Tuttavia, i molti che dipingono con malcelata soddisfazione il successo di Blair come una sconfitta con disonore, il tramonto della sua carriera politica, non rendono onore alla propria intelligenza. A parte il fatto che vincere tre elezioni di fila e rischiare di andare in pensione all'età nella quale in Italia un leader comincia solo ad ambire di poter assumere posizioni di governo non mi pare esattamente una sconfitta, anche il grande Winston Churchill fu pensionato dagli elettori da vincitore della Seconda Guerra Mondiale. Insomma, gli elettori britannici sono piuttosto volubili e il blairismo ha sviluppato appieno il suo ciclo storico.
Troviamo quindi un Prodi che si complimenta con due "nonostante" ben in evidenza, un Bertinotti che assicura, "è un leader di centro". Sulle reazioni della sinistra ironizza facilmente il Riformista:
«Blair è un argomento divisivo per la sinistra italiana. E' uno da congratulare con qualche "nonostante", usato come profilattico per non prendersi un virus. E' uno che imbarazza i suoi compagni di Internazionale. E' uno da esorcizzare. E, infatti, le chattering classes nostrane lo hanno esorcizzato. Leggete i giornali: lo storico terzo mandato diventa "uno smacco personale". Ciò che per la stampa inglese è un "bloody nose" un occhio nero, un'ammaccatura, diventa da noi "qualcosa di simile a una sconfitta", un "sipario che cala", una sostituzione imminente».E' certo che prima o poi Blair dovrà lasciare, ma quelli che non si stancano a prevederne la caduta sosterranno che un fisiologico ricambio di leadership è in realtà una bruciante sconfitta politica, perché, ci spiegheranno, Blair non è mai stato di sinistra, ma di centro, anzi, un bieco reazionario.
Da Blair, ammette Giuliano Amato al Corriere della Sera, «abbiamo da imparare»: meno incentivi a pioggia perché «non si devono dilapidare risorse incentivando questo o quello, senza sapere chi e come potrà avvalersene». E Piero Fassino afferma con ritrovata fierezza: «La sinistra di Blair è vera, moderna. Sarei felice di realizzare in Italia le sue riforme». Il segretario Ds riconosce che il problema posto con la guerra in Iraq, di «come rendere efficace il principio del valore universale della democrazia e dei diritti» contro la realpolitik e l'indifferenza, riguarda tutti. Ma a nostro avviso sbaglia clamorosamente quando definisce Blair un «socialista europeo e un socialdemocratico moderno».
Il principale merito di Blair è quello di aver trasformato il Labour Party nel New Labour, cioè in un partito liberale di sinistra, buttando via il socialismo e scegliendo la via del libero mercato e dei diritti individuali per produrre ricchezza e redistribuirla allo stesso tempo. Una redistribuzione volta agli individui, non alle classi o alle corporazioni. Osserva Angelo Panebianco sul Corriere della Sera, che il successo di Blair sta nell'aver impresso una svolta culturale e politica alla sinistra britannica:
«... nell'avere tratto le conseguenze dall'esperienza di un secolo di storia laburista, nell'aver buttato via senza rimpianti il "socialismo" (con i suoi miti egualitari propri di un'epoca ormai finita), facendo del Labour un partito post-socialista, portandolo nell'alveo del liberalismo sociale, difensore del mercato e delle libertà individuali, e attento a sostenere i meno avvantaggiati senza cadere nell'assistenzialismo».Qualcosa che i capi della nostra sinistra neanche si sognano, perché evitano di mettersi in gioco, di rischiare la carriera sfidando il mainstream corrente e rinnovando la cultura politica dalla base ai vertici. Qui da noi, scrive Benedetto Della Vedova su Corriere Magazine, la situazione è ben diversa, è sclerotizzata:
«La politica del bipolarismo italiano rischia di caratterizzarsi per una convergenza statalista, seppur da matrici differenti: quella post-comunista, solidaristica e sindacalista del centro-sinistra, quella nazionalista, localista e protezionista del centro-destra... lo Stato inefficiente, insaziabile di tributi oltreché ipertrofico di burocrazia e regolamentazione, finisce per rappresentare un costo che incide sulla competitività delle imprese più di altri fattori "canonici"».A favore di Blair, sottolinea Panebianco, ha giocato la sua statura di leader vero.
«La graniticità delle convinzioni, l'inflessibilità con cui difende le scelte in cui crede. Anche a costo di sfidare l'opinione pubblica. Appartiene cioè al novero dei leader che, lungi dal farsi dettare le opinioni dagli istituti di sondaggio, sono pronti a battersi contro un'opinione pubblica contraria se ciò corrisponde a una loro genuina convinzione. Questa coerenza finisce per essere apprezzata anche da chi non ne condivide le scelte».Insomma, per dirla con una parola nota in Italia, Blair non è stato un "politicante", ma un vero leader, l'unico forse sulla scena europea. E si chiede Panebianco: «Cosa fa sì che la Gran Bretagna produca, con assai più frequenza di altri Paesi, leader di tale levatura e, proprio per questo, capaci di segnare un' epoca, di anticipare cambiamenti che in altri Paesi avverranno, se avverranno, solo molto tempo dopo?». Le «tradizioni storiche» e le «peculiarità delle istituzioni britanniche», risponderebbero quei liberali che in Italia sono innamorati delle istituzioni anglosassoni. Quel «governo del primo ministro» con la sua «formidabile concentrazione di poteri nelle mani del premier che la tradizione e il bipartitismo britannici hanno forgiato» e che qui da noi ci ostiniamo a scambiare per autoritarismo.
Infine, c'è il "sogno" di Marco Pannella. A fronte di una Francia e di una Germania divenute ormai «le eredi dell'Europa delle patrie di De Gaulle», è improbabile, ma sempre possibile, che proprio Blair possa far compiere passi importanti all'unità europea. Non più la visione di un'Europa geopolitica, ma la visione di un'Europa dei democratici: «Se Blair decidesse di giocarsi il referendum britannico sull'euro avremmo la leadership britannica degli Stati Uniti d'Europa e d'America». Se dalla Gran Bretagna sono giunte storicamente le maggiori resistenze nei confronti dei processi di integrazione europea, Pannella non sarebbe troppo sorpreso nel vedere «l'Europa gaullista combattuta proprio da chi è stato più prudente contro la posizione federalista» espressa da Altiero Spinelli e raccolta dai radicali.
Tranne Tony Blair, la cui statura politica e il cui considerevole europeismo sono però frenati dal congenito euroscetticismo britannico, oggi sulla scena europea non disponiamo di grandi statisti, di grandi leader dotati dello slancio ideale e della visione politica necessari per traghettare questo processo verso un'Unione politica compiuta, efficiente, dei popoli, democratica.
3 comments:
Che dire...Fassino, come spesso gli capita, dimostra di aver capito assai poco della storia e dell'azione di Blair, Amato riesce sempre ad entusiasmarsi per la reale innovazione politica e per chi sposta in avanti il significato di sinistra nel ventunesimo secolo, salvo poi tornare prontamente a cuccia nei momenti topici. Prodi è ormai il ventriloquo di Bertinotti, e non saprei se scandalizzarmi o sorridere, anche se in entrambi gli scenari mi cascano le braccia. Personalmente, sottoscrivo in pieno l'analisi di Della Vedova: l'Italia di liberale e liberista continua a non aver proprio nulla, si regge su un bipolarismo statalista ed asfissiante, frutto dell'assenza di elaborazione autoctona del liberalismo nella cultura politica italiana. Blair ha raggiunto il grande risultato di creare un liberalismo sociale, quello dove non ha diritto di cittadinanza l'egualitarismo che livella le condizioni di arrivo, ma tende a creare maggiori opportunità in partenza. Il fatto che gran parte dell'Unione stia esprimendo il wishful thinking che il blairismo volga al tramonto e' la prova provata dell'incultura politica di quello schieramento.
Fassino?
E' Salvi, il nostro Blair!
PdLautremont
Non è largo solo l'Atlantico... ma anche la Manica... purtroppo.
Federico, sei davvero bravo.
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