Se Anchise comincia a pesare...Alcune cose sconcertano davvero della
lettera di Pannella «a e su» Capezzone. Innanzitutto, l'invito esplicito a formalizzare la scissione, ma una scissione "alla radicale", cioè a fondare un nuovo soggetto, "suo", associazione o movimento. Lì sì, nel suo orticello, ammesso all'interno del sistema solare, dell'oligarchia radicale, potrebbe divertirsi come vuole senza fare concorrenza alla linea del sole, Pannella, o, piuttosto, alla non-linea di questi ultimi tempi. Occorre che la politica di Capezzone, pur essendo radicale (anzi, proprio per questo) non sia percepita come la politica
dei radicali, ma, appunto, solo "sua", e del suo giocattolo.
Ma Capezzone aspira a qualcosa di più che a un posto nell'azienda di papà. Privato della segreteria, contende a Pannella quella leadership "di fatto", senza cariche di partito, che esercita da sempre il leader radicale. E' il primo che si sta dimostrando in grado di farlo. E ammesso che non sia stata la cellula di
Torre Argentina a espellere, prima di tutto umanamente, il "corpo estraneo" Capezzone, ma sia stato egli stesso a escluderla dalle sue iniziative, Pannella dovrebbe prestare maggiore attenzione a non confondere
Torre Argentina con la totalità delle compagne e dei compagni. Esclusa la prima, non è detto che siano esclusi
tutti i radicali.
Non solo, come un Di Pietro qualsiasi, il leader radicale (o chi per lui) si riduce a contare le presenze in aula del presidente della Commissione Attività produttive, col rischio che qualcuno gli faccia notare che certe assenze sono più
produttive delle interrogazioni di alcuni deputati radicali interessati a sapere come mai i cani di grossa taglia non possono entrare nei treni
Eurostar. Sconcerta anche che Pannella rinfacci continuamente a Capezzone di essere stato "nominato" deputato, e "nominato" presidente di commissione, per grazia ricevuta dal suo partito, dalla
Rosa nel Pugno, e dall'
Unione.
I presidenti delle commissioni parlamentari sono eletti dai membri delle commissioni stesse, senza neanche la formalizzazione di candidature. Tutti sappiamo che dietro c'è un accordo politico di maggioranza, e a volte tra maggioranza e opposizione, su un nome. Rimanendo però sottinteso che si tratta di cariche istituzionali non sottoposte a disciplina di partito. Proprio Pannella pretende di far valere nel caso di Capezzone, chiedendogli di mostrare riconoscenza e ossequio eterni (merci che con la politica c'entrano poco), quel sostanzialismo partitocratico, contrario al formalismo delle regole, che ha denunciato per una vita? Proprio lui pretende di esercitare un potere "di fatto" che gli deriverebbe da una prassi partitocratica? Mi risulta che nessuno degli altri partiti abbia mai richiamato al rispetto della linea un presidente della Camera, o di commissione, rinfacciandogli la sua "nomina" di origine partitica. Sarebbe stato un fatto grave e Pannella il primo a insorgere.
Bisogna ricordare a Pannella che la Costituzione espressamente esclude il vincolo di mandato, proprio per ridurre il "potere" dei partiti sui rappresentanti, perché si ammette l'ipotesi teorica che non il dissenziente, ma il partito abbia violato il mandato elettorale e che gli elettori ne siano i giudici ultimi? Proprio Pannella rivendica il potere di nomina che questa legge elettorale "porcellum", grazie all'assenza delle preferenze e alla possibilità delle candidature multiple, attribuisce ai vertici dei partiti sui candidati e sugli eletti?
Il reale stato d'animo verso Capezzone, oggi abilmente dissimulato in una lettera dai toni concilianti e confidenziali, viene invece alla luce in una delle ultime direzioni, quando Pannella spiega che Capezzone è quel radicale che il regime ha scelto per liquidare definitivamente i radicali. Un clima paranoico, da bunker, in cui ogni critica, o condotta concorrente, è vissuta come tradimento e minaccia di distruzione anziché come risorsa e sfida.
La consapevolezza di vivere situazioni estreme, da decenni sotto il costante pericolo della sparizione politica e mediatica, e del genocidio culturale ad opera dell'oligarchia, ha sviluppato all'interno di un gruppo ristretto che si riconosce in un leader carismatico un senso paranoico del complotto e particolari vincoli di solidarietà, di «con-passione», forme di comunitarismo, di
comunione, e di estraniamento, tipici della setta, della confraternita, o della cellula. La famiglia, il clan radicale, più che la galassia. Il sentirsi dei radicali come un'etnia è però da considerare come la vittoria del regime sui radicali stessi.
La colpa di Capezzone, in fondo, è di rappresentare un elemento di discontinuità con la natura mistica e religiosa del corpo radicale. Non per chissà quali posizioni iper-laiciste e anticlericali, ma perché quel corpo mistico, che crede nella sua diversità e superiorità antropologica, ha dovuto cedere spazio al protagonismo e all'attivismo intellettuale e politico, dall'approccio estremamente individualistico, del nuovo, e poi ex, segretario. Quel corpo ha continuato a considerare Capezzone un intruso, altro da sé, nonostante le ragioni politiche che andava esprimendo dimostrassero il contrario. Ma, appunto, lo dimostravano su un piano politico e razionale, non a livello di "affinità elettive".
L'adesione di Capezzone alle ragioni politiche dei radicali nasce da anni di ascolto di
Radio Radicale non certo privo di passione, e passioni personali. Si tratta però di una condivisione su base razionale - non sentimentale o "etnica" - degli obiettivi politici. In una parola: laica.
L'estraneità a quel corpo mistico e antropologico ha permesso a Capezzone di infrangere la barriera dell'"estraniamento" radicale, di ristabilire un prezioso punto di contatto tra i radicali (tutti) e il mondo mediatico di oggi e, insomma, di far uscire la comunicazione radicale dagli anni '70, senza sacrificare i contenuti e le analisi di fondo della realtà italiana proprie dei radicali.
Non passa giorno senza che Capezzone accusi il governo di questa o quella nefandezza, e chi rimane in silenzio di esserne complice. "Anche noi - è il discorso che Pannella sembra rivolgere a Capezzone - pensiamo tutto il male possibile di questo governo, ma per senso di responsabilità nei confronti delle nostre scelte evitiamo di dirlo e siamo impegnati in altro piuttosto che nel ricordarlo tutti i giorni". Dunque, la divergenza è sull'opportunità di criticare il governo.
Rimane inevaso, nella lettera di Pannella, il nodo politico dello scontro con Capezzone, che riguarda il ruolo politico dei radicali nella maggioranza e al governo ed è profondamente avvertito tra i radicali. Non se uscirvi o meno, ma innanzitutto il *come* starci. Se subalterni, puntellando l'"alternanza" prodiana, o se cercando spazi per l'"alternativa" che era stata indicata come obiettivo in campagna elettorale, e rispetto alla quale Prodi ormai è di ostacolo, nient'affatto «buono a niente».
La formula dei «buoni a niente», con la quale in modo calzante si etichetta la compagine di governo, per spiegare che quando si è accettato di appoggiare Prodi si sapeva che si avrebbe avuto a che fare con dei «buoni a niente», e quindi che oggi «non si è delusi perché non ci si era illusi», è divenuta un alibi dietro il quale rassegnarsi alla propria irrilevanza. Ed è una formula inevitabilmente scaduta, perché scattava una fotografia che poteva essere fedele negli ultimi mesi di governo berlusconiano, ma non oggi che le parti sembrano piuttosto invertite e il «capace di tutto» Prodi. La Finanziaria "tassa e spendi"; una politica estera tra realismo e cinismo; l'affossamento dei Pacs; i giochi di potere del premier con le banche "amiche", da
Telecom al nuovo, inquietante, Fondo per le Infrastrutture; e - ricordiamolo - la più grave violazione della legalità degli ultimi anni, la vicenda non ancora risolta degli otto senatori, che ha colpito il più delicato momento di una democrazia: la trasformazione dei voti in seggi.
Per il leader radicale, il Governo Prodi «deve comunque essere aiutato a durare». Il disagio da parte di Pannella è comprensibile. Ciò che Capezzone fa e dice è pienamente inscrivibile nella storia radicale, per contenuti e per metodo, questo gli viene persino riconosciuto, ma oggi nei rapporti con Prodi e la maggioranza è stata scelta una diversa condotta, si è scelto di privilegiare alcuni temi. Tuttavia, non si può pretendere che altri non calchino una linea politica che per il momento si è deciso di non calcare, oppure che formalizzino una scissione. Da una parte, l'approccio è da "spina nel fianco", dall'altra da "ultimo giapponese", ricordando che l'ultimo giapponese,
Shoichi Yokoi, ha atteso 27 anni prima di uscire dalla giungla.
Essere gli «ultimi giapponesi» di Prodi aveva senso finché si trattava di conquistare l'"alternanza" a Berlusconi. Se davvero l'obiettivo è riformare la sinistra in senso liberale; se nessuna sinistra liberale e democratica in Europa governa insieme ai neocomunisti; e se per sua definizione il prodismo non è che il tentativo di coniugare riformisti e massimalisti nell'esperienza di governo; se è vero tutto questo, la riforma della sinistra in senso liberale, l'"alternativa", passa per il fallimento dell'"utopia prodiana" e la resa dei conti con i neocomunisti, che i radicali dovrebbero accelerare e non ritardare. Quello «scontro» tra sinistra liberale e neocomunista che lo stesso Pannella negli ultimi mesi del 2005 ripeteva essere «necessario e salutare», ma che una volta nelle istituzioni i radicali non sono riusciti a innescare.
Avuta la certezza che Berlusconi fosse battuto, e l'"alternanza" ottenuta, avrebbero dovuto dimenticarsela come priorità, concentrandosi sull'"alternativa", l'obiettivo proclamato in campagna elettorale. Non spetta ai radicali la conservazione dell'"alternanza" prodiana, soprattutto perché, come prevedibile, dal rappresentare una
condizione per l'"alternativa" oggi l'"alternanza" è divenuta di
ostacolo.
La laicità pare assunta come unico, fragile, filo che tiene legati i radicali a una
Unione che, con malcelato fastidio, null'altro concede loro se non di rinchiudersi nel recinto dei laicisti. Così, nella difficoltà strategica in cui si trovano in questa compagine governativa, la laicità diviene l'unico carattere identitario dal quale riscuotere una dose minima di accettabilità da parte dei vicini.
Si trovano ingabbiati nella lealtà a Prodi - ormai, ancor di più dopo queste elezioni amministrative, persino più zelante di quella dei
Ds e della
Margherita - e in una
Rosa nel Pugno che esiste solo alla Camera, nelle mani del capogruppo Villetti, ridotta esattamente a ciò che dall'inizio lo
Sdi voleva che fosse e che in tutti i modi Pannella voleva scongiurare che divenisse. Eppure, i radicali sembrano vittime di una strana Sindrome di Stoccolma, che li porta a rincorrere i socialisti, sostenendoli alle amministrative e mendicando qualche mobilitazione. Quegli stessi socialisti che hanno accettato di giocare il ruolo degli aguzzini dei radicali, dopo averli rinchiusi nel ghetto dei diritti civili per meglio, di fatto, neutralizzarli.
Vengono alla mente le parole di
Biagio de Giovanni, rimaste senza risposta, che rimproverava ai radicali di sentirsi
«sale della terra, mai terra» e di essere incapaci di una
«proposta generale». Quando i radicali furono capaci di una «proposta generale» riuscirono a raccogliere nel '93 oltre 40 mila iscrizioni e nel '99 l'8,5% dei voti. E' in questa incapacità che confida il "regime" nel tenere sotto controllo l'intemperanza radicale: rinchiusi, ma felici, nel ghetto dei diritti civili, mentre Prodi e Padoa Schioppa continuano indisturbati a riempire il sacco, a perpetuare quel binomio tasse-spesa pubblica che è la principale fonte di sostentamento del regime oligarchico.
In questo governo pieno di statalisti e dirigisti, di repressione fiscale e burocratica, di manovre punitive nei confronti dei ceti produttivi, di aumento della spesa pubblica, quindi degli sprechi e dei privilegi della "casta" politica e delle sue clientele, per i radicali l'occasione è d'oro per porsi come interlocutori di quel mondo produttivo già deluso, che non trova rappresentanza neanche nei vertici di Confindustria (vedremo se Montezemolo imprimerà una svolta), e degli "outsider", gli esclusi da un assetto burocratico-corporativo in cui sono sempre i soliti privilegiati e parassiti a dividersi il bottino della spesa pubblica. La crisi della "casta" politica, la decomposizione della mai nata Seconda Repubblica, che a molti ricorda il '92, anche l'incombente appuntamento referendario, creano le condizioni per rivolgere un nuovo appello a un "Terzo Stato" dei produttori (i non protetti e i non privilegiati, nell'impresa come nel lavoro) contro le grandi burocrazie parassitarie, le corporazioni, gli assistiti, le clientele della partitocrazia.
E' condivisibile lo scrupolo dei radicali di non voler apparire "inaffidabili" come i Mastella, i Di Pietro e i Diliberto, ma tra l'inaffidabilità e i trasformismi da una parte, e il rimanere intrappolati tra Villetti e le macerie del "prodismo" dall'altra, non si poteva trovare una via di mezzo, un diverso equilibrio? Non era anche questa la sfida dei radicali nelle istituzioni?
Stupisce invece la totale assenza di consapevolezza che Prodi, oggi, rappresenta un fattore di blocco, di congelamento dello status quo della politica italiana e dello stesso Berlusconi. Tutti, anche (se non per primi) Ds e Margherita, stanno già giocando la loro partita per il dopo-Prodi, tranne i radicali, gli unici che sembrano non aver ancora capito che quella partita è iniziata. Ed è un bene, consapevoli che i nuovi scenari, probabili, possibili, o inverosimili, presentano molti rischi e strettissime opportunità, ma che proprio per questo bisognerebbe fare lo sforzo di giocare le proprie carte con spregiudicatezza.