molti e spreca talenti scoraggiando la propensione al rischio e alla competizione, ha quindi dei vantaggi ma costa caro, molto caro. Siamo disposti a pagarne il prezzo? Se la risposta è si, allora smettiamo di lamentarci se il reddito degli italiani scende relativamente a quello di altri paesi e accontentiamoci della tranquillità, un po' mediocre ma rassicurante, del ritorno al passato».
Tuesday, October 27, 2009
Importanti modifiche? L'Iran vorrebbe consegnare l'uranio "a rate"
Con i suoi mezzi annunci via tv di Stato l'Iran continua a tastare il polso delle sue controparti nel negoziato di Vienna sul nucleare, per capire quanto sia "trattabile" la bozza di accordo preparata dall'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero. Che dietro l'ipotesi alternativa di acquistare combustibile nucleare direttamente dall'estero, ventilata ieri dal ministro degli Esteri Mottaki, e i giorni di riflessione in più che gli iraniani si sono presi, ci fosse in realtà l'intenzione di avanzare una nuova richiesta l'ho anticipato ieri pomeriggio in questo articolo per il Velino.
Molti, tra cui New York Times e Washington Post, interpretano il dibattito che sembra essersi aperto in questi giorni a Teheran sulla bozza come un segno di divisione interna, e quindi un "successo" della politica di Obama, come se con la sua proposta e le sue pressioni la comunità internazionale avesse messo alle strette, o "sulla difensiva" il regime, come crede Nicholas Burns. Più probabile a mio avviso che sia solo un gioco delle parti. I più "duri" spingono perché l'Iran acquisti l'uranio arricchito al 19,75% che gli serve dall'estero, senza trasferirvi il proprio, ma il vero obiettivo è ottenere «importanti modifiche» alla bozza dell'Aiea.
Quali siano le «importanti modifiche» cui alludeva oggi la tv di Stato iraniana ancora non si sa. Ma è probabile che si tratti della consegna dell'uranio "a rate", ipotesi evocata ieri dal presidente della commissione Esteri e sicurezza nazionale del Parlamento iraniano, Alaeddin Boroujerdi: «Poiché l'Occidente ha ripetutamente violato gli accordi in passato, l'Iran dovrebbe spedire all'estero l'uranio a basso arricchimento gradualmente e in diverse fasi».
L'idea sarebbe quella di convincere l'Aiea e le potenze coinvolte nel negoziato ad accettare una riduzione dei quantitativi di uranio da consegnare - fissato dalla bozza dell'Aiea in un 75% del totale (circa 1.200 chilogrammi) - e soprattutto una "rateizzazione" delle spedizioni (100-200 chilogrammi in un periodo di mesi o anche anni). Teheran consegnerebbe la successiva partita di uranio solo dopo aver ricevuto, arricchito al 19,75%, l'uranio della spedizione precedente. Considerando che l'Iran, secondo gli esperti, sarebbe in grado di produrre nell'impianto di Natanz 3,175 chilogrammi di uranio a basso arricchimento al giorno, nel periodo di tempo che intercorrerebbe tra una spedizione e l'altra sarebbe in grado di riprodurre, o di acquistare all'estero, più o meno le stesse quantità di uranio spedite in Russia, così da mantenere invariato il proprio stock di uranio a basso arricchimento. Tuttavia, in questo modo verrebbe sostanzialmente aggirato l'obiettivo della bozza preparata dall'Aiea e sostenuta da Usa, Russia e Francia. Il loro scopo, infatti, è proprio quello di privare Teheran della quantità di uranio a basso arricchimento necessaria per fabbricare - dopo un processo di ulteriore arricchimento - una bomba atomica, che è all'incirca di 1.000 chilogrammi.
UPDATE ORE 16:11
E' come supponevo: l'Iran non spedirà mai all'estero l'uranio da arricchire in un'unica soluzione. Lo ha precisato all'emittente Press Tv una fonte del team negoziale iraniano che ha partecipato ai colloqui di Vienna la scorsa settimana. L'Iran darà una risposta ufficiale "entro venerdì 30 ottobre", ma a questo punto la richiesta è piuttosto esplicita: consegna "a rate". Quale sarà la risposta?
UPDATE 28 ottobre
Molti, tra cui New York Times e Washington Post, interpretano il dibattito che sembra essersi aperto in questi giorni a Teheran sulla bozza come un segno di divisione interna, e quindi un "successo" della politica di Obama, come se con la sua proposta e le sue pressioni la comunità internazionale avesse messo alle strette, o "sulla difensiva" il regime, come crede Nicholas Burns. Più probabile a mio avviso che sia solo un gioco delle parti. I più "duri" spingono perché l'Iran acquisti l'uranio arricchito al 19,75% che gli serve dall'estero, senza trasferirvi il proprio, ma il vero obiettivo è ottenere «importanti modifiche» alla bozza dell'Aiea.
Quali siano le «importanti modifiche» cui alludeva oggi la tv di Stato iraniana ancora non si sa. Ma è probabile che si tratti della consegna dell'uranio "a rate", ipotesi evocata ieri dal presidente della commissione Esteri e sicurezza nazionale del Parlamento iraniano, Alaeddin Boroujerdi: «Poiché l'Occidente ha ripetutamente violato gli accordi in passato, l'Iran dovrebbe spedire all'estero l'uranio a basso arricchimento gradualmente e in diverse fasi».
L'idea sarebbe quella di convincere l'Aiea e le potenze coinvolte nel negoziato ad accettare una riduzione dei quantitativi di uranio da consegnare - fissato dalla bozza dell'Aiea in un 75% del totale (circa 1.200 chilogrammi) - e soprattutto una "rateizzazione" delle spedizioni (100-200 chilogrammi in un periodo di mesi o anche anni). Teheran consegnerebbe la successiva partita di uranio solo dopo aver ricevuto, arricchito al 19,75%, l'uranio della spedizione precedente. Considerando che l'Iran, secondo gli esperti, sarebbe in grado di produrre nell'impianto di Natanz 3,175 chilogrammi di uranio a basso arricchimento al giorno, nel periodo di tempo che intercorrerebbe tra una spedizione e l'altra sarebbe in grado di riprodurre, o di acquistare all'estero, più o meno le stesse quantità di uranio spedite in Russia, così da mantenere invariato il proprio stock di uranio a basso arricchimento. Tuttavia, in questo modo verrebbe sostanzialmente aggirato l'obiettivo della bozza preparata dall'Aiea e sostenuta da Usa, Russia e Francia. Il loro scopo, infatti, è proprio quello di privare Teheran della quantità di uranio a basso arricchimento necessaria per fabbricare - dopo un processo di ulteriore arricchimento - una bomba atomica, che è all'incirca di 1.000 chilogrammi.
UPDATE ORE 16:11
E' come supponevo: l'Iran non spedirà mai all'estero l'uranio da arricchire in un'unica soluzione. Lo ha precisato all'emittente Press Tv una fonte del team negoziale iraniano che ha partecipato ai colloqui di Vienna la scorsa settimana. L'Iran darà una risposta ufficiale "entro venerdì 30 ottobre", ma a questo punto la richiesta è piuttosto esplicita: consegna "a rate". Quale sarà la risposta?
UPDATE 28 ottobre
Iran's leadership is not divided on the end-game - getting nuclear weapons - and the fact that contradictory messages appear to come out of Tehran does not mean that there are divisions. Seeing any infighting serves the purpose of those who argue that there is a sensible, reasonable, pragmatic, down-to-earth element in the regime we can do business with.
Emanuele Ottolenghi
Friday, October 23, 2009
"Non hanno bisogno del nucleare per ucciderci". Intervista a Michael Ledeen
Su il Velino
Prima il "sì" di Mosca, dopo poche ore quelli di Parigi e Washington, poi la doccia gelata da Teheran: il "no" alla bozza di accordo preparata dall'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero annunciato dalla Tv di Stato, che però in serata è diventato un "ni", quando la stessa Tv si è corretta, facendo sapere che la risposta definitiva arriverà solo la prossima settimana. Una questione "marginale", la considera però Michael Ledeen, storico americano ed esperto di Iran intervistato da il Velino. Il tema del nucleare iraniano non lo appassiona. E' convinto, infatti, che gli iraniani «non abbiano bisogno dell'atomica per ucciderci». E' da trent'anni che ci fanno la guerra ovunque. «Se non stesse attivamente uccidendo americani e non invocasse la nostra distruzione, la prospettiva di un Iran nucleare non sarebbe così minacciosa».
Per Ledeen è più preoccupante che l'Occidente, e in primo luogo gli Stati Uniti, siano «paralizzati», convinti che l'Iran sia un Paese normale con il quale trattare. E' questo l'argomento centrale del suo nuovo libro, Accomplice to Evil: Iran and the War Against the West, uscito negli Usa il 13 ottobre scorso. Un duro atto d'accusa nei confronti dell'Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, per non aver voluto riconoscere il «male». Anzi, per esserne stati «complici». «Ci rifiutiamo di vedere nell'Iran una potenza malvagia apertamente volta alla nostra distruzione». Una critica, quella di Ledeen, che non coinvolge solo l'amministrazione Obama, ma senza distinzioni anche quelle precedenti, democratiche e repubblicane, di sinistra e di destra. Michael Ledeen è da sempre convinto che la vera arma del regime iraniano non sia l'atomica, ma il regime stesso, e che sia possibile rovesciarlo «senza sparare un colpo», appoggiando l'opposizione interna e non riconoscendo il governo di Ahmadinejad.
LEGGI TUTTO
UPDATE ore 19:12
Mentre il direttore generale dell'Aiea, Mohamed El Baradei, si "aspettava una risposta chiara dall'Iran" entro oggi, come fatto intendere d'altra parte dagli stessi iraniani, molti analisti lo avevano previsto: Teheran prenderà tempo. E infatti, dopo il "no" annunciato questo pomeriggio, è la stessa Tv iraniana a correggersi e a far sapere che l'Iran dirà la prossima settimana se accetta o meno la bozza di accordo preparata dall'Aiea, dalla quale in serata fanno trapelare che l'Iran la starebbe comunque considerando "favorevolmente", tanto per non rischiare di scatenare le ire soprattutto di Mosca. E Washington avverte: possiamo aspettare solo pochi giorni.
Il "no" di Teheran in effetti mi aveva sorpreso. Evidentemente si è trattato di una mossa esplorativa, per sondare le reazioni. Intanto, hanno strappato qualche altro giorno, forse una settimana. Poi arriverà il sì, condito di se, e si perderanno altre settimane sui dettagli. Quell'uranio, se mai uscirà dall'Iran, sarà non prima di gennaio 2010.
Prima il "sì" di Mosca, dopo poche ore quelli di Parigi e Washington, poi la doccia gelata da Teheran: il "no" alla bozza di accordo preparata dall'Aiea per l'arricchimento dell'uranio iraniano all'estero annunciato dalla Tv di Stato, che però in serata è diventato un "ni", quando la stessa Tv si è corretta, facendo sapere che la risposta definitiva arriverà solo la prossima settimana. Una questione "marginale", la considera però Michael Ledeen, storico americano ed esperto di Iran intervistato da il Velino. Il tema del nucleare iraniano non lo appassiona. E' convinto, infatti, che gli iraniani «non abbiano bisogno dell'atomica per ucciderci». E' da trent'anni che ci fanno la guerra ovunque. «Se non stesse attivamente uccidendo americani e non invocasse la nostra distruzione, la prospettiva di un Iran nucleare non sarebbe così minacciosa».
Per Ledeen è più preoccupante che l'Occidente, e in primo luogo gli Stati Uniti, siano «paralizzati», convinti che l'Iran sia un Paese normale con il quale trattare. E' questo l'argomento centrale del suo nuovo libro, Accomplice to Evil: Iran and the War Against the West, uscito negli Usa il 13 ottobre scorso. Un duro atto d'accusa nei confronti dell'Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, per non aver voluto riconoscere il «male». Anzi, per esserne stati «complici». «Ci rifiutiamo di vedere nell'Iran una potenza malvagia apertamente volta alla nostra distruzione». Una critica, quella di Ledeen, che non coinvolge solo l'amministrazione Obama, ma senza distinzioni anche quelle precedenti, democratiche e repubblicane, di sinistra e di destra. Michael Ledeen è da sempre convinto che la vera arma del regime iraniano non sia l'atomica, ma il regime stesso, e che sia possibile rovesciarlo «senza sparare un colpo», appoggiando l'opposizione interna e non riconoscendo il governo di Ahmadinejad.
LEGGI TUTTO
UPDATE ore 19:12
Mentre il direttore generale dell'Aiea, Mohamed El Baradei, si "aspettava una risposta chiara dall'Iran" entro oggi, come fatto intendere d'altra parte dagli stessi iraniani, molti analisti lo avevano previsto: Teheran prenderà tempo. E infatti, dopo il "no" annunciato questo pomeriggio, è la stessa Tv iraniana a correggersi e a far sapere che l'Iran dirà la prossima settimana se accetta o meno la bozza di accordo preparata dall'Aiea, dalla quale in serata fanno trapelare che l'Iran la starebbe comunque considerando "favorevolmente", tanto per non rischiare di scatenare le ire soprattutto di Mosca. E Washington avverte: possiamo aspettare solo pochi giorni.
Il "no" di Teheran in effetti mi aveva sorpreso. Evidentemente si è trattato di una mossa esplorativa, per sondare le reazioni. Intanto, hanno strappato qualche altro giorno, forse una settimana. Poi arriverà il sì, condito di se, e si perderanno altre settimane sui dettagli. Quell'uranio, se mai uscirà dall'Iran, sarà non prima di gennaio 2010.
Tagliare le tasse tenendo a bada i conti si può
Gli elettori hanno votato il berlusconismo, non il tremontismo
Il Corriere della Sera riferisce di un «colloquio tesissimo» tra Berlusconi e Tremonti: «O la linea europea, quella del rigore e della ragionevolezza sui conti pubblici, o quella della spesa», sarebbe l'aut aut del ministro. Ma davvero un taglio delle tasse è incompatibile con una linea di «rigore e ragionevolezza sui conti pubblici»? Davvero un taglio delle tasse non si può che finanziare in deficit, oppure presterebbe una buona occasione anche per sforbiciare propria la spesa? La «graduale riduzione dell'Irap fino alla sua soppressione» è nel programma di governo e sfido chiunque a sostenere che con i livelli attuali di spesa pubblica e spreco il taglio dell'Irap determinerebbe inesorabilmente più deficit. No, c'è anche l'opzione di ridurre gradualmente l'Irap tagliando qualche spesa di troppo con qualche riforma. Questione di volontà politica. Non una cura shock, thatcheriana, quindi, ma soft. Non si capisce perché, rispetto a un'ipotesi così moderata, Tremonti arrivi a minacciare le dimissioni.
Parli chiaramente, il ministro, denunci pubblicamente il partito della spesa e faccia i nomi di chi c'è dietro, ma a chi gli dice - e sono tanti - giù le tasse e giù la spesa, dica "sì". «Giù le tasse, ma giù anche le spese», si conclude l'editoriale di oggi del Sole 24 Ore, affidato a Guido Gentili. E anche Francesco Forte, su il Giornale, parla di «doppio compito» per Berlusconi, quello di «attuare la promessa di rivoluzione fiscale», ma anche quello di «assicurare la tenuta della finanza pubblica italiana e la sua credibilità internazionale», e propone una sua ricetta, che prevede, tra l'altro, riforma delle pensioni Cazzola-Della Vedova e privatizzazioni. Per il taglio dell'Irap, quindi, tutti concordano che servirebbero altrettanti tagli di spesa pubblica. E le aree dove intervenire abbondano. A questo punto una scelta va fatta: o una stabilità sociale di cui però in pochi, e sempre i soliti, si avvantaggiano; o una crescita più sostenuta che potrebbe favorire molti (creando risorse per riformare il welfare).
Tenendo in considerazione, poi, che con la stabilità il debito pubblico si può al massimo contenere, ma a meno di non voler aumentare le tasse ai soliti noti che le pagano (magari ritrovandosi per le mani un gettito deludente), l'unico modo per uscirne è con più crescita, come ricorda giustamente Francesco Giavazzi nel suo editoriale di oggi sul Corriere. Cominciare riducendo l'Irap è un buon punto di partenza, perché si tratta di un'imposta che colpisce le attività produttive: e si badi bene, non solo le imprese, ma anche lavoratori e occupazione. L'Irap è una tassa suicida perché anziché premiare la produzione e il lavoro, li punisce. E bisogna inoltre considerare che il mondo produttivo tedesco con tutta probabilità usufruirà di un consistente taglio di tasse, nelle intenzioni del nuovo governo democristiano-liberale di Angela Merkel (forse per una cifra che supera il gettito della nostra Irap: 50 miliardi).
Quella che Giavazzi definisce una «minoranza mal sopportata» finora all'interno del governo, tra cui i ministri Gelmini e Brunetta, non ha preferito la stabilità alle riforme, e gode comunque di ampia popolarità, soprattutto nel Pdl e tra gli elettori di centrodestra, quelli che ti consentono di vincere le elezioni. Ma in conclusione, condivido l'appello di Feltri: «Ora giù le tasse, ma salvate Tremonti». Anche se un paio di differenze, rispetto al 2004, quando il ministro fu costretto alle dimissioni, ci sono: Fini non è al governo e l'Udc non fa parte della maggioranza. Anche il quotidiano di Confindustria, pur favorevole a tagliare le tasse, tuttavia non ce l'ha con Tremonti. Oggi Guido Gentili scrive che «non c'è spazio né per restare fermi né per bruciare, oltre il sostegno decisivo della Lega Nord, la credibilità internazionale che Tremonti ha costruito in questa fase di crisi difficilissima».
Stavolta anche Stefano Folli mi pare interpreti bene quando scrive «nessuna sfiducia a Tremonti, ma da Berlusconi viene un preciso segnale». Per quanto sia "intoccabile", e per quanto il premier non voglia effettivamente privarsi di lui, è Palazzo Chigi «che decide la rotta». Il premier lo ha ricordato e Tremonti dovrebbe accettarlo. Gli elettori hanno votato il berlusconismo, non il tremontismo.
Per favore, quindi, il ministro dell'Economia la smetta di raccontarci che non c'è spazio per ridurre le tasse (ridurle facendo quadrare i conti è il suo mestiere), e lui e quello del Welfare non insistano sul fatto che il nostro modello è il migliore del mondo. Così facendo, anzi, non si accorgono di sminuire il loro operato durante la crisi. Se verso l'uscita del tunnel siamo ancora in piedi (conti pubblici entro limiti accettabili, disoccupazione sotto la media Ue), è anche per merito della responsabilità fiscale di Tremonti e Sacconi, ma certo non di un modello socio-economico fatto di elevata spesa pubblica ed elevata tassazione, e di cassa integrazione, che va riformato.
E' proprio questo il momento migliore per affrontare la questione fiscale e tentare di dare slancio alla nostra ripresa.
Il Corriere della Sera riferisce di un «colloquio tesissimo» tra Berlusconi e Tremonti: «O la linea europea, quella del rigore e della ragionevolezza sui conti pubblici, o quella della spesa», sarebbe l'aut aut del ministro. Ma davvero un taglio delle tasse è incompatibile con una linea di «rigore e ragionevolezza sui conti pubblici»? Davvero un taglio delle tasse non si può che finanziare in deficit, oppure presterebbe una buona occasione anche per sforbiciare propria la spesa? La «graduale riduzione dell'Irap fino alla sua soppressione» è nel programma di governo e sfido chiunque a sostenere che con i livelli attuali di spesa pubblica e spreco il taglio dell'Irap determinerebbe inesorabilmente più deficit. No, c'è anche l'opzione di ridurre gradualmente l'Irap tagliando qualche spesa di troppo con qualche riforma. Questione di volontà politica. Non una cura shock, thatcheriana, quindi, ma soft. Non si capisce perché, rispetto a un'ipotesi così moderata, Tremonti arrivi a minacciare le dimissioni.
Parli chiaramente, il ministro, denunci pubblicamente il partito della spesa e faccia i nomi di chi c'è dietro, ma a chi gli dice - e sono tanti - giù le tasse e giù la spesa, dica "sì". «Giù le tasse, ma giù anche le spese», si conclude l'editoriale di oggi del Sole 24 Ore, affidato a Guido Gentili. E anche Francesco Forte, su il Giornale, parla di «doppio compito» per Berlusconi, quello di «attuare la promessa di rivoluzione fiscale», ma anche quello di «assicurare la tenuta della finanza pubblica italiana e la sua credibilità internazionale», e propone una sua ricetta, che prevede, tra l'altro, riforma delle pensioni Cazzola-Della Vedova e privatizzazioni. Per il taglio dell'Irap, quindi, tutti concordano che servirebbero altrettanti tagli di spesa pubblica. E le aree dove intervenire abbondano. A questo punto una scelta va fatta: o una stabilità sociale di cui però in pochi, e sempre i soliti, si avvantaggiano; o una crescita più sostenuta che potrebbe favorire molti (creando risorse per riformare il welfare).
Tenendo in considerazione, poi, che con la stabilità il debito pubblico si può al massimo contenere, ma a meno di non voler aumentare le tasse ai soliti noti che le pagano (magari ritrovandosi per le mani un gettito deludente), l'unico modo per uscirne è con più crescita, come ricorda giustamente Francesco Giavazzi nel suo editoriale di oggi sul Corriere. Cominciare riducendo l'Irap è un buon punto di partenza, perché si tratta di un'imposta che colpisce le attività produttive: e si badi bene, non solo le imprese, ma anche lavoratori e occupazione. L'Irap è una tassa suicida perché anziché premiare la produzione e il lavoro, li punisce. E bisogna inoltre considerare che il mondo produttivo tedesco con tutta probabilità usufruirà di un consistente taglio di tasse, nelle intenzioni del nuovo governo democristiano-liberale di Angela Merkel (forse per una cifra che supera il gettito della nostra Irap: 50 miliardi).
Quella che Giavazzi definisce una «minoranza mal sopportata» finora all'interno del governo, tra cui i ministri Gelmini e Brunetta, non ha preferito la stabilità alle riforme, e gode comunque di ampia popolarità, soprattutto nel Pdl e tra gli elettori di centrodestra, quelli che ti consentono di vincere le elezioni. Ma in conclusione, condivido l'appello di Feltri: «Ora giù le tasse, ma salvate Tremonti». Anche se un paio di differenze, rispetto al 2004, quando il ministro fu costretto alle dimissioni, ci sono: Fini non è al governo e l'Udc non fa parte della maggioranza. Anche il quotidiano di Confindustria, pur favorevole a tagliare le tasse, tuttavia non ce l'ha con Tremonti. Oggi Guido Gentili scrive che «non c'è spazio né per restare fermi né per bruciare, oltre il sostegno decisivo della Lega Nord, la credibilità internazionale che Tremonti ha costruito in questa fase di crisi difficilissima».
Stavolta anche Stefano Folli mi pare interpreti bene quando scrive «nessuna sfiducia a Tremonti, ma da Berlusconi viene un preciso segnale». Per quanto sia "intoccabile", e per quanto il premier non voglia effettivamente privarsi di lui, è Palazzo Chigi «che decide la rotta». Il premier lo ha ricordato e Tremonti dovrebbe accettarlo. Gli elettori hanno votato il berlusconismo, non il tremontismo.
Per favore, quindi, il ministro dell'Economia la smetta di raccontarci che non c'è spazio per ridurre le tasse (ridurle facendo quadrare i conti è il suo mestiere), e lui e quello del Welfare non insistano sul fatto che il nostro modello è il migliore del mondo. Così facendo, anzi, non si accorgono di sminuire il loro operato durante la crisi. Se verso l'uscita del tunnel siamo ancora in piedi (conti pubblici entro limiti accettabili, disoccupazione sotto la media Ue), è anche per merito della responsabilità fiscale di Tremonti e Sacconi, ma certo non di un modello socio-economico fatto di elevata spesa pubblica ed elevata tassazione, e di cassa integrazione, che va riformato.
E' proprio questo il momento migliore per affrontare la questione fiscale e tentare di dare slancio alla nostra ripresa.
Thursday, October 22, 2009
Appello a Berlusconi e Tremonti
All'unisono il Giornale e Libero si fanno portavoce degli umori della maggioranza degli italiani che hanno votato Berlusconi e il Pdl: cari Berlusconi e Tremonti, abbassate le tasse! Secondo Nicola Porro, «il Cavaliere ci sta pensando e ripensando. E la sua idea in fondo è quella delle origini»: ridurre a due le aliquote fiscali, al 23 e al 33 per cento. «Un nuovo contratto» e «un colpo di teatro inatteso, che smarcherebbe il governo dalle sue impasse e riporterebbe l'esecutivo in diretto contatto con il suo blocco sociale».
E' noto che secondo i liberisti, e come storicamente dimostrato, quando il taglio delle aliquote è consistente, a partire da una pressione fiscale insopportabilmente elevata, e soprattutto credibile, cioè non momentaneo, tende ad autofinanziarsi. «Ma nel breve periodo - avverte Porro - si creerebbe comunque un buco nei conti pubblici». E a chi rivolgersi, se non a Tremonti, che «ha resistito alle sirene della spesa pubblica e lo ha fatto quando era più difficile: quando da ogni angolo del Paese si chiedeva un aiuto».
Fino a oggi «il nostro sistema ha retto, a fatica ma è rimasto in piedi». Tuttavia, osserva Porro, «non si può tenere in infinito. Si deve individuare il momento più propizio per voltare pagina: per passare dalla protezione allo sviluppo, dalla paura alla speranza, dalla forte tassazione al premio, dalla conservazione alla rivoluzione... quella fiscale». E si appella a Berlusconi: ascolti tutti, ma alla fine si decida. «Se la crisi della nostra produzione dovesse durare per i prossimi sei mesi, occupati, redditi e consumi si sbriciolerebbero. Giochi di anticipo e metta un po' di benzina nel nostro motore».
E' lo stesso il ragionamento del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, che però si rivolge a Tremonti. Innanzitutto per tranquillizzarlo, che da parte del suo giornale non ci sono «complotti e dunque non c'è nessuno che li ispira», ma non si è fatto altro che registrare il «malcontento che serpeggia all'interno della stessa maggioranza di governo». «Non è in discussione il talento di Tremonti» nell'affrontare la crisi, anche Belpietro riconosce, ma le «decisioni a sostegno delle piccole e medie imprese e delle famiglie che non sono più rinviabili». «L'attuale maggioranza di governo - spiega - è stata eletta con la promessa che avrebbe ridotto le tasse e cambiato alcune cose, tra queste il peso dello Stato sull'economia. La crisi nternazionale ha fatto rinviare ogni decisione in tal senso e se ne comprendono le ragioni. Ma ora è tempo di riprendere in mano la questione».
Attenzione, perché nessuno dei due quotidiani sostiene di tagliare le tasse in deficit. Porro, su il Giornale, scrive che «occorre affamare la bestia» e invita Berlusconi a individuare «in Tremonti l'uomo in grado di tagliare la spesa pubblica, il ministro in grado di contenere l'inevitabile deficit che comporterà la manovra». Anche Belpietro si muove nell'ottica del taglio della spesa: «Si faccia la riforma delle pensioni, si eliminino gli sprechi, si intervenga sul fronte delle rendite o su quello dell'evasione, ma si trovino i soldi necessari».
Non è in corso un'operazione "alla Fini", ma un dibattito sul corso della politica economica del governo. Nessuno dei due ce l'ha con Tremonti: Porro si rivolge a Berlusconi suggerendogli di affidarsi proprio a lui, e Belpietro si rivolge direttamente al ministro. Il problema che entrambi sollevano è reale e dato che probabilmente Berlusconi non si priverà mai di Tremonti, non resta che sperare che il ministro capisca: «La riduzione delle tasse non è più rinviabile, pena uno scollamento tra elettorato ed esecutivo».
E' noto che secondo i liberisti, e come storicamente dimostrato, quando il taglio delle aliquote è consistente, a partire da una pressione fiscale insopportabilmente elevata, e soprattutto credibile, cioè non momentaneo, tende ad autofinanziarsi. «Ma nel breve periodo - avverte Porro - si creerebbe comunque un buco nei conti pubblici». E a chi rivolgersi, se non a Tremonti, che «ha resistito alle sirene della spesa pubblica e lo ha fatto quando era più difficile: quando da ogni angolo del Paese si chiedeva un aiuto».
Fino a oggi «il nostro sistema ha retto, a fatica ma è rimasto in piedi». Tuttavia, osserva Porro, «non si può tenere in infinito. Si deve individuare il momento più propizio per voltare pagina: per passare dalla protezione allo sviluppo, dalla paura alla speranza, dalla forte tassazione al premio, dalla conservazione alla rivoluzione... quella fiscale». E si appella a Berlusconi: ascolti tutti, ma alla fine si decida. «Se la crisi della nostra produzione dovesse durare per i prossimi sei mesi, occupati, redditi e consumi si sbriciolerebbero. Giochi di anticipo e metta un po' di benzina nel nostro motore».
E' lo stesso il ragionamento del direttore di Libero, Maurizio Belpietro, che però si rivolge a Tremonti. Innanzitutto per tranquillizzarlo, che da parte del suo giornale non ci sono «complotti e dunque non c'è nessuno che li ispira», ma non si è fatto altro che registrare il «malcontento che serpeggia all'interno della stessa maggioranza di governo». «Non è in discussione il talento di Tremonti» nell'affrontare la crisi, anche Belpietro riconosce, ma le «decisioni a sostegno delle piccole e medie imprese e delle famiglie che non sono più rinviabili». «L'attuale maggioranza di governo - spiega - è stata eletta con la promessa che avrebbe ridotto le tasse e cambiato alcune cose, tra queste il peso dello Stato sull'economia. La crisi nternazionale ha fatto rinviare ogni decisione in tal senso e se ne comprendono le ragioni. Ma ora è tempo di riprendere in mano la questione».
Attenzione, perché nessuno dei due quotidiani sostiene di tagliare le tasse in deficit. Porro, su il Giornale, scrive che «occorre affamare la bestia» e invita Berlusconi a individuare «in Tremonti l'uomo in grado di tagliare la spesa pubblica, il ministro in grado di contenere l'inevitabile deficit che comporterà la manovra». Anche Belpietro si muove nell'ottica del taglio della spesa: «Si faccia la riforma delle pensioni, si eliminino gli sprechi, si intervenga sul fronte delle rendite o su quello dell'evasione, ma si trovino i soldi necessari».
Non è in corso un'operazione "alla Fini", ma un dibattito sul corso della politica economica del governo. Nessuno dei due ce l'ha con Tremonti: Porro si rivolge a Berlusconi suggerendogli di affidarsi proprio a lui, e Belpietro si rivolge direttamente al ministro. Il problema che entrambi sollevano è reale e dato che probabilmente Berlusconi non si priverà mai di Tremonti, non resta che sperare che il ministro capisca: «La riduzione delle tasse non è più rinviabile, pena uno scollamento tra elettorato ed esecutivo».
Wednesday, October 21, 2009
Dove vuole arrivare il "compagno" Tremonti?/2
Una cosa è certa. Il governo non può privarsi di Tremonti. Berlusconi ne è consapevole e si è visto costretto a spegnere sul nascere il fuoco, sostenendo il ministro probabilmente al di là delle sue personali convinzioni. Me ne rendo conto pur essendo tra quelli non del tutto soddisfatti del suo operato e per nulla delle sue uscite anti-mercatiste che per lo più, fortunatamente, non sono entrate negli atti del Consiglio dei ministri. Fino ad oggi. La coalizione di governo di centrodestra - come è sempre stato d'altronde - si poggia sulla triade di ferro Berlusconi-Bossi-Tremonti. Se quest'ultimo salta, non è detto che tenga.
Ma soprattutto bisogna ammettere che il centrodestra, ad oggi, non ha neanche una figura altrettanto credibile come ministro dell'Economia, e che conosca altrettanto la "macchina". Spingerlo alle dimissioni, come nel 2004, significherebbe implicitamente ammettere che il governo ha completamente sbagliato la politica economica con cui ha affrontato la crisi. Il che, nonostante i limiti di Tremonti, non è affatto vero. La spesa è stata contenuta, i "no" del ministro sono e saranno preziosi. "No" che può permettersi di pronunciare in ragione della sua forza politica e che probabilmente un altro al suo posto non potrebbe permettersi.
E questo mi porta a far notare un altro particolare, non secondario. Quanti - mi ci metto anch'io - in queste ore hanno giustamente criticato il ministro per la sua riabilitazione del posto fisso, e soprattutto quanti evocano le "dimissioni", dovrebbero avere presente che i malumori nei confronti di Tremonti non sono unicamente di segno liberista. Tra i malumori si annidano anche quelli del partito della spesa, dell'assalto alla diligenza, il partito del Sud, che in questo anno e mezzo Tremonti ha profondamente scontentato. Questi non vedono l'ora di avere a che fare con un ministro più debole e malleabile.
Certo che ora, sul finire della crisi, i pur preziosi "no" di Tremonti non bastano più. Berlusconi ha presente i limiti della politica economica del suo ministro, e lo fa capire ai suoi quando nel suo comunicato cita le partite Iva. Le tasse e le riforme (ammortizzatori sociali e pensioni) sono questioni che prima o poi andranno affrontate, altrimenti non avremo un ritmo di crescita soddisfacente all'uscita della recessione e le categorie che si sono affidate per la terza volta a Berlusconi e al Pdl patiranno un'altra cocente delusione. Sono argomenti però su cui finora la chiusura di Tremonti è stata totale. Probabilmente perché il ministro ha in mente altri rapporti di potere per il dopo-Berlusconi. Alla fine Tremonti potrebbe accettare di essere più elastico su tasse e riforme, ma potrebbe anche decidere di dimettersi se e quando le richieste del premier e del partito saranno più insistenti; ma è anche possibile che Berlusconi non avrà il coraggio di insistere e, in tal caso, si arrenderà al tremontismo.
Ma soprattutto bisogna ammettere che il centrodestra, ad oggi, non ha neanche una figura altrettanto credibile come ministro dell'Economia, e che conosca altrettanto la "macchina". Spingerlo alle dimissioni, come nel 2004, significherebbe implicitamente ammettere che il governo ha completamente sbagliato la politica economica con cui ha affrontato la crisi. Il che, nonostante i limiti di Tremonti, non è affatto vero. La spesa è stata contenuta, i "no" del ministro sono e saranno preziosi. "No" che può permettersi di pronunciare in ragione della sua forza politica e che probabilmente un altro al suo posto non potrebbe permettersi.
E questo mi porta a far notare un altro particolare, non secondario. Quanti - mi ci metto anch'io - in queste ore hanno giustamente criticato il ministro per la sua riabilitazione del posto fisso, e soprattutto quanti evocano le "dimissioni", dovrebbero avere presente che i malumori nei confronti di Tremonti non sono unicamente di segno liberista. Tra i malumori si annidano anche quelli del partito della spesa, dell'assalto alla diligenza, il partito del Sud, che in questo anno e mezzo Tremonti ha profondamente scontentato. Questi non vedono l'ora di avere a che fare con un ministro più debole e malleabile.
Certo che ora, sul finire della crisi, i pur preziosi "no" di Tremonti non bastano più. Berlusconi ha presente i limiti della politica economica del suo ministro, e lo fa capire ai suoi quando nel suo comunicato cita le partite Iva. Le tasse e le riforme (ammortizzatori sociali e pensioni) sono questioni che prima o poi andranno affrontate, altrimenti non avremo un ritmo di crescita soddisfacente all'uscita della recessione e le categorie che si sono affidate per la terza volta a Berlusconi e al Pdl patiranno un'altra cocente delusione. Sono argomenti però su cui finora la chiusura di Tremonti è stata totale. Probabilmente perché il ministro ha in mente altri rapporti di potere per il dopo-Berlusconi. Alla fine Tremonti potrebbe accettare di essere più elastico su tasse e riforme, ma potrebbe anche decidere di dimettersi se e quando le richieste del premier e del partito saranno più insistenti; ma è anche possibile che Berlusconi non avrà il coraggio di insistere e, in tal caso, si arrenderà al tremontismo.
Tuesday, October 20, 2009
Dove vuole arrivare il "compagno" Tremonti?
L'impressione è che stavolta Tremonti abbia davvero esagerato con la sua ultima provocazione anti-mercatista, addirittura la "riabilitazione" del posto fisso. Come mi pare fece con Fini, a questo punto Feltri dovrebbe candidare anche Tremonti alla leadership del centrosinistra. Questa volta però non tutti i ministri sono rimasti in silenzio in nome della compattezza e dell'armonia nell'Esecutivo. E anche nel partito gli scontenti per le uscite schiettamente socialdemocratiche del ministro dell'Economia - pur ammettendo che le sue politiche finora sono rimaste fiscalmente responsabili, il che non era scontato in un Paese come l'Italia, durante una grave recessione - si sentono finalmente autorizzati ad uscire allo scoperto.
Non manca chi ha esteso la critica a Tremonti ben oltre la restaurazione del mito del posto fisso. «Tremonti dà una risposta per l'uscita dalla crisi che io non condivido. Tornare indietro è più facile, ma non risolve i problemi. Bisogna cambiare occhiali per capire come è fatto il nuovo mondo. Non si deve aver paura». Sembra una critica complessiva, per esempio, questa di Brunetta in un'intervista a la Repubblica. Come sapete, è anche la posizione di questo blog: «Abbiamo vissuto la stagione del lavoro atipico come estrema conseguenza dell'egoismo del lavoro tipico, dell'egoismo degli insiders contro gli outsiders. Tutte le garanzie ai primi, protetti dal sindacato, tutte le flessibilità scaricate orribilmente sui secondi privi di rappresentanza».
Ma la soluzione non può essere quella di far diventare gli outsiders degli insiders, perché il sistema non sarebbe in grado di sopportarne i costi. La proposta di Brunetta è di «spalmare le esigenze di flessibilità su tutte le forze lavoro occupate. So bene quanto sia delicato questo argomento, basti pensare agli scontri, tra riformisti e conservatori, intorno all'articolo 18». Tremonti, invece, «vorrebbe una nuova società dei salariati. Solo che questa non risponde alle esigenze di flessibilità che pone il sistema. La sua è una soluzione del Novecento che non va più bene in questo secolo».
Alberto Alesina, intervistato da Il Foglio, comprende il ragionamento di Tremonti e rispetta le sue categorie di pensiero. Certo, la stabilità sociale, anche durante questa grave recessione, ha contribuito alla tenuta del Paese, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte. Far prevalere la stabilità del posto fisso presenta dei costi non irrilevanti, e non solo per le imprese. I costi maggiori, anzi, li sopportano proprio i lavoratori: scarsa produttività, quindi un salario più basso e un reddito pro capite inferiore a quello di altri Paesi:
Come osserva Dario Di Vico, sul Corriere, l'uscita di Tremonti «spiazza la sinistra», mira dal punto di vista comunicativo, come già sta accadendo da alcuni mesi, a mettere il Pd in un angolo, facendo rientrare nel Pdl entrambi i poli del dibattito politico-culturale che si svolge sui principali temi, dall'immigrazione al lavoro:
E' vero che dal punto di vista comunicativo può rivelarsi un vantaggio per il Pdl riassumere al proprio interno un ampio spettro di posizioni su vari temi polarizzanti (stato e mercato, laicità, immigrazione-integrazione, rapporto tra istituzioni). In condizioni normali, la confusione che si genera nel profilo politico-programmatico della coalizione avvantaggerebbe l'avversario. E' pur vero che non siamo in condizioni normali, finché l'opposizione rimane nello stato di irrilevanza e di totale mancanza di credibilità nel Paese in cui è, ma non bisogna comunque esagerare, fino a porre in discussione l'identità e le basi politico-culturali su cui una moderna politica economico-sociale di centrodestra dovrebbe fondarsi.
Stando a quanto riporta questa mattina Mario Sechi, su Libero, il Pdl comincia a ribollire di sentimenti anti-tremontiani. «Non siamo al Giulio contro tutti, né al ritorno della notte del 3 luglio 2004, quando il ministro fu costretto dalla tenaglia An-Udc a lasciare l'incarico», scrive Sechi, ma ormai si dubita sempre di più che la politica economica del ministro Tremonti sia in grado di garantire all'Italia un tasso di crescita sostenuto e soddisfare le aspettative delle «categorie di riferimento». Per questo, rivela Sechi, «negli uffici del partito si stanno ultimando le bozze di due documenti riservati, a esclusiva circolazione interna, che fanno un punto-nave politico e cercano di dare una risposta economica alle richieste che vengono dalla Confindustria, dal mondo delle imprese e delle partite Iva, dal Viminale e le forze dell'ordine, dalla stessa Banca d'Italia». Leva fiscale e riforma delle pensioni le due idee «fulcro» dei due documenti, certamente «non tremontiani».
Il ministro è convinto, sia per ragioni di bilancio (assolutamente condivisibili), sia per la sua filosofia politica (meno condivisibile), che nella società di oggi la domanda di stabilità e sicurezza sia prevalente su tutte le altre. Ma Tremonti sbaglia a sottovalutare il tema "tasse", che da almeno due secoli non manca di infiammare i popoli di ogni latitudine.
Non manca chi ha esteso la critica a Tremonti ben oltre la restaurazione del mito del posto fisso. «Tremonti dà una risposta per l'uscita dalla crisi che io non condivido. Tornare indietro è più facile, ma non risolve i problemi. Bisogna cambiare occhiali per capire come è fatto il nuovo mondo. Non si deve aver paura». Sembra una critica complessiva, per esempio, questa di Brunetta in un'intervista a la Repubblica. Come sapete, è anche la posizione di questo blog: «Abbiamo vissuto la stagione del lavoro atipico come estrema conseguenza dell'egoismo del lavoro tipico, dell'egoismo degli insiders contro gli outsiders. Tutte le garanzie ai primi, protetti dal sindacato, tutte le flessibilità scaricate orribilmente sui secondi privi di rappresentanza».
Ma la soluzione non può essere quella di far diventare gli outsiders degli insiders, perché il sistema non sarebbe in grado di sopportarne i costi. La proposta di Brunetta è di «spalmare le esigenze di flessibilità su tutte le forze lavoro occupate. So bene quanto sia delicato questo argomento, basti pensare agli scontri, tra riformisti e conservatori, intorno all'articolo 18». Tremonti, invece, «vorrebbe una nuova società dei salariati. Solo che questa non risponde alle esigenze di flessibilità che pone il sistema. La sua è una soluzione del Novecento che non va più bene in questo secolo».
«Le garanzie non devono derivare da un posto di lavoro, ma dalla propria professionalità, dal proprio essere azionisti dell'attività produttiva. Bisogna provare, anche se mi rendo conto di essere un po' utopista, ad adattare le regole del mercato del lavoro a quelle della Rete, perché è questa la novità di quest'epoca. La novità è Internet, è l'intelligenza che produce senza capitali».Va bene lavorare «per dare posti di lavoro più duraturi», osserva un altro ministro, Sacconi, a Mattino5, ma «questo non si ottiene con norme vincolanti bensì permettendo ai lavoratori di affermare le proprie competenze». E i finiani mostrano di sentire la concorrenza di Tremonti per il dopo-Berlusconi. «La cultura del posto fisso è uno dei mali del Mezzogiorno che i giovani dovrebbero contrastare per essere liberi dallo statalismo e dalle clientele politiche che nei decenni passati hanno caratterizzato il mercato del lavoro», osserva Italo Bocchino, deputato Pdl vicino al presidente della Camera: «Quello di cui c'è veramente bisogno è una formazione professionale vera, capace di introdurre i giovani nel mercato del lavoro e di garantire quella professionalità utile a competere».
Alberto Alesina, intervistato da Il Foglio, comprende il ragionamento di Tremonti e rispetta le sue categorie di pensiero. Certo, la stabilità sociale, anche durante questa grave recessione, ha contribuito alla tenuta del Paese, ma dobbiamo essere consapevoli delle conseguenze delle nostre scelte. Far prevalere la stabilità del posto fisso presenta dei costi non irrilevanti, e non solo per le imprese. I costi maggiori, anzi, li sopportano proprio i lavoratori: scarsa produttività, quindi un salario più basso e un reddito pro capite inferiore a quello di altri Paesi:
«Non possiamo avere tutto insieme, la piena occupazione con posto stabile, il salario più alto, la crescita più rapida. Il risultato probabile, al contrario, è che aumenterà la frattura tra chi il posto ce l'ha e se lo tiene stretto e chi non lo avrà mai. Una società in cui chi ha un lavoro garantito (e per lo più sono uomini adulti) dovrà mantenere i figli per un numero elevato di anni. Una società a un tempo statica e divisa».Salari alti, redditi alti, posto fisso e piena occupazione è «un'equazione che non funziona».
Come osserva Dario Di Vico, sul Corriere, l'uscita di Tremonti «spiazza la sinistra», mira dal punto di vista comunicativo, come già sta accadendo da alcuni mesi, a mettere il Pd in un angolo, facendo rientrare nel Pdl entrambi i poli del dibattito politico-culturale che si svolge sui principali temi, dall'immigrazione al lavoro:
«Inneggiando al posto fisso e sbeffeggiando la mobilità sociale, Tremonti non pare avere intenzione di capovolgere la linea di politica del lavoro del governo Berlusconi. Giacché dovrebbe rivoltare la filosofia della riforma della pubblica amministrazione del collega Renato Brunetta, sconfessare il ministro Gelmini, chiedere la cancellazione della legge Biagi e fare una buona provvista di euro per assumere, come Stato, tutti i precari della scuola, delle Poste, della Rai, dell'Istat, dell'Isfol, della Croce Rossa, dell'Istituto superiore di sanità e via di questo passo».Una «sortita», quella di Tremonti, che va circoscritta quindi «al mondo dei simboli e delle querelle politico-culturali».
E' vero che dal punto di vista comunicativo può rivelarsi un vantaggio per il Pdl riassumere al proprio interno un ampio spettro di posizioni su vari temi polarizzanti (stato e mercato, laicità, immigrazione-integrazione, rapporto tra istituzioni). In condizioni normali, la confusione che si genera nel profilo politico-programmatico della coalizione avvantaggerebbe l'avversario. E' pur vero che non siamo in condizioni normali, finché l'opposizione rimane nello stato di irrilevanza e di totale mancanza di credibilità nel Paese in cui è, ma non bisogna comunque esagerare, fino a porre in discussione l'identità e le basi politico-culturali su cui una moderna politica economico-sociale di centrodestra dovrebbe fondarsi.
Stando a quanto riporta questa mattina Mario Sechi, su Libero, il Pdl comincia a ribollire di sentimenti anti-tremontiani. «Non siamo al Giulio contro tutti, né al ritorno della notte del 3 luglio 2004, quando il ministro fu costretto dalla tenaglia An-Udc a lasciare l'incarico», scrive Sechi, ma ormai si dubita sempre di più che la politica economica del ministro Tremonti sia in grado di garantire all'Italia un tasso di crescita sostenuto e soddisfare le aspettative delle «categorie di riferimento». Per questo, rivela Sechi, «negli uffici del partito si stanno ultimando le bozze di due documenti riservati, a esclusiva circolazione interna, che fanno un punto-nave politico e cercano di dare una risposta economica alle richieste che vengono dalla Confindustria, dal mondo delle imprese e delle partite Iva, dal Viminale e le forze dell'ordine, dalla stessa Banca d'Italia». Leva fiscale e riforma delle pensioni le due idee «fulcro» dei due documenti, certamente «non tremontiani».
Il ministro è convinto, sia per ragioni di bilancio (assolutamente condivisibili), sia per la sua filosofia politica (meno condivisibile), che nella società di oggi la domanda di stabilità e sicurezza sia prevalente su tutte le altre. Ma Tremonti sbaglia a sottovalutare il tema "tasse", che da almeno due secoli non manca di infiammare i popoli di ogni latitudine.
Monday, October 19, 2009
Obama apre anche al Sudan
Ma tra gli obiettivi della nuova strategia americana non viene esclusa l'ipotesi di una divisione del Sudan in due stati.
Su il Velino
Dopo Iran, Corea del Nord e Birmania, gli Stati Uniti cambiano politica anche nei confronti del Sudan. Dall'isolamento al dialogo, come aveva anticipato sabato scorso il New York Times. «Incentivi e pressioni» sulla leadership sudanese sarebbero il modo migliore per tutelare i diritti umani e far cessare le violenze nel Paese. Questa mattina, ad annunciare ufficialmente il cambio di rotta il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton: gli Stati Uniti si impegnano in un «ampio dialogo» con il governo del Sudan. «Abbiamo un menù di incentivi e disincentivi», ha spiegato la Clinton, non specificando quale tipo di misure punitive possano essere prese, visto che il governo sudanese è già soggetto a sanzioni da parte americana.
Il Sudan, ha esordito il segretario di Stato, «è a un importante crocevia, che può sia condurre a sensibili miglioramenti nelle condizioni di vita del popolo sudanese, sia degenerare in un conflitto più violento e nel fallimento statuale. È giunto il momento per gli Stati Uniti di agire con urgenza allo scopo di proteggere i civili e lavorare per una pace definitiva. Un'implosione del Sudan potrebbe provocare la diffusione dell'instabilità regionale e offrire nuovi rifugi per i terroristi internazionali, minacciando in modo significativo gli interessi americani. Gli Stati Uniti hanno un obbligo evidente nei confronti del popolo sudanese - sia nel nostro ruolo di osservatori dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud, sia come come primo Paese che ha inequivocabilmente definito gli eventi nel Darfur un genocidio».
(...) «Se il governo del Sudan agirà per migliorare la situazione sul terreno e promuovere la pace, ci saranno incentivi; altrimenti, una crescente pressione verrà imposta dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale», ha spiegato Obama.
(...)
La valutazione dei progressi e le decisioni riguardanti gli incentivi e i disincentivi, si precisa nel nuovo documento strategico, non saranno basati sui risultati conseguiti «nel processo» - come la firma di un memorandum d'intesa o la concessione di visti - bensì su «cambiamenti verificabili sul terreno». Dev'essere chiaro a tutte le parti, inoltre, che il contributo controterrorismo del Sudan viene apprezzato, ma «non può essere usato come moneta di scambio per eludere le responsabilità in Darfur o nell'attuazione dell'accordo di pace».
La nuova politica di Washington definisce chiaramente tre obiettivi strategici degli Usa riguardo il Sudan, non escludendo che si renda necessario puntare ad una divisione del Paese in due stati: 1) la definitiva cessazione del conflitto, delle violazioni dei diritti umani e del genocidio in Darfur; 2) l'attuazione dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud che porti a un Sudan pacifico dal 2011, oppure un ordinato percorso verso due stati separati e autosufficienti in pace l'uno con l'altro; 3) evitare che il Sudan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi internazionali.
Su il Velino
Dopo Iran, Corea del Nord e Birmania, gli Stati Uniti cambiano politica anche nei confronti del Sudan. Dall'isolamento al dialogo, come aveva anticipato sabato scorso il New York Times. «Incentivi e pressioni» sulla leadership sudanese sarebbero il modo migliore per tutelare i diritti umani e far cessare le violenze nel Paese. Questa mattina, ad annunciare ufficialmente il cambio di rotta il presidente Obama e il segretario di Stato, Hillary Clinton: gli Stati Uniti si impegnano in un «ampio dialogo» con il governo del Sudan. «Abbiamo un menù di incentivi e disincentivi», ha spiegato la Clinton, non specificando quale tipo di misure punitive possano essere prese, visto che il governo sudanese è già soggetto a sanzioni da parte americana.
Il Sudan, ha esordito il segretario di Stato, «è a un importante crocevia, che può sia condurre a sensibili miglioramenti nelle condizioni di vita del popolo sudanese, sia degenerare in un conflitto più violento e nel fallimento statuale. È giunto il momento per gli Stati Uniti di agire con urgenza allo scopo di proteggere i civili e lavorare per una pace definitiva. Un'implosione del Sudan potrebbe provocare la diffusione dell'instabilità regionale e offrire nuovi rifugi per i terroristi internazionali, minacciando in modo significativo gli interessi americani. Gli Stati Uniti hanno un obbligo evidente nei confronti del popolo sudanese - sia nel nostro ruolo di osservatori dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud, sia come come primo Paese che ha inequivocabilmente definito gli eventi nel Darfur un genocidio».
(...) «Se il governo del Sudan agirà per migliorare la situazione sul terreno e promuovere la pace, ci saranno incentivi; altrimenti, una crescente pressione verrà imposta dagli Stati Uniti e dalla comunità internazionale», ha spiegato Obama.
(...)
La valutazione dei progressi e le decisioni riguardanti gli incentivi e i disincentivi, si precisa nel nuovo documento strategico, non saranno basati sui risultati conseguiti «nel processo» - come la firma di un memorandum d'intesa o la concessione di visti - bensì su «cambiamenti verificabili sul terreno». Dev'essere chiaro a tutte le parti, inoltre, che il contributo controterrorismo del Sudan viene apprezzato, ma «non può essere usato come moneta di scambio per eludere le responsabilità in Darfur o nell'attuazione dell'accordo di pace».
La nuova politica di Washington definisce chiaramente tre obiettivi strategici degli Usa riguardo il Sudan, non escludendo che si renda necessario puntare ad una divisione del Paese in due stati: 1) la definitiva cessazione del conflitto, delle violazioni dei diritti umani e del genocidio in Darfur; 2) l'attuazione dell'Accordo di pace complessivo tra Nord e Sud che porti a un Sudan pacifico dal 2011, oppure un ordinato percorso verso due stati separati e autosufficienti in pace l'uno con l'altro; 3) evitare che il Sudan diventi di nuovo un rifugio sicuro per i terroristi internazionali.
Thursday, October 15, 2009
Sì, Blair sì. Magari...
Il "no" di Freedom Land a Tony Blair primo presidente dell'Ue sotto il Trattato di Lisbona (al cui processo di ratifica manca la firma "liberale" del ceco Vaclav Klaus) risponde a una pura logica di schieramento (Blair è un «uomo di sinistra»), ma a ben vedere fa a pugni anche con essa. A chi segue da un po' di tempo questo blog non devo spiegare perché il mio sostegno a Blair è più che convinto, ma forse vale la pena richiamare un po' di dati di contesto.
Le probabilità di veder diventare Blair presidente del Consiglio europeo non sono molte. Purtroppo. Sarà difficile, come ha spiegato di recente anche il ministro Frattini, perché le resistenze sono molte e nessuno ha voglia di spaccare il Consiglio proprio alla prima elezione, eleggendo un presidente "debole". Blair rappresenta una sinistra così «alla moda e user friendly» che oltre alle perplessità della Merkel, a non volerlo presidente è proprio la sinistra europea. A me pare piuttosto che Blair sia del tutto fuori moda. Soprattutto a sinistra. Sarà un caso?
No, perché Blair con la sinistra prevalente in Europa, rimasta incollata a vecchie pastoie ideologiche del secolo scorso, e quindi incapace di governare i processi socio-economici di oggi, non ha nulla a che fare. Ed è questo che le socialdemocrazie europee non gli perdonano. Di aver saputo rinnovare, e di aver avuto successo nel rinnovamento laddove loro hanno fallito, o non hanno neanche provato. Blair è troppo "liberista", troppo "filoamericano", addirittura "guerrafondaio". Insomma, troppo "di destra". E rappresenta un europeismo più fresco e dinamico, distante da quello "politicamente corretto" e burocratico dominante nel Continente.
Blair sarebbe quindi una scelta coraggiosa proprio perché non alla moda, controcorrente, un po' come la sorprendente vittoria dei liberali nelle elezioni politiche tedesche.
Quali sarebbero, poi, le alternative? L'unica che mi convincerebbe sarebbe Aznar, ma non mi pare che la sua candidatura sia sul tavolo. Né quella di Rasmussen. Le ipotesi che si fanno sono altre, e anche se di centrodestra tutte peggiori di Blair. Come quella del belga Juncker. Da far rabbrividire.
Nella politica europea non si può ragionare solo sulla base del logoro schema destra/sinistra. Bisognerebbe prestare attenzione anche alla nazionalità, e alla cultura politica che ciascun Paese esprime. C'è una gran differenza tra la Gran Bretagna e l'Europa continentale. E tra l'Europa centrale e i Paesi dell'Est. Ignorare queste differenze culturali, che spesso vanno oltre quelle tra destra e sinistra, è un errore. Per esempio: meglio un leader di sinistra liberale britannico o un democristiano tedesco? Meglio un giovane leader dell'Est o un grigio tecnocrate belga?
Non è così improbabile che pescando nel centrodestra europeo tiriamo su una figura dalla cifra statalista e antiamericana. Senza considerare che con Blair presidente eviteremmo di consegnare il ruolo, altrettanto importante, di ministro degli Esteri dell'Ue a un socialista come Frank-Walter Steinmeier o - Dio ce ne scampi - a un comunista come Massimo D'Alema. Per non parlare dell'assoluto bisogno che ha l'Europa di presentarsi agli occhi del mondo con una personalità forte, di peso, e carismatica. Pena l'irrilevanza.
Le probabilità di veder diventare Blair presidente del Consiglio europeo non sono molte. Purtroppo. Sarà difficile, come ha spiegato di recente anche il ministro Frattini, perché le resistenze sono molte e nessuno ha voglia di spaccare il Consiglio proprio alla prima elezione, eleggendo un presidente "debole". Blair rappresenta una sinistra così «alla moda e user friendly» che oltre alle perplessità della Merkel, a non volerlo presidente è proprio la sinistra europea. A me pare piuttosto che Blair sia del tutto fuori moda. Soprattutto a sinistra. Sarà un caso?
No, perché Blair con la sinistra prevalente in Europa, rimasta incollata a vecchie pastoie ideologiche del secolo scorso, e quindi incapace di governare i processi socio-economici di oggi, non ha nulla a che fare. Ed è questo che le socialdemocrazie europee non gli perdonano. Di aver saputo rinnovare, e di aver avuto successo nel rinnovamento laddove loro hanno fallito, o non hanno neanche provato. Blair è troppo "liberista", troppo "filoamericano", addirittura "guerrafondaio". Insomma, troppo "di destra". E rappresenta un europeismo più fresco e dinamico, distante da quello "politicamente corretto" e burocratico dominante nel Continente.
Blair sarebbe quindi una scelta coraggiosa proprio perché non alla moda, controcorrente, un po' come la sorprendente vittoria dei liberali nelle elezioni politiche tedesche.
Quali sarebbero, poi, le alternative? L'unica che mi convincerebbe sarebbe Aznar, ma non mi pare che la sua candidatura sia sul tavolo. Né quella di Rasmussen. Le ipotesi che si fanno sono altre, e anche se di centrodestra tutte peggiori di Blair. Come quella del belga Juncker. Da far rabbrividire.
Nella politica europea non si può ragionare solo sulla base del logoro schema destra/sinistra. Bisognerebbe prestare attenzione anche alla nazionalità, e alla cultura politica che ciascun Paese esprime. C'è una gran differenza tra la Gran Bretagna e l'Europa continentale. E tra l'Europa centrale e i Paesi dell'Est. Ignorare queste differenze culturali, che spesso vanno oltre quelle tra destra e sinistra, è un errore. Per esempio: meglio un leader di sinistra liberale britannico o un democristiano tedesco? Meglio un giovane leader dell'Est o un grigio tecnocrate belga?
Non è così improbabile che pescando nel centrodestra europeo tiriamo su una figura dalla cifra statalista e antiamericana. Senza considerare che con Blair presidente eviteremmo di consegnare il ruolo, altrettanto importante, di ministro degli Esteri dell'Ue a un socialista come Frank-Walter Steinmeier o - Dio ce ne scampi - a un comunista come Massimo D'Alema. Per non parlare dell'assoluto bisogno che ha l'Europa di presentarsi agli occhi del mondo con una personalità forte, di peso, e carismatica. Pena l'irrilevanza.
Wednesday, October 14, 2009
Avvocato dell'accusa no, ma che almeno sia separazione vera
Separazione delle carriere sì, pm sottoposti «ad altri poteri (leggi: l'Esecutivo) se non a quello dell'ordine giudiziario», no. Quella del presidente della Camera Fini sembra però una preoccupazione infondata. Come infatti fa notare Gaetano Pecorella, «non c'è e non c'è mai stato nel programma del Pdl, e prima in quello di Forza Italia e An, una proposta di legge per mettere il pm sotto il controllo dell'Esecutivo». Ha ragione Pecorella. Purtroppo, aggiungo io, perché non avremo mai l'"avvocato dell'accusa" di cui spesso parla Berlusconi. Ci sono due modi di intendere la separazione delle carriere, infatti. I pm funzionari, "avvocati" dello Stato, che dipendono direttamente dall'Esecutivo, com'è in molti Paesi democratici, anche in ordinamenti di civil law; oppure, i pm distinti dai giudici nelle funzioni, inseriti gerarchicamente in una propria struttura, ma sempre interna all'ordine giudiziario.
Separare le carriere in ogni caso non può significare solo formazione, concorsi, professionalità diverse, e diversi avanzamenti di carriera, o più rigidi compartimenti stagno tra l'una e l'altra funzione. Nonostante nei progetti del Pdl non sia previsto il controllo dell'Esecutivo, il problema del controllo, e del governo, è un tema che bisognerà prima o poi affrontare senza ipocrisia. Fini chiede il rispetto dell'"indipendenza assoluta di tutti i magistrati". Ma lo sono oggi? O forse sono dipendenti dalle loro ideologie e dalle correnti cui appartengono? Quell'"indipendenza assoluta" non si è forse rivelata puro arbitrio? E l'obbligatorietà dell'azione penale un mito, o piuttosto una farsa, che lascia spazio ad una discrezionalità che facilmente diventa politica?
Inutile girarci intorno: indipendenza e imparzialità sono intrinsecamente in contraddizione con il ruolo di accusatore. Il processo accusatorio, al contrario di quello inquisitorio, lo riconosce. E per questo si preoccupa della terzietà del giudice e dei poteri della difesa, piuttosto che della ricerca della "verità", a cui anche la pubblica accusa in teoria dovrebbe contribuire.
La separazione delle carriere, e l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, sono il necessario completamento del processo accusatorio già introdotto nella nostra Costituzione, ma richiedono un apparato organizzativo autonomo della pubblica accusa rispetto a quello dei giudici, anche se interno alla magistratura, con a capo un procuratore nazionale (nominato da chi?) e un organo di autogoverno tutto nuovo. Quindi, si tratterà inevitabilmente di sdoppiare il Csm. Insomma, tra il pm indipendente com'è oggi o sotto le dirette dipendenze dell'Esecutivo, ci sono una serie di varianti che risolvono in modo più sfumato il problema del controllo sui pm. Fini è disposto a far passare una di esse, al di là del sì formale alla separazione delle carriere, oppure è intenzionato ad affossarla come nella legislatura 2001-2006?
Separare le carriere in ogni caso non può significare solo formazione, concorsi, professionalità diverse, e diversi avanzamenti di carriera, o più rigidi compartimenti stagno tra l'una e l'altra funzione. Nonostante nei progetti del Pdl non sia previsto il controllo dell'Esecutivo, il problema del controllo, e del governo, è un tema che bisognerà prima o poi affrontare senza ipocrisia. Fini chiede il rispetto dell'"indipendenza assoluta di tutti i magistrati". Ma lo sono oggi? O forse sono dipendenti dalle loro ideologie e dalle correnti cui appartengono? Quell'"indipendenza assoluta" non si è forse rivelata puro arbitrio? E l'obbligatorietà dell'azione penale un mito, o piuttosto una farsa, che lascia spazio ad una discrezionalità che facilmente diventa politica?
Inutile girarci intorno: indipendenza e imparzialità sono intrinsecamente in contraddizione con il ruolo di accusatore. Il processo accusatorio, al contrario di quello inquisitorio, lo riconosce. E per questo si preoccupa della terzietà del giudice e dei poteri della difesa, piuttosto che della ricerca della "verità", a cui anche la pubblica accusa in teoria dovrebbe contribuire.
La separazione delle carriere, e l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale, sono il necessario completamento del processo accusatorio già introdotto nella nostra Costituzione, ma richiedono un apparato organizzativo autonomo della pubblica accusa rispetto a quello dei giudici, anche se interno alla magistratura, con a capo un procuratore nazionale (nominato da chi?) e un organo di autogoverno tutto nuovo. Quindi, si tratterà inevitabilmente di sdoppiare il Csm. Insomma, tra il pm indipendente com'è oggi o sotto le dirette dipendenze dell'Esecutivo, ci sono una serie di varianti che risolvono in modo più sfumato il problema del controllo sui pm. Fini è disposto a far passare una di esse, al di là del sì formale alla separazione delle carriere, oppure è intenzionato ad affossarla come nella legislatura 2001-2006?
Tuesday, October 13, 2009
Non solo Berlusconi. I guai di Obama e Zapatero con i media
Su il Velino
Il presidente Obama ha qualche problema ad accettare che ci siano dei media che non lo osannano. E' questa l'interpretazione che blog e commentatori di orientamento conservatore danno della "guerra" dichiarata dall'amministrazione Obama alla tv Fox News. «Li tratteremo come un partito d'opposizione, poiché stanno conducendo una guerra contro e non possiamo far finta di pensare che questo sia il comportamento legittimo di un organo d'informazione». No, non è l'ennesimo sfogo del premier Berlusconi contro la Repubblica, né un comunicato di Bonaiuti o Bondi. Sono parole di Anita Dunn, capo uffico stampa della Casa Bianca. Fox News, ha spiegato, «agisce spesso come una divisione di ricerca o di comunicazione del partito repubblicano», o come «un'ala del partito repubblicano» tout court. Niente a che vedere con «il modo in cui si comporta un'onesta azienda giornalistica come la CNN».
(...)
L'accusa rivolta a Fox News di essere in sostanza una "tv-partito" non può che richiamare alla mente di noi italiani l'accusa rivolta a la Repubblica di essere un "giornale-partito". Obama con Fox News come Berlusconi con la Repubblica, dunque? Naturalmente il caso americano presenta alcune notevoli differenze rispetto a quello italiano.
LEGGI TUTTO
Il presidente Obama ha qualche problema ad accettare che ci siano dei media che non lo osannano. E' questa l'interpretazione che blog e commentatori di orientamento conservatore danno della "guerra" dichiarata dall'amministrazione Obama alla tv Fox News. «Li tratteremo come un partito d'opposizione, poiché stanno conducendo una guerra contro e non possiamo far finta di pensare che questo sia il comportamento legittimo di un organo d'informazione». No, non è l'ennesimo sfogo del premier Berlusconi contro la Repubblica, né un comunicato di Bonaiuti o Bondi. Sono parole di Anita Dunn, capo uffico stampa della Casa Bianca. Fox News, ha spiegato, «agisce spesso come una divisione di ricerca o di comunicazione del partito repubblicano», o come «un'ala del partito repubblicano» tout court. Niente a che vedere con «il modo in cui si comporta un'onesta azienda giornalistica come la CNN».
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L'accusa rivolta a Fox News di essere in sostanza una "tv-partito" non può che richiamare alla mente di noi italiani l'accusa rivolta a la Repubblica di essere un "giornale-partito". Obama con Fox News come Berlusconi con la Repubblica, dunque? Naturalmente il caso americano presenta alcune notevoli differenze rispetto a quello italiano.
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Monday, October 12, 2009
Il Lodo Alfano sospendeva, e se la Corte aprisse alla prescrizione?
Se fossero vere le indiscrezioni delle ultime ore riportate dall'Ansa e da la Repubblica, ci troveremmo di fronte al paradosso che il Lodo Alfano avrebbe garantito maggiormente la prosecuzione dei processi nei confronti di Berlusconi rispetto allo scenario che si andrebbe delineando dalla sua bocciatura. Con le sue motivazioni, infatti, la Corte costituzionale potrebbe involontariamente aprire la strada alla prescrizione nei processi in cui siano coinvolte le alte cariche dello Stato o i parlamentari. In pratica, la Consulta non avrebbe accordato una sospensione dei processi per le alte cariche dello Stato, ma richiamandosi alla sua sentenza n. 451 del 2005 sul "caso Previti", raccomanderebbe una programmazione delle udienze, in modo tale da non pregiudicare il sereno svolgimento della loro funzione pubblica da una parte, né il loro inalienabile diritto di difesa.
In quella sentenza i giudici costituzionali scrissero che il giudice ha "l'onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari". Un principio da estendere al caso di alte cariche dello Stato sottoposte a processo penale: i processi a Berlusconi, ad esempio, andrebbero avanti, ma i giudici avrebbero l'obbligo di fissare, d'intesa con il premier, un calendario delle udienze che tenga conto degli impegni istituzionali del presidente del Consiglio, in modo da evitare coincidenze e non comprometterne il diritto di difesa. Ma se consideriamo l'agenda fittissima di un premier, questa sentenza, da sola, spianerebbe la strada alla prescrizione laddove il Lodo Alfano, invece, ne sospendeva i termini per tutta la durata della carica.
Secondo le stesse indiscrezioni, nelle motivazioni la Consulta auspicherebbe una legge sulla programmazione delle udienze nel caso di processi ad alte cariche dello Stato o a parlamentari e sarebbe sufficiente, stavolta, una legge ordinaria, non costituzionale. Ovvio che nelle intenzioni della Corte questa legge dovrebbe anche prevedere il prolungamento dei termini della prescrizione, ma nel frattempo? In assenza di essa, rimane il principio a tutela dello svolgimento della funzione pubblica del premier.
Se queste fossero davvero le indicazioni della Corte, sarebbe sì tutelata la loro funzione pubblica, ma le alte cariche dello Stato non sarebbero protette da iniziative meramente persecutorie e delegittimanti da parte della magistratura politicizzata, un problema costituzionalmente rilevantissimo di cui i giudici della Consulta hanno deciso comunque di lavarsi le mani. Qualsiasi sia l'espediente giuridico escogitato e proposto dalla Consulta, il governo vada avanti nello sciogliere per via costituzionale i diversi nodi gordiani che soffocano la nostra impalcatura istituzionale, per ripristinare quel corretto equilibrio tra i poteri dello Stato interrotto nel 1993, ma che forse non abbiamo mai avuto.
In quella sentenza i giudici costituzionali scrissero che il giudice ha "l'onere di programmare il calendario delle udienze in modo da evitare coincidenze con i giorni di riunione degli organi parlamentari". Un principio da estendere al caso di alte cariche dello Stato sottoposte a processo penale: i processi a Berlusconi, ad esempio, andrebbero avanti, ma i giudici avrebbero l'obbligo di fissare, d'intesa con il premier, un calendario delle udienze che tenga conto degli impegni istituzionali del presidente del Consiglio, in modo da evitare coincidenze e non comprometterne il diritto di difesa. Ma se consideriamo l'agenda fittissima di un premier, questa sentenza, da sola, spianerebbe la strada alla prescrizione laddove il Lodo Alfano, invece, ne sospendeva i termini per tutta la durata della carica.
Secondo le stesse indiscrezioni, nelle motivazioni la Consulta auspicherebbe una legge sulla programmazione delle udienze nel caso di processi ad alte cariche dello Stato o a parlamentari e sarebbe sufficiente, stavolta, una legge ordinaria, non costituzionale. Ovvio che nelle intenzioni della Corte questa legge dovrebbe anche prevedere il prolungamento dei termini della prescrizione, ma nel frattempo? In assenza di essa, rimane il principio a tutela dello svolgimento della funzione pubblica del premier.
Se queste fossero davvero le indicazioni della Corte, sarebbe sì tutelata la loro funzione pubblica, ma le alte cariche dello Stato non sarebbero protette da iniziative meramente persecutorie e delegittimanti da parte della magistratura politicizzata, un problema costituzionalmente rilevantissimo di cui i giudici della Consulta hanno deciso comunque di lavarsi le mani. Qualsiasi sia l'espediente giuridico escogitato e proposto dalla Consulta, il governo vada avanti nello sciogliere per via costituzionale i diversi nodi gordiani che soffocano la nostra impalcatura istituzionale, per ripristinare quel corretto equilibrio tra i poteri dello Stato interrotto nel 1993, ma che forse non abbiamo mai avuto.
Burqa, la normativa vigente non lo vieta affatto
Su il Velino
Di un intervento legislativo, se si vuole impedire che burqa e niqab siano indossati in pubblico, c'è bisogno, perché la normativa vigente sull'identificazione - la legge 152/1975, a cui spesso si fa riferimento - non vieta affatto di indossarli.
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Di un intervento legislativo, se si vuole impedire che burqa e niqab siano indossati in pubblico, c'è bisogno, perché la normativa vigente sull'identificazione - la legge 152/1975, a cui spesso si fa riferimento - non vieta affatto di indossarli.
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Università, serve tabula rasa
Ecco perché il sistema universitario italiano va smontato e rimontato, e perché all'autonomia deve corrispondere vera responsabilità. Da rappresentante in Consiglio di Facoltà sono stato testimone dell'introduzione del sistema dei crediti e della volontà, da parte dei docenti chiamati ad attuarlo, di sabotarlo e interpretarlo comunque in modo clientelare e parassitario. Qualsiasi riforma catapultata all'interno di questo sistema, anche la migliore possibile, è destinata alla medesima sorte, perché il problema è altrove. Così come ogni centesimo in più gettato nel calderone nella migliore delle ipotesi è spreco, nella peggiore va a rafforzare le posizioni di rendita che bisognerebbe estirpare.
Per farla breve: il sistema non è riformabile. Bisogna fare tabula rasa, intervenire in modo più radicale, sull'assetto proprietario e finanziario degli atenei e, quindi, modificando lo status giuridico dei docenti. In soldoni: l'autonomia funziona solo se chi ne beneficia - passatemi il termine - rischia il culo.
Per farla breve: il sistema non è riformabile. Bisogna fare tabula rasa, intervenire in modo più radicale, sull'assetto proprietario e finanziario degli atenei e, quindi, modificando lo status giuridico dei docenti. In soldoni: l'autonomia funziona solo se chi ne beneficia - passatemi il termine - rischia il culo.
Friday, October 09, 2009
Un Nobel alle buone intenzioni
Se bastassero le buone intenzioni...
Dopo lo schiaffo della bocciatura di Chicago come sede dei Giochi olimpici 2016, il presidente Obama ha un buon motivo per consolarsi: nove mesi di presidenza sono bastati per vedersi attribuire il Premio Nobel per la Pace. A Gandhi non bastarono cinque nomination. La notizia ha colto tutti di sorpresa. Al di là del consenso e delle grandi aspettative suscitati, anche ai più benevoli e ottimisti la decisione del Comitato per il Nobel è apparsa prematura, se non «ridicola». In Rete le battute si sprecano: «Santo subito!», il primo Nobel «preventivo», «di incoraggiamento», «sulla fiducia» o «sulla parola». Scetticismo anche tra i commentatori: un Nobel «alla speranza», al «grande comunicatore». «Più che un premio, un augurio», una «cambiale in bianco».
L'impressione è che con questa scelta il Comitato abbia toccato la vetta della demagogia a cui pure ci aveva già abituati da tempo. Dopo il terrorista Arafat e l'ambientalista Al Gore, l'ennesimo colpo di teatro, grottesco e patetico, frutto del pregiudizio ideologico. Obama non ha ancora fatto nulla, non foss'altro perché è in carica da nove mesi scarsi. Non ha chiuso Guantanamo; non ha ritirato un sol uomo dall'Iraq; ha raddoppiato il contingente Usa in Afghanistan e sta considerando l'invio di altri 40 mila soldati; nel frattempo, ha intensificato i bombardamenti con i droni al confine con il Pakistan. Sta muovendo i primi passi di un dialogo con l'Iran dall'esito del tutto incerto. Magari i nordcoreani rinunceranno all'atomica e i generali birmani libereranno Aung San Suu Kyi, chi vivrà vedrà. Il processo di pace tra israeliani e palestinesi è ancora impantanato.
Obama non è il primo presidente americano ad essere insignito del Nobel per la Pace, ma è il primo a vincerlo senza aver fatto ancora nulla. Il presidente Theodore Roosevelt ricevette il premio nel 1906, dopo cinque anni di mandato, e aver contribuito alla pace tra Russia e Giappone. Nel 1919, Woodrow Wilson, da sei anni in carica, per la pace e la nuova architettura mondiale uscita dalla Conferenza di Versailles, dopo la I Guerra Mondiale. Più controverso il Nobel all'ex presidente Jimmy Carter, nel 2002, che però era pur sempre stato l'artefice degli accordi di Camp David che portarono alla pace tra Israele ed Egitto. Obama è stato premiato solo per aver «catturato l'attenzione del mondo e dato alla sua gente la speranza per un futuro migliore» – qualcosa che potrebbe rivendicare anche Ahmadinejad – e «per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli». E' vero che non sempre il premio è arrivato come riconoscimento di un risultato conseguito. Ma quando si sono voluti premiare gli «sforzi», si è trattato di personalità che da anni, se non per tutta una vita, si erano battuti per la causa della pace e dei diritti umani.
Tra i 205 candidati non mancava chi avesse le carte in regola: il medico congolese Denis Mukwege, fondatore dell'ospedale Panzi, che durante 12 anni di guerra ha salvato oltre 20mila donne dalle violenze delle milizie; la dottoressa Sima Samar, che difende i diritti umani in Afghanistan; il dissidente cinese Hu Jia; il primo ministro dello Zimbabwe Morgan Tsvangirai; il monaco e dissidente vietnamita Tchich Quang Do; l'avvocatessa cecena Lidia Iussupova. Per statuto il Nobel non può essere concesso a persone decedute, il che esclude purtroppo Anna Politkovskaja. Le candidature, inoltre, devono essere presentate entro febbraio, quindi niente da fare per l'Onda verde dei manifestanti di Teheran, né per la presidente del Congresso mondiale degli uiguri, Rebiya Kadeer, che da una vita, come il Dalai Lama, cerca di instaurare il dialogo con Pechino. Speriamo che a Oslo se ne ricordino per il prossimo anno, anche se per il 2009 si sono scordati dei monaci buddisti che lo scorso anno manifestarono pacificamente in Birmania, venendo brutalmente repressi, o dei promotori di Charta '08, il manifesto per la democrazia e il rispetto dei diritti umani in Cina.
Tra qualche anno, o mese, quando il presidente Usa (e il mondo) sarà di nuovo assalito dalla realtà, il Nobel si potrebbe ritorcere contro lo stesso Obama, suscitando delusione e ironie per scelte che potrebbero contraddire le attese. Forse avrebbe fatto miglior figura declinando e chiedendo di essere riconsiderato fra tre o quattro anni.
UPDATE: anche stampa e commentatori Usa di sinistra "stupiti"
Una decisione «assurda», e «motivo di imbarazzo per il presidente stesso», avverte il britannico The Times nella pagina dei commenti. E infatti è lo stesso presidente Obama a reagire con evidente imbarazzo alla notizia. Si dice «onorato», anche se, confessa, «ad essere onesto non sono sicuro di meritarlo». E dichiara di accettare il premio «come invito all'azione», «non per i risultati ma per gli ideali». «Non è il primo di aprile, vero?», si lascia scappare un membro dello staff della Casa Bianca. L'annuncio, scrive anche il New York Times, ha «stupito», tutti dalla Norvegia alla Casa Bianca. Anche tra i commentatori di sinistra e tra i simpatizzanti di Obama c'è incredulità e non manca chi ritiene la decisione di insignire il presidente Usa del Nobel per la Pace prematura, se non «ridicola».
Come Ruth Marcus, editorialista del Washington Post: «Ridicolo, persino imbarazzante», scrive. «Ammiro il presidente Obama, mi piace, l'ho votato. Ma non è mancanza di rispetto far notare che non ha ancora fatto molto. Certamente non abbastanza da giustificare il premio». Così David Ignatius, anch'egli autorevole editorialista del WP, che definisce la decisione «goffa»: «Anche se sei un fan di Obama, devi ammettere che non ha fatto molto come peacemaker». «Ha vinto, ma per che cosa?», si chiede Jennifer Loven, capo corrispondente dell'AP alla Casa Bianca. Anche su The Huffington Post, uno dei blog di sinistra più celebri e seguiti, c'è chi, come Michael Russnow, reagisce con incredulità e disappunto. «Mi piace Obama, ma questa è una farsa. Non ha fatto nulla per meritarsi il premio», riconosce Peter Beinart, editorialista di The New Republic e studioso del Council on Foreign Relations. Per Mickey Kaus, su Slate, Obama dovrebbe «cortesemente declinare» e spiegare che «è onorato ma che non ha avuto ancora il tempo di realizzare ciò che vorrebbe». Per il blogger di sinistra Glenn Greenwald, su Salon, il Nobel a Obama è «incredibilmente e di tutta evidenza ridicolo».
Prevale il sarcasmo invece tra i commentatori conservatori, che da tempo hanno smesso di prendere sul serio questo tipo di premi. «Il nuovo re del pop accetta il premio Nobel», scrive Greg Hengler. Hugh Hewitt si congratula con il presidente, ma «adesso - gli chiede - usi il momento per salvare il popolo afghano dai talebani e il mondo dai fanatici iraniani». Bill Kristol, direttore del Weekly Standards, si chiede se Obama non sia il «Gorbachev del Liberalismo»: «Non intendo comparare Obama a Gorbachev, che fu, nonostante i suoi fallimenti, una figura davvero storica e coraggiosa». Ma poniamo, ipotizza Kristol, che «tra un anno i Democratici subiscano una dura sconfitta elettorale, e che il Nuovo Liberalismo prenda la via del riformismo comunista. E che, all'inizio del 2013, Obama si ritrovi molto tempo a disposizione per intrattenersi con Gorbachev nel circuito delle celebrità internazionali».
Dopo lo schiaffo della bocciatura di Chicago come sede dei Giochi olimpici 2016, il presidente Obama ha un buon motivo per consolarsi: nove mesi di presidenza sono bastati per vedersi attribuire il Premio Nobel per la Pace. A Gandhi non bastarono cinque nomination. La notizia ha colto tutti di sorpresa. Al di là del consenso e delle grandi aspettative suscitati, anche ai più benevoli e ottimisti la decisione del Comitato per il Nobel è apparsa prematura, se non «ridicola». In Rete le battute si sprecano: «Santo subito!», il primo Nobel «preventivo», «di incoraggiamento», «sulla fiducia» o «sulla parola». Scetticismo anche tra i commentatori: un Nobel «alla speranza», al «grande comunicatore». «Più che un premio, un augurio», una «cambiale in bianco».
L'impressione è che con questa scelta il Comitato abbia toccato la vetta della demagogia a cui pure ci aveva già abituati da tempo. Dopo il terrorista Arafat e l'ambientalista Al Gore, l'ennesimo colpo di teatro, grottesco e patetico, frutto del pregiudizio ideologico. Obama non ha ancora fatto nulla, non foss'altro perché è in carica da nove mesi scarsi. Non ha chiuso Guantanamo; non ha ritirato un sol uomo dall'Iraq; ha raddoppiato il contingente Usa in Afghanistan e sta considerando l'invio di altri 40 mila soldati; nel frattempo, ha intensificato i bombardamenti con i droni al confine con il Pakistan. Sta muovendo i primi passi di un dialogo con l'Iran dall'esito del tutto incerto. Magari i nordcoreani rinunceranno all'atomica e i generali birmani libereranno Aung San Suu Kyi, chi vivrà vedrà. Il processo di pace tra israeliani e palestinesi è ancora impantanato.
Obama non è il primo presidente americano ad essere insignito del Nobel per la Pace, ma è il primo a vincerlo senza aver fatto ancora nulla. Il presidente Theodore Roosevelt ricevette il premio nel 1906, dopo cinque anni di mandato, e aver contribuito alla pace tra Russia e Giappone. Nel 1919, Woodrow Wilson, da sei anni in carica, per la pace e la nuova architettura mondiale uscita dalla Conferenza di Versailles, dopo la I Guerra Mondiale. Più controverso il Nobel all'ex presidente Jimmy Carter, nel 2002, che però era pur sempre stato l'artefice degli accordi di Camp David che portarono alla pace tra Israele ed Egitto. Obama è stato premiato solo per aver «catturato l'attenzione del mondo e dato alla sua gente la speranza per un futuro migliore» – qualcosa che potrebbe rivendicare anche Ahmadinejad – e «per i suoi straordinari sforzi per rafforzare la diplomazia internazionale e la collaborazione tra i popoli». E' vero che non sempre il premio è arrivato come riconoscimento di un risultato conseguito. Ma quando si sono voluti premiare gli «sforzi», si è trattato di personalità che da anni, se non per tutta una vita, si erano battuti per la causa della pace e dei diritti umani.
Tra i 205 candidati non mancava chi avesse le carte in regola: il medico congolese Denis Mukwege, fondatore dell'ospedale Panzi, che durante 12 anni di guerra ha salvato oltre 20mila donne dalle violenze delle milizie; la dottoressa Sima Samar, che difende i diritti umani in Afghanistan; il dissidente cinese Hu Jia; il primo ministro dello Zimbabwe Morgan Tsvangirai; il monaco e dissidente vietnamita Tchich Quang Do; l'avvocatessa cecena Lidia Iussupova. Per statuto il Nobel non può essere concesso a persone decedute, il che esclude purtroppo Anna Politkovskaja. Le candidature, inoltre, devono essere presentate entro febbraio, quindi niente da fare per l'Onda verde dei manifestanti di Teheran, né per la presidente del Congresso mondiale degli uiguri, Rebiya Kadeer, che da una vita, come il Dalai Lama, cerca di instaurare il dialogo con Pechino. Speriamo che a Oslo se ne ricordino per il prossimo anno, anche se per il 2009 si sono scordati dei monaci buddisti che lo scorso anno manifestarono pacificamente in Birmania, venendo brutalmente repressi, o dei promotori di Charta '08, il manifesto per la democrazia e il rispetto dei diritti umani in Cina.
Tra qualche anno, o mese, quando il presidente Usa (e il mondo) sarà di nuovo assalito dalla realtà, il Nobel si potrebbe ritorcere contro lo stesso Obama, suscitando delusione e ironie per scelte che potrebbero contraddire le attese. Forse avrebbe fatto miglior figura declinando e chiedendo di essere riconsiderato fra tre o quattro anni.
UPDATE: anche stampa e commentatori Usa di sinistra "stupiti"
Una decisione «assurda», e «motivo di imbarazzo per il presidente stesso», avverte il britannico The Times nella pagina dei commenti. E infatti è lo stesso presidente Obama a reagire con evidente imbarazzo alla notizia. Si dice «onorato», anche se, confessa, «ad essere onesto non sono sicuro di meritarlo». E dichiara di accettare il premio «come invito all'azione», «non per i risultati ma per gli ideali». «Non è il primo di aprile, vero?», si lascia scappare un membro dello staff della Casa Bianca. L'annuncio, scrive anche il New York Times, ha «stupito», tutti dalla Norvegia alla Casa Bianca. Anche tra i commentatori di sinistra e tra i simpatizzanti di Obama c'è incredulità e non manca chi ritiene la decisione di insignire il presidente Usa del Nobel per la Pace prematura, se non «ridicola».
Come Ruth Marcus, editorialista del Washington Post: «Ridicolo, persino imbarazzante», scrive. «Ammiro il presidente Obama, mi piace, l'ho votato. Ma non è mancanza di rispetto far notare che non ha ancora fatto molto. Certamente non abbastanza da giustificare il premio». Così David Ignatius, anch'egli autorevole editorialista del WP, che definisce la decisione «goffa»: «Anche se sei un fan di Obama, devi ammettere che non ha fatto molto come peacemaker». «Ha vinto, ma per che cosa?», si chiede Jennifer Loven, capo corrispondente dell'AP alla Casa Bianca. Anche su The Huffington Post, uno dei blog di sinistra più celebri e seguiti, c'è chi, come Michael Russnow, reagisce con incredulità e disappunto. «Mi piace Obama, ma questa è una farsa. Non ha fatto nulla per meritarsi il premio», riconosce Peter Beinart, editorialista di The New Republic e studioso del Council on Foreign Relations. Per Mickey Kaus, su Slate, Obama dovrebbe «cortesemente declinare» e spiegare che «è onorato ma che non ha avuto ancora il tempo di realizzare ciò che vorrebbe». Per il blogger di sinistra Glenn Greenwald, su Salon, il Nobel a Obama è «incredibilmente e di tutta evidenza ridicolo».
Prevale il sarcasmo invece tra i commentatori conservatori, che da tempo hanno smesso di prendere sul serio questo tipo di premi. «Il nuovo re del pop accetta il premio Nobel», scrive Greg Hengler. Hugh Hewitt si congratula con il presidente, ma «adesso - gli chiede - usi il momento per salvare il popolo afghano dai talebani e il mondo dai fanatici iraniani». Bill Kristol, direttore del Weekly Standards, si chiede se Obama non sia il «Gorbachev del Liberalismo»: «Non intendo comparare Obama a Gorbachev, che fu, nonostante i suoi fallimenti, una figura davvero storica e coraggiosa». Ma poniamo, ipotizza Kristol, che «tra un anno i Democratici subiscano una dura sconfitta elettorale, e che il Nuovo Liberalismo prenda la via del riformismo comunista. E che, all'inizio del 2013, Obama si ritrovi molto tempo a disposizione per intrattenersi con Gorbachev nel circuito delle celebrità internazionali».
Thursday, October 08, 2009
Sonoro schiaffo a Napolitano
Grandi fiumi di ipocrisia attraversano stamattina i principali quotidiani. Il riferimento di Berlusconi alla "moral suasion" che Napolitano gli avrebbe assicurato di esercitare sui giudici della Consulta, per evitare la bocciatura del Lodo, ha dato scandalo. Quanti sepolcri imbiancati! Quante finte verginelle! E' al di fuori delle competenze del presidente della Repubblica, ci spiegano. Grazie, questo tutti lo sappiamo. Chiamiamola "moral suasion", chiamiamoli contatti o pressioni, rapporti d'amicizia e di stima, come volete, ma che i presidenti - tutti i presidenti - e non solo loro naturalmente, ma tutti quanti sono nella posizione di poterselo permettere, cercano di influenzare i giudici alla vigilia di una decisione politicamente così importante, mi sembra più che verosimile. Non si dovrebbe fare, ma si fa, ed è responsabilità dei giudici costituzionali - che non vivono sotto una campana di vetro - tutelare la loro indipendenza e credibilità.
E' ingenuo pensare che non ci siano state pressioni di ogni tipo, e le aveva già denunciate mesi fa Vaccarella dimettendosi. Oggi, tra l'altro, sul Corriere ricorda come nel 2004 i giudici avessero escluso del tutto che il problema del Lodo Schifani riguardasse l'art. 138, cioè l'obbligo di una legge di modifica costituzionale.
Piuttosto, Berlusconi dovrebbe chiedersi se Napolitano non abbia affatto esercitato la "moral suasion" promessa, o se invece l'abbia effettivamente esercitata, ma non sia servita a nulla. Credo sia più verosimile la seconda ipotesi, avendo Napolitano messo la sua firma sul Lodo Alfano, e non credo sia una questione da poco, ma non si può neanche escludere che, come scrive Sechi, il presidente abbia "tentennato". Non credo in ogni caso che convenga a Berlusconi prendersela con il capo dello Stato, "preso in giro" anche lui dal gioco delle tre carte della Consulta. Dal suo comunicato di ieri sera Napolitano, pur con il suo stile garbato, faceva trapelare tutta la sua sorpresa per un imprevedibile capovolgimento di indirizzo da parte della Consulta: «È da ricordare che, al momento della promulgazione della legge in questione, si era rilevato - come si evince dalla nota diramata il 23 luglio 2008 - che la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, a cui in quella fase si faceva riferimento, non aveva sancito che la norma di sospensione del processo dovesse essere adottata con legge costituzionale». Una dichiarazione di cui Berlusconi poteva facilmente farsi forte per sollevare dubbi sulla correttezza della condotta della Corte.
Si dice e si scrive che sono decine le leggi che durante il settennato un capo dello Stato si trova a promulgare vedendosele poi bocciare dalla Corte costituzionale. Non per questo viene meno la sua credibilità come organo di garanzia deputato al primo, superficiale vaglio di costituzionalità delle leggi. Verissimo, ma quante così politicamente rilevanti come il Lodo Alfano? Qui non si tratta di un conflitto di competenze tra stato e regioni, o di un articolo del codice di procedura civile, ma in sostanza di decidere se il capo del governo può essere perseguito penalmente durante il suo mandato, come tutti i normali cittadini, oppure no. Una questione, comunque la si pensi, centrale in uno stato di diritto e per l'equilibrio tra i poteri dello Stato.
E' per questo che la firma apposta sul Lodo ha un valore politico diverso dalle altre firme, il capo dello Stato vi ha investito una quota infinitamente maggiore della sua credibilità come organo di garanzia. Ed è per questo che la bocciatura da parte della Corte suona come un sonoro schiaffo allo stesso Napolitano. Uno schiaffo la cui rilevanza oggi si tenta di sminuire, ma Berlusconi ci ha messo del suo. Con il suo sfogo, pur comprensibile, contro il capo dello Stato, non ha fatto altro che indurre la stampa, le istituzioni e la politica a fare quadrato attorno al presidente Napolitano. Se si fosse trattenuto, oggi si sarebbe parlato di più dello schiaffo della Consulta a Napolitano, e la sentenza sarebbe apparsa più debole.
E' ingenuo pensare che non ci siano state pressioni di ogni tipo, e le aveva già denunciate mesi fa Vaccarella dimettendosi. Oggi, tra l'altro, sul Corriere ricorda come nel 2004 i giudici avessero escluso del tutto che il problema del Lodo Schifani riguardasse l'art. 138, cioè l'obbligo di una legge di modifica costituzionale.
Piuttosto, Berlusconi dovrebbe chiedersi se Napolitano non abbia affatto esercitato la "moral suasion" promessa, o se invece l'abbia effettivamente esercitata, ma non sia servita a nulla. Credo sia più verosimile la seconda ipotesi, avendo Napolitano messo la sua firma sul Lodo Alfano, e non credo sia una questione da poco, ma non si può neanche escludere che, come scrive Sechi, il presidente abbia "tentennato". Non credo in ogni caso che convenga a Berlusconi prendersela con il capo dello Stato, "preso in giro" anche lui dal gioco delle tre carte della Consulta. Dal suo comunicato di ieri sera Napolitano, pur con il suo stile garbato, faceva trapelare tutta la sua sorpresa per un imprevedibile capovolgimento di indirizzo da parte della Consulta: «È da ricordare che, al momento della promulgazione della legge in questione, si era rilevato - come si evince dalla nota diramata il 23 luglio 2008 - che la sentenza della Corte costituzionale n. 24 del 2004, a cui in quella fase si faceva riferimento, non aveva sancito che la norma di sospensione del processo dovesse essere adottata con legge costituzionale». Una dichiarazione di cui Berlusconi poteva facilmente farsi forte per sollevare dubbi sulla correttezza della condotta della Corte.
Si dice e si scrive che sono decine le leggi che durante il settennato un capo dello Stato si trova a promulgare vedendosele poi bocciare dalla Corte costituzionale. Non per questo viene meno la sua credibilità come organo di garanzia deputato al primo, superficiale vaglio di costituzionalità delle leggi. Verissimo, ma quante così politicamente rilevanti come il Lodo Alfano? Qui non si tratta di un conflitto di competenze tra stato e regioni, o di un articolo del codice di procedura civile, ma in sostanza di decidere se il capo del governo può essere perseguito penalmente durante il suo mandato, come tutti i normali cittadini, oppure no. Una questione, comunque la si pensi, centrale in uno stato di diritto e per l'equilibrio tra i poteri dello Stato.
E' per questo che la firma apposta sul Lodo ha un valore politico diverso dalle altre firme, il capo dello Stato vi ha investito una quota infinitamente maggiore della sua credibilità come organo di garanzia. Ed è per questo che la bocciatura da parte della Corte suona come un sonoro schiaffo allo stesso Napolitano. Uno schiaffo la cui rilevanza oggi si tenta di sminuire, ma Berlusconi ci ha messo del suo. Con il suo sfogo, pur comprensibile, contro il capo dello Stato, non ha fatto altro che indurre la stampa, le istituzioni e la politica a fare quadrato attorno al presidente Napolitano. Se si fosse trattenuto, oggi si sarebbe parlato di più dello schiaffo della Consulta a Napolitano, e la sentenza sarebbe apparsa più debole.
Wednesday, October 07, 2009
Il Consiglio dei guardiani ha colpito ancora
Siamo in Iran! Il Consiglio dei guardiani ha colpito ancora. La Suprema corte dell'incertezza del diritto ha avuto persino il coraggio di smentire se stessa nella sentenza di soli 5 anni fa! Schiaffo anche al presidente Napolitano, che firmò la legge nella convizione che superasse i motivi di incostituzionalità sollevati dalla Corte nella sentenza del 2004 che dichiarava illegittimo il Lodo Schifani. Il legislatore aveva cercato di adeguarsi a quella sentenza, ma adesso esce fuori che serviva una legge di modifica costituzionale, quando fu proprio la Corte, nel 2004, a dire che non si trattava di una immunità, per la quale si sarebbe dovuto procedere ai sensi dell'art. 138, ma di una sospensione processuale tramite legge ordinaria. Ci attendono mesi di processi e avvisi di garanzia. Questa sentenza è una rampa di lancio per tentativi di vero e proprio golpe attraverso il logoramento e la delegittimazione per via giudiziaria del governo Berlusconi. Dovrebbero dimettersi, smascherando e denunciando la non imparzialità della Corte, i sei giudici in dissenso con la sentenza.
Tutto, comunque, ebbe inizio in quel lontano 28 ottobre 1993, quando la politica rinunciò all'istituto dell'immunità parlamentare, rompendo per sempre gli equilibri tra potere politico e ordine giudiziario. Un equilibrio che era stato garantito, dal 1948 fino ad allora, proprio dall'istituto dell'immunità, voluto dai costituenti, e presente in quasi tutte le democrazie, per evitare che iniziative giudiziarie possano essere utilizzate come arma contro gli avversari politici. Da quel momento in poi, infatti, i magistrati hanno potuto indagare i politici senza dover chiedere l'autorizzazione a procedere della Camera di competenza. Ma in un sistema in cui la magistratura gode di ampia autonomia dal potere esecutivo ed è sostanzialmente "irresponsabile", il semplice avvio di un'inchiesta, che porti o meno a un processo e ad una condanna, per di più considerando i tempi estremamente dilatati della giustizia in Italia, rischia di porre sotto ricatto la politica intera, e addirittura di delegittimare, e portare alla caduta, un governo espressione della volontà popolare.
E' da quel momento, non a caso, che esplodono i conflitti fra politica e magistratura. Conflitti che hanno riguardato per lo più Berlusconi, "sceso in campo" poco dopo, nel 1994, ma non solo lui. E' da quel '93 che la politica, sotto il ricatto della magistratura politicizzata, non riesce né a riformare a fondo l'ordinamento giudiziario, né ad assicurare al Paese le altre riforme e la governabilità di cui avrebbe bisogno.
LEGGI TUTTO
Tutto, comunque, ebbe inizio in quel lontano 28 ottobre 1993, quando la politica rinunciò all'istituto dell'immunità parlamentare, rompendo per sempre gli equilibri tra potere politico e ordine giudiziario. Un equilibrio che era stato garantito, dal 1948 fino ad allora, proprio dall'istituto dell'immunità, voluto dai costituenti, e presente in quasi tutte le democrazie, per evitare che iniziative giudiziarie possano essere utilizzate come arma contro gli avversari politici. Da quel momento in poi, infatti, i magistrati hanno potuto indagare i politici senza dover chiedere l'autorizzazione a procedere della Camera di competenza. Ma in un sistema in cui la magistratura gode di ampia autonomia dal potere esecutivo ed è sostanzialmente "irresponsabile", il semplice avvio di un'inchiesta, che porti o meno a un processo e ad una condanna, per di più considerando i tempi estremamente dilatati della giustizia in Italia, rischia di porre sotto ricatto la politica intera, e addirittura di delegittimare, e portare alla caduta, un governo espressione della volontà popolare.
E' da quel momento, non a caso, che esplodono i conflitti fra politica e magistratura. Conflitti che hanno riguardato per lo più Berlusconi, "sceso in campo" poco dopo, nel 1994, ma non solo lui. E' da quel '93 che la politica, sotto il ricatto della magistratura politicizzata, non riesce né a riformare a fondo l'ordinamento giudiziario, né ad assicurare al Paese le altre riforme e la governabilità di cui avrebbe bisogno.
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Tuesday, October 06, 2009
Ascoltare i generali, i siluri di Kissinger a Biden e Obama
Con tutto il rispetto per il presidente Obama, che si trova di fronte a un autentico dilemma politico, Henry Kissinger un paio di siluri li lancia nell'analisi comparsa venerdì scorso sul sito di Newsweek, e tradotta ieri da La Stampa. Tre le opzioni in Afghanistan: continuare con il dispiegamento attuale, il che significherebbe però abbandonare la strategia proposta da McChrystal e sostenuta da Petraeus e verrebbe interpretato come il «primo passo del ritiro»; diminuire il contingente optando per una ulteriore nuova strategia, quella sostenuta dal vicepresidente Joe Biden; aumentare le truppe con una strategia che si concentri sulla sicurezza della popolazione. Kissinger è favorevole a questa terza soluzione, ma coinvolgendo diplomaticamente «i potenti vicini» dell'Afghanistan.
Con il primo "siluro" Kissinger ridicolizza le tesi del vicepresidente Biden. La nuova strategia che sostiene «ridurrebbe la missione essenzialmente all'antiterrorismo rinunciando all'impegno anti-guerriglia, con l'argomento che l'obiettivo strategico per l'America è impedire che l'Afghanistan torni a essere una base del terrorismo internazionale. Quindi, la sconfitta di Al Qaeda e della jihad sarebbe una priorità dominante». Dal momento che i talebani rappresenterebbero solo una minaccia locale, e non globale. Alla base c'è la convinzione che i talebani e Al Qaeda abbiano diversi interessi strategici. «Un negoziato con loro isolerebbe Al Qaeda e porterebbe alla sua sconfitta, in cambio non verrebbe sfidata la presa dei talebani sul governo del Paese».
E' una teoria che però a Kissinger sembra «troppo contorta»: «Sono stati proprio i talebani a fornire le basi per Al Qaeda. E' improbabile riuscire a separarli precisamente dal punto di vista geografico. Ciò implicherebbe anche la divisione dell'Afghanistan lungo linee funzionali, poiché è altamente improbabile che le azioni civili su cui si basano le nostre politiche possano essere poste in atto in aree controllate dai talebani. Perfino i cosiddetti realisti, come me, riderebbero di una tacita cooperazione degli Usa con i talebani al governo in Afghanistan».
Non ha preso posizione esplicitamente, ma da quanto ha fatto intendere in un'intervista alla CNN di oggi, neanche il segretario alla Difesa, Robert Gates, sembra d'accordo con le tesi di Biden. Per Gates i destini dei talebani e di al Qaeda sono strettamente legati: se i talebani dovessero prendere il controllo di «vaste porzioni» dell'Afghanistan, ciò offrirebbe «maggiore spazio ad al Qaeda per rafforzarsi. Ma ciò che è più importante, dal mio punto di vista, è il messaggio che sarebbe inviato, l'affermazione dell'autorità» della rete di Osama bin Laden. Se «in questo momento i talebani hanno slancio», è «a causa della nostra incapacità e, francamente, a quella dei nostri alleati, a inviare abbastanza truppe in Afghanistan».
Tra l'altro, il disinteresse di Biden per la stabilizzazione e il futuro politico dell'Afghanistan mi ricorda molto l'errore che le amministrazioni Usa fecero dalla fine dell'occupazione sovietica a tutti gli anni '90. Quando fu deciso di aiutare i mujahidin contro i sovietici, una debacle e il conseguente ritiro di questi ultimi (o addirittura la caduta dell'Urss) era ritenuto un esito talmente remoto che non fu predisposto alcun piano politico sull'Afghanistan. L'obiettivo era logorare e contenere i sovietici, mentre l'unico convinto della possibilità di scacciarli era l'allora direttore della Cia Casey. Del destino dell'Afghanistan agli Usa non importava nulla.
Quando, però, ciò che non si riteneva possibile accadde, il futuro assetto dell'Afghanistan avrebbe dovuto interessare eccome gli Usa, che invece fecero l'errore di lasciare campo libero al progetto coltivato per anni dall'ISI, il servizio segreto pakistano. Oggi Biden vorrebbe abbandonare l'Afghanistan al suo destino per una seconda volta, non comprendendo che il Paese è nell'interesse strategico dell'islamismo radicale dagli anni '80.
Il secondo "siluro" di Kissinger è diretto all'indecisione del presidente e alle sue inconfessabili cause: «I responsabili della catena di comando in Afghanistan, ciascuno con qualifiche eccezionali, sono stati tutti nominati dall'amministrazione di Obama. Respingere i loro consigli significherebbe far trionfare la politica interna sulle valutazioni strategiche».
C'è da chiedersi, infine, come mai tra «i potenti vicini» dell'Afghanistan - Pakistan, India, Cina, Russia, Iran - nessuno fino ad ora si sia davvero impegnato per la sua stabilizzazione. Kissinger chiede un impegno diplomatico nei confronti di questi Paesi. Ma se Cina, India e Russia sembrerebbero in effetti avere tutto l'interesse a una sconfitta dell'islamismo radicale (pur avendo anche l'interesse a mantenere il più possibile sotto pressione e bisognosi del proprio aiuto gli Usa e la Nato), lo stesso non si può dire del Pakistan e dell'Iran.
Con il primo "siluro" Kissinger ridicolizza le tesi del vicepresidente Biden. La nuova strategia che sostiene «ridurrebbe la missione essenzialmente all'antiterrorismo rinunciando all'impegno anti-guerriglia, con l'argomento che l'obiettivo strategico per l'America è impedire che l'Afghanistan torni a essere una base del terrorismo internazionale. Quindi, la sconfitta di Al Qaeda e della jihad sarebbe una priorità dominante». Dal momento che i talebani rappresenterebbero solo una minaccia locale, e non globale. Alla base c'è la convinzione che i talebani e Al Qaeda abbiano diversi interessi strategici. «Un negoziato con loro isolerebbe Al Qaeda e porterebbe alla sua sconfitta, in cambio non verrebbe sfidata la presa dei talebani sul governo del Paese».
E' una teoria che però a Kissinger sembra «troppo contorta»: «Sono stati proprio i talebani a fornire le basi per Al Qaeda. E' improbabile riuscire a separarli precisamente dal punto di vista geografico. Ciò implicherebbe anche la divisione dell'Afghanistan lungo linee funzionali, poiché è altamente improbabile che le azioni civili su cui si basano le nostre politiche possano essere poste in atto in aree controllate dai talebani. Perfino i cosiddetti realisti, come me, riderebbero di una tacita cooperazione degli Usa con i talebani al governo in Afghanistan».
Non ha preso posizione esplicitamente, ma da quanto ha fatto intendere in un'intervista alla CNN di oggi, neanche il segretario alla Difesa, Robert Gates, sembra d'accordo con le tesi di Biden. Per Gates i destini dei talebani e di al Qaeda sono strettamente legati: se i talebani dovessero prendere il controllo di «vaste porzioni» dell'Afghanistan, ciò offrirebbe «maggiore spazio ad al Qaeda per rafforzarsi. Ma ciò che è più importante, dal mio punto di vista, è il messaggio che sarebbe inviato, l'affermazione dell'autorità» della rete di Osama bin Laden. Se «in questo momento i talebani hanno slancio», è «a causa della nostra incapacità e, francamente, a quella dei nostri alleati, a inviare abbastanza truppe in Afghanistan».
Tra l'altro, il disinteresse di Biden per la stabilizzazione e il futuro politico dell'Afghanistan mi ricorda molto l'errore che le amministrazioni Usa fecero dalla fine dell'occupazione sovietica a tutti gli anni '90. Quando fu deciso di aiutare i mujahidin contro i sovietici, una debacle e il conseguente ritiro di questi ultimi (o addirittura la caduta dell'Urss) era ritenuto un esito talmente remoto che non fu predisposto alcun piano politico sull'Afghanistan. L'obiettivo era logorare e contenere i sovietici, mentre l'unico convinto della possibilità di scacciarli era l'allora direttore della Cia Casey. Del destino dell'Afghanistan agli Usa non importava nulla.
Quando, però, ciò che non si riteneva possibile accadde, il futuro assetto dell'Afghanistan avrebbe dovuto interessare eccome gli Usa, che invece fecero l'errore di lasciare campo libero al progetto coltivato per anni dall'ISI, il servizio segreto pakistano. Oggi Biden vorrebbe abbandonare l'Afghanistan al suo destino per una seconda volta, non comprendendo che il Paese è nell'interesse strategico dell'islamismo radicale dagli anni '80.
Il secondo "siluro" di Kissinger è diretto all'indecisione del presidente e alle sue inconfessabili cause: «I responsabili della catena di comando in Afghanistan, ciascuno con qualifiche eccezionali, sono stati tutti nominati dall'amministrazione di Obama. Respingere i loro consigli significherebbe far trionfare la politica interna sulle valutazioni strategiche».
C'è da chiedersi, infine, come mai tra «i potenti vicini» dell'Afghanistan - Pakistan, India, Cina, Russia, Iran - nessuno fino ad ora si sia davvero impegnato per la sua stabilizzazione. Kissinger chiede un impegno diplomatico nei confronti di questi Paesi. Ma se Cina, India e Russia sembrerebbero in effetti avere tutto l'interesse a una sconfitta dell'islamismo radicale (pur avendo anche l'interesse a mantenere il più possibile sotto pressione e bisognosi del proprio aiuto gli Usa e la Nato), lo stesso non si può dire del Pakistan e dell'Iran.
Monday, October 05, 2009
Sarà per un'altra volta, Sua Santità
Per la prima volta dal 1991 il Dalai Lama visiterà Washington questa settimana senza incontrare il presidente Usa. Dal 1991 è stato nella capitale americana dieci volte, e ogni volta si è recato anche alla Casa Bianca. Questa volta sarà diverso, perché alla Casa Bianca c'è Barack Obama. Citando "diplomatici, funzionari governativi e altre fonti vicine ai colloqui", il Washington Post rivela che gli Stati Uniti «hanno esercitato pressioni sui rappresentanti tibetani per ottenere il rinvio dell'incontro tra il Dalai Lama e il presidente Obama a dopo il vertice con il presidente cinese Hu Jintao in programma per il prossimo mese». In attesa della nuova data, in pratica la notizia è che Obama non incontrerà il Dalai Lama.
Come detto, sarà la prima volta dal '91 che il Dalai Lama passerà per Washington senza incontrarsi con il presidente americano, dopo che nel 2007, per la prima volta, un presidente in carica, George W. Bush, lo ha incontrato anche pubblicamente, nel corso di una cerimonia in cui ha insignito il leader spirituale tibetano del più alto riconoscimento conferito dal Congresso degli Stati Uniti per meriti civili, la Congressional Gold Medal. La decisione dell'amministrazione Obama fa parte di una più ampia strategia con la Cina definita da alcuni funzionari di «rassicurazione strategica», che prevede un approccio più "soft" sui diritti umani. Nel febbraio scorso era stato annunciato dal segretario di Stato, Hillary Clinton: la difesa dei diritti umani non può «interferire con la crisi economica globale, con la crisi derivante dai cambiamenti climatici, e la crisi in materia di sicurezza».
Tra i temi del vertice Obama-Hu Jintao, i programmi nucleari di Corea del Nord e Iran, mentre l'amministrazione Usa starebbe valutando la possibilità di vendere una nuova "tranche" di armamenti a Taiwan. Con la visita del Dalai Lama sarebbero stati «troppi i fattori irritanti tutti in una volta», osserva una fonte asiatica al WP.
Come detto, sarà la prima volta dal '91 che il Dalai Lama passerà per Washington senza incontrarsi con il presidente americano, dopo che nel 2007, per la prima volta, un presidente in carica, George W. Bush, lo ha incontrato anche pubblicamente, nel corso di una cerimonia in cui ha insignito il leader spirituale tibetano del più alto riconoscimento conferito dal Congresso degli Stati Uniti per meriti civili, la Congressional Gold Medal. La decisione dell'amministrazione Obama fa parte di una più ampia strategia con la Cina definita da alcuni funzionari di «rassicurazione strategica», che prevede un approccio più "soft" sui diritti umani. Nel febbraio scorso era stato annunciato dal segretario di Stato, Hillary Clinton: la difesa dei diritti umani non può «interferire con la crisi economica globale, con la crisi derivante dai cambiamenti climatici, e la crisi in materia di sicurezza».
Tra i temi del vertice Obama-Hu Jintao, i programmi nucleari di Corea del Nord e Iran, mentre l'amministrazione Usa starebbe valutando la possibilità di vendere una nuova "tranche" di armamenti a Taiwan. Con la visita del Dalai Lama sarebbero stati «troppi i fattori irritanti tutti in una volta», osserva una fonte asiatica al WP.
Rinforzi e subito, ascoltare il generale
Aumenta la pressione sul presidente Obama per una rapida decisione sui rinforzi in Afghanistan (dai 30 ai 40 mila soldati in più) chiesti dal generale Stanley McChrystal, comandante della missione. Domenica, intervistato dal programma Face the Nation, in onda sulla CBS, anche il generale Anthony Zinni, ex comandante in capo del CentCom, le cui responsabilità includono l'Afghanistan, ha esortato il presidente a prendere in breve tempo una decisione favorevole, inviando le truppe di cui McChrystal dice di aver bisogno: «Ritengo che dobbiamo fare attenzione a quanto tempo prende» la riflessione di Obama, ha osservato Zinni. «Potrebbe essere interpretata non solo nella regione, ma anche dai nostri alleati, e dal nemico, per insicurezza, per incapacità a prendere una decisione».
«Abbiamo il generale - ha aggiunto Zinni - che è probabilmente il più qualificato che potremmo avere che ci sta dicendo di cosa abbiamo bisogno sul terreno per avere la sicurezza e il tempo che ci vogliono per realizzare le cose "non militari". Non capisco proprio perché ci stiamo interrogando su questa valutazione. Spero che non vada avanti per molto», ha spiegato al programma della CBS. Zinni, noto per la sua opposizione all'invasione dell'Iraq e per le sue taglienti critiche in passato nei confronti dei neoconservatori, non è facilmente collocabile politicamente.
E nei giorni scorsi un'altra autorevole voce si è aggiunta a quella di McChrystal nel sottolineare l'esigenza di più truppe in Afghanistan. Il generale David Richards, dallo scorso agosto comandante in capo delle forze armate britanniche, ha dichiarato al Sunday Telegraph che una forza Nato con un maggior numero di soldati renderebbe più semplice sconfiggere i talebani e raggiungere gli obiettivi della comunità internazionale: «Se si dispiegano più truppe sarà possibile raggiungere gli obiettivi che ci sono stati chiesti con maggior rapidità e meno perdite».
L'obiettivo più importante nella strategia controinsurrezionale è «vincere la battaglia psicologica», ha spiegato il generale Richards: «Abbiamo bisogno di dimostrare che noi, la Nato e il governo afghano, offriamo un futuro molto più luminoso che è inoltre più sicuro, con posti di lavoro e migliore istruzione e migliore assistenza sanitaria». Una sconfitta della Nato avrebbe un «effetto inebriante» sugli estremisti, ha avvertito, con «immense» implicazioni geostrategiche. «Se al Qaeda e i talebani ritenessero di averci sconfitto, che cosa accadrebbe dopo? Si limiterebbero all'Afghanistan?», si è chiesto il capo delle forze armate britanniche.
All'interno dell'amministrazione Obama il fronte di chi si oppone all'invio di ulteriori rinforzi è guidato dal vicepresidente Joe Biden, il quale sostiene sia meglio concentrare gli sforzi nel colpire al Qaeda nelle regioni al confine tra Pakistan e Afghanistan, usando droni e corpi speciali. Una diversa strategia che si basa sulla convinzione che i talebani e al Qaeda non avrebbero gli stessi interessi strategici.
«Abbiamo il generale - ha aggiunto Zinni - che è probabilmente il più qualificato che potremmo avere che ci sta dicendo di cosa abbiamo bisogno sul terreno per avere la sicurezza e il tempo che ci vogliono per realizzare le cose "non militari". Non capisco proprio perché ci stiamo interrogando su questa valutazione. Spero che non vada avanti per molto», ha spiegato al programma della CBS. Zinni, noto per la sua opposizione all'invasione dell'Iraq e per le sue taglienti critiche in passato nei confronti dei neoconservatori, non è facilmente collocabile politicamente.
E nei giorni scorsi un'altra autorevole voce si è aggiunta a quella di McChrystal nel sottolineare l'esigenza di più truppe in Afghanistan. Il generale David Richards, dallo scorso agosto comandante in capo delle forze armate britanniche, ha dichiarato al Sunday Telegraph che una forza Nato con un maggior numero di soldati renderebbe più semplice sconfiggere i talebani e raggiungere gli obiettivi della comunità internazionale: «Se si dispiegano più truppe sarà possibile raggiungere gli obiettivi che ci sono stati chiesti con maggior rapidità e meno perdite».
L'obiettivo più importante nella strategia controinsurrezionale è «vincere la battaglia psicologica», ha spiegato il generale Richards: «Abbiamo bisogno di dimostrare che noi, la Nato e il governo afghano, offriamo un futuro molto più luminoso che è inoltre più sicuro, con posti di lavoro e migliore istruzione e migliore assistenza sanitaria». Una sconfitta della Nato avrebbe un «effetto inebriante» sugli estremisti, ha avvertito, con «immense» implicazioni geostrategiche. «Se al Qaeda e i talebani ritenessero di averci sconfitto, che cosa accadrebbe dopo? Si limiterebbero all'Afghanistan?», si è chiesto il capo delle forze armate britanniche.
All'interno dell'amministrazione Obama il fronte di chi si oppone all'invio di ulteriori rinforzi è guidato dal vicepresidente Joe Biden, il quale sostiene sia meglio concentrare gli sforzi nel colpire al Qaeda nelle regioni al confine tra Pakistan e Afghanistan, usando droni e corpi speciali. Una diversa strategia che si basa sulla convinzione che i talebani e al Qaeda non avrebbero gli stessi interessi strategici.
Friday, October 02, 2009
Chicago 'out', schiaffo a ego di Obama. Scioccati media liberal
Su il Velino
Delusione e sconcerto nelle migliaia di persone riunite al Daley Center, in Chicago, occhi puntati sui megaschermi che trasmettevano in diretta l'annuncio da parte del Comitato olimpico internazionale dell'esito del primo round di votazioni. Delusione e sconcerto anche nella voce dell'anchorman della CNN, Tony Harris, in diretta televisiva: «Chicago is out!?». Ripetuto tre, quattro volte, nella totale incredulità. E subito il sito della tv concorrente, di orientamento conservatore, FoxNews, affondava il colpo: «'O'-lympic Failure», con la "O" a sottolineare il «soprendente fallimento» del presidente Obama, e della first lady Michelle, «che hanno investito il loro capitale politico in una gigantesca campagna».
L'eliminazione, addirittura al primo round, di Chicago era del tutto inattesa. Era vista come una delle sedi favorite per i giochi olimpici del 2016, se non in pole-position, e ha goduto di un appoggio al più alto livello - addirittura presidenziale. Eppure, gli appelli appassionati di Obama e di sua moglie Michelle non hanno trovato ascolto in un Comitato olimpico dominato dagli europei. Forse, avevano ragione quanti in questi giorni lo avvertivano di quanto fosse inopportuno un così esplicito intervento da parte del presidente. Avrebbe potuto imbarazzare i delegati, inducendoli a dover dimostrare la loro "indipendenza" dalle pressioni di Obama, che nonostante la stima di cui gode in Europa rimane pur sempre il presidente della superpotenza americana.
E' ciò che hanno sottolineato nei giorni scorsi, e stanno sottolineando in questi minuti, la tv Fox e i commentatori conservatori. I quali non si auguravano certo la sconfitta di Chicago, ma criticano il presidente per la scelta, a loro avviso controproducente, di aver voluto appoggiare personalmente, volando fino a Copenaghen, la sua città d'adozione. E' la prima volta che un presidente degli Stati Uniti si espone con un appello così personale perché venga scelta una città americana come olimpica. Già ieri esponenti di spicco dell'opposizione repubblicana avevano criticato la visita lampo, accusando Obama di «comportarsi più da sindaco di Chicago che da presidente degli Stati Uniti», trascurando le tante questioni che proprio in questi giorni meriterebbero maggiore attenzione da parte del presidente, dall'Afghanistan all'Iran, fino alla riforma sanitaria, vicina a un passaggio cruciale in Congresso.
La lezione che i liberal e i media dovrebbero trarne, secondo i repubblicani, è smetterla di considerare oro tutto ciò che Obama tocca. Il suo carisma non sempre è destinato a portare dei vantaggi agli Stati Uniti. Questa sconfitta, in definitiva, «non è una gran cosa, potrebbe anche non muovere il suo indice di consenso nei sondaggi, ma nel retropensiero delle persone creerà l'idea che forse Obama non è il "persuasore-in-capo" dalla "lingua d'argento" che tutti credono che sia». Riassume così un esponente repubblicano. «I limiti dell'egomania», ha commentato Jennifer Rubin su Commentary: «Obama ha incassato un brutto rifiuto, e un severo promemoria che al resto del mondo non necessariamente importa ciò che lui pensa».
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Delusione e sconcerto nelle migliaia di persone riunite al Daley Center, in Chicago, occhi puntati sui megaschermi che trasmettevano in diretta l'annuncio da parte del Comitato olimpico internazionale dell'esito del primo round di votazioni. Delusione e sconcerto anche nella voce dell'anchorman della CNN, Tony Harris, in diretta televisiva: «Chicago is out!?». Ripetuto tre, quattro volte, nella totale incredulità. E subito il sito della tv concorrente, di orientamento conservatore, FoxNews, affondava il colpo: «'O'-lympic Failure», con la "O" a sottolineare il «soprendente fallimento» del presidente Obama, e della first lady Michelle, «che hanno investito il loro capitale politico in una gigantesca campagna».
L'eliminazione, addirittura al primo round, di Chicago era del tutto inattesa. Era vista come una delle sedi favorite per i giochi olimpici del 2016, se non in pole-position, e ha goduto di un appoggio al più alto livello - addirittura presidenziale. Eppure, gli appelli appassionati di Obama e di sua moglie Michelle non hanno trovato ascolto in un Comitato olimpico dominato dagli europei. Forse, avevano ragione quanti in questi giorni lo avvertivano di quanto fosse inopportuno un così esplicito intervento da parte del presidente. Avrebbe potuto imbarazzare i delegati, inducendoli a dover dimostrare la loro "indipendenza" dalle pressioni di Obama, che nonostante la stima di cui gode in Europa rimane pur sempre il presidente della superpotenza americana.
E' ciò che hanno sottolineato nei giorni scorsi, e stanno sottolineando in questi minuti, la tv Fox e i commentatori conservatori. I quali non si auguravano certo la sconfitta di Chicago, ma criticano il presidente per la scelta, a loro avviso controproducente, di aver voluto appoggiare personalmente, volando fino a Copenaghen, la sua città d'adozione. E' la prima volta che un presidente degli Stati Uniti si espone con un appello così personale perché venga scelta una città americana come olimpica. Già ieri esponenti di spicco dell'opposizione repubblicana avevano criticato la visita lampo, accusando Obama di «comportarsi più da sindaco di Chicago che da presidente degli Stati Uniti», trascurando le tante questioni che proprio in questi giorni meriterebbero maggiore attenzione da parte del presidente, dall'Afghanistan all'Iran, fino alla riforma sanitaria, vicina a un passaggio cruciale in Congresso.
La lezione che i liberal e i media dovrebbero trarne, secondo i repubblicani, è smetterla di considerare oro tutto ciò che Obama tocca. Il suo carisma non sempre è destinato a portare dei vantaggi agli Stati Uniti. Questa sconfitta, in definitiva, «non è una gran cosa, potrebbe anche non muovere il suo indice di consenso nei sondaggi, ma nel retropensiero delle persone creerà l'idea che forse Obama non è il "persuasore-in-capo" dalla "lingua d'argento" che tutti credono che sia». Riassume così un esponente repubblicano. «I limiti dell'egomania», ha commentato Jennifer Rubin su Commentary: «Obama ha incassato un brutto rifiuto, e un severo promemoria che al resto del mondo non necessariamente importa ciò che lui pensa».
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Thursday, October 01, 2009
La grande mossa, se gli iraniani trattano
Come previsto, gli iraniani mostrano di voler trattare. La loro tattica è chiara: chiusura in pubblico da parte dei leader, trattativa e contentini in privato. Che siano o meno sinceri e davvero intenzionati a discutere del tema chiave - il loro programma per l'atomica - si vedrà (personalmente ne dubito). Ma per il momento, da quanto emerge dai colloqui di Ginevra («inizio costruttivo», per la Casa Bianca; colloqui «buoni», per Jalili), sembrano intenzionati a sfruttare l'apertura del presidente Obama - che tra un'ora circa farà una dichiarazione in merito - se non altro per prendere ulteriore tempo, forse mesi. D'altra parte, l'esempio della Corea del Nord è significativo: anni di negoziati inconcludenti non hanno impedito a Pyongyang di continuare - tra stop and go - con il suo programma nucleare e missilistico. Ormai l'hanno capito tutti. Con questo Occidente, e con Obama alla Casa Bianca, si può trattare e nel contempo proseguire con le proprie politiche minacciose. Si apre una fase che sarà ricordata come la "grande mossa" invece del "Grand Bargain".
Buon compleanno Repubblica popolare! Una scia di sangue lunga sessant'anni
Sessant'anni di Repubblica popolare cinese compiuti al prezzo del sangue versato sulla stessa piazza dove oggi si è tenuta la principale celebrazione, un'imponente parata militare. Se, infatti, quei ragazzi che nel 1989 sfidarono i carri armati a Piazza Tienanmen avessero vinto la loro battaglia di libertà, oggi il regime comunista non starebbe spegnendo le sue 60 candeline, perché sarebbe stato decurtato di vent'anni di vita. Una lunga scia di sangue lega quel primo ottobre 1949, quando Mao Tse tung annunciò la fondazione della Repubblica popolare, ai giorni nostri, passando per la repressione di Tienanmen. Sotto la guida di Mao, per 27 anni, milioni di persone morirono tra purghe, repressioni e rivoluzioni culturali, e decine di milioni morirono vittime di tremende carestie, sacrificate sull'altare di quell'assurdo esperimento di ingegneria sociale che è il comunismo.
Sessanta colpi di cannone hanno dato il via alla festa. Davanti al presidente Hu Jintao – casacca grigio-scura stile Mao – sono sfilati in 200 mila tra soldati e comparse, e i gioielli delle forze armate cinesi, compresi i missili intercontinentali in grado di trasportare testate nucleari. «E' da qui che il presidente Mao ha annunciato solennemente la fondazione della Repubblica popolare cinese, e da allora il popolo cinese si è rialzato», ha detto Hu davanti a ospiti e militari. «Oggi una Cina socialista che abbraccia la modernità, abbraccia il mondo e abbraccia il futuro si erge alta e compatta. Il progresso in questi 60 anni dimostra pienamente che solo il socialismo può salvare la Cina». Hu ha promesso che la Cina continuerà a svilupparsi, e a cercare la «completa riunificazione della patria» (con Taiwan) in modo pacifico, ma nello stesso tempo ha esaltato la «forza militare dell'esercito». Il messaggio che la leadership cinese vuole ribadire al mondo e al suo popolo è chiaro: la scelta del partito unico è quella vincente per governare 1,3 miliardi di cinesi e trasformare la Cina in una superpotenza.
Quella della Repubblica popolare è la storia di un partito contro il suo popolo. Una storia che è tabù, perché i cinesi non possono nemmeno raccontarla ai loro figli. Sessant'anni di sofferenze per lo stesso popolo cinese, ha riconosciuto Samdhong Rimpoche, premier del governo tibetano in esilio. "Contro il popolo" è il titolo di questa storia, persino nel giorno dell'orgoglio. Solo 20mila civili hanno potuto assistere alla parata, quelli selezionati e "invitati" dal regime, che a tal punto non si fida della popolazione di Pechino da impedirgli persino di partecipare alle celebrazioni. Come per le Olimpiadi dell'anno scorso, i pechinesi sono "invitati" a restare in casa. Ai residenti nell'area di Tiananmen e nei viali circostanti è stato ordinato di «non aprire finestre o affacciarsi ai balconi», «non invitare amici o altre persone».
Sarebbe facile indulgere nella retorica, ma al di là del fattore umano c'è di che dubitare delle sorti magnifiche e progressive che attendono la Cina. Quella cinese, anche recente, è una storia cosparsa di «grandi fallimenti», ricorda Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: è un tipo di progresso «in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell'economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l'università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito...». I 100mila «incidenti di massa» in un anno (proteste con centinaia o migliaia di persone, 87 mila nel 2006 secondo i dati ufficiali) «dicono che il popolo vuole contare». E non basta la forza economica e militare, per essere "potenza" occorrono anche un modello culturale e uno stile di vita attraenti, che questa Cina non offre neanche lontanamente.
Il partito «non tiene più il passo del popolo dinamico che governa», osserva Gordon Chang sul Wall Street Journal. «Non bisogna farsi impressionare». Nonostante la sua «apparente forza», lo Stato cinese è «profondamente insicuro». Non c'era una folla festante lungo Chang'an Avenue. Quasi un milione di poliziotti e "volontari" hanno tenuto lontani dalle celebrazioni i cittadini normali, da cui il Partito comunista «è sempre più scollegato». Non può fidarsi di loro. «I cinesi stanno cambiando velocemente». Lo sviluppo economico ha reso la gente sempre più «consapevole, assertiva e, al contrario dei leader, sicura di sé. Ormai, questo cambiamento sociale ha preso slancio e il partito non può più fermarlo. Può dispiegare su larga scala soldati al passo dell'oca – conclude Chang – ma non può stare al passo del suo popolo, che, nel vero senso della parola, è l'unico in marcia».
Sessanta colpi di cannone hanno dato il via alla festa. Davanti al presidente Hu Jintao – casacca grigio-scura stile Mao – sono sfilati in 200 mila tra soldati e comparse, e i gioielli delle forze armate cinesi, compresi i missili intercontinentali in grado di trasportare testate nucleari. «E' da qui che il presidente Mao ha annunciato solennemente la fondazione della Repubblica popolare cinese, e da allora il popolo cinese si è rialzato», ha detto Hu davanti a ospiti e militari. «Oggi una Cina socialista che abbraccia la modernità, abbraccia il mondo e abbraccia il futuro si erge alta e compatta. Il progresso in questi 60 anni dimostra pienamente che solo il socialismo può salvare la Cina». Hu ha promesso che la Cina continuerà a svilupparsi, e a cercare la «completa riunificazione della patria» (con Taiwan) in modo pacifico, ma nello stesso tempo ha esaltato la «forza militare dell'esercito». Il messaggio che la leadership cinese vuole ribadire al mondo e al suo popolo è chiaro: la scelta del partito unico è quella vincente per governare 1,3 miliardi di cinesi e trasformare la Cina in una superpotenza.
Quella della Repubblica popolare è la storia di un partito contro il suo popolo. Una storia che è tabù, perché i cinesi non possono nemmeno raccontarla ai loro figli. Sessant'anni di sofferenze per lo stesso popolo cinese, ha riconosciuto Samdhong Rimpoche, premier del governo tibetano in esilio. "Contro il popolo" è il titolo di questa storia, persino nel giorno dell'orgoglio. Solo 20mila civili hanno potuto assistere alla parata, quelli selezionati e "invitati" dal regime, che a tal punto non si fida della popolazione di Pechino da impedirgli persino di partecipare alle celebrazioni. Come per le Olimpiadi dell'anno scorso, i pechinesi sono "invitati" a restare in casa. Ai residenti nell'area di Tiananmen e nei viali circostanti è stato ordinato di «non aprire finestre o affacciarsi ai balconi», «non invitare amici o altre persone».
Sarebbe facile indulgere nella retorica, ma al di là del fattore umano c'è di che dubitare delle sorti magnifiche e progressive che attendono la Cina. Quella cinese, anche recente, è una storia cosparsa di «grandi fallimenti», ricorda Bernardo Cervellera, direttore di Asianews: è un tipo di progresso «in cui lo Stato controlla oltre il 70% dell'economia, frenando la creatività e garantendo promozioni e favori senza alcun merito; rampante corruzione; mancanza di sostegno sociale a poveri, pensionati, disoccupati; strutture sanitarie ed educative allo sfacelo; genitori che mettono in vendita i loro organi per pagare l'università ai figli; inquinamento, soprusi, sequestri di terre e di case da parte di membri del Partito...». I 100mila «incidenti di massa» in un anno (proteste con centinaia o migliaia di persone, 87 mila nel 2006 secondo i dati ufficiali) «dicono che il popolo vuole contare». E non basta la forza economica e militare, per essere "potenza" occorrono anche un modello culturale e uno stile di vita attraenti, che questa Cina non offre neanche lontanamente.
Il partito «non tiene più il passo del popolo dinamico che governa», osserva Gordon Chang sul Wall Street Journal. «Non bisogna farsi impressionare». Nonostante la sua «apparente forza», lo Stato cinese è «profondamente insicuro». Non c'era una folla festante lungo Chang'an Avenue. Quasi un milione di poliziotti e "volontari" hanno tenuto lontani dalle celebrazioni i cittadini normali, da cui il Partito comunista «è sempre più scollegato». Non può fidarsi di loro. «I cinesi stanno cambiando velocemente». Lo sviluppo economico ha reso la gente sempre più «consapevole, assertiva e, al contrario dei leader, sicura di sé. Ormai, questo cambiamento sociale ha preso slancio e il partito non può più fermarlo. Può dispiegare su larga scala soldati al passo dell'oca – conclude Chang – ma non può stare al passo del suo popolo, che, nel vero senso della parola, è l'unico in marcia».
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