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Wednesday, April 29, 2009

Il vero scandalo sono i giornalisti

Tra crisi economica, febbre suina e referendum elettorali, di che cosa ci hanno fatto parlare nelle ultime 24 ore i giornali? Di Veline. Le prime pagine e i siti internet dei principali quotidiani intasati da uno scandalo molto annunciato ma poco verificato: le liste del PdL per le elezioni europee piene di Veline. Ebbene, alla chiusura delle liste lo scandalo è svanito come una bolla di sapone e ciò che rischia di restare è un boomerang che si ritorcerà contro la sinistra.

Di tutte le Veline che avrebbero dovuto riempire in massa le liste del PdL, l'unica showgirl candidata è Barbara Matera. Saranno belle e raccomandate, forse il premier se le sarà anche portate a letto, ma di certo le tre candidate su cui in queste ore la stampa e la sinistra hanno alzato un polverone mediatico indegno non sono affatto scandalose. Si tratta di figure presentabilisssime, non solo per il loro aspetto fisico. Ecco a voi il «ciarpame», come le ha definite una evidentemente male-informata Veronica Lario. Lara Comi: laureata con lode in Economia e management delle imprese presso l'Università Cattolica di Milano; laurea specialistica in Economia dei mercati internazionali e nuove tecnologie presso l'Università Bocconi. Licia Ronzulli: caposala ed assistente di sala operatoria all'Ospedale Galeazzi di Milano.

Ripeto. Non so con quali criteri siano state scelte, né se sono all'altezza, questo lo giudicheranno gli elettori dopo la campagna elettorale. Quello che è certo è che non c'è nulla nelle loro biografie che possa far gridare allo scandalo.

Se dobbiamo metterla su questo piano, ha ragione Berlusconi: sono sotto gli occhi di tutti le persone «maleodoranti e malvestite che circolano nelle aule parlamentari candidate da certi partiti». Il bell'aspetto dà diritto a giudicare pregiudizialmente una donna come stupida e ignorante? Pare di sì, secondo alcuni. E scommetto che se avesse avuto il fisico di una modella la sottosegretaria Roccella sarebbe stata subissata di insulti per le figuracce che fa in aula (ma siccome è bruttina per qualcuno difenderla "fa gentlemen") e per i comunicati che da ogni parola trasudano ignoranza costituzionale.

Piuttosto, se davvero queste tre giovani candidate si dimostreranno all'altezza, sarà il Pd a doversi preoccupare di presentarsi con il grigiore di David Sassoli, di Luigi Berlinguer e di «vecchi arnesi» della politica che, come osserva Berlusconi, la sinistra «manda in pensione» in Europa per «liberare il campo in Italia».

Qualcosa mi dice che Lara Comi valga dieci volte un Sassoli o un Berlinguer. E comunque ci risiamo: Berlusconi presenta volti freschi, il Pd il lesso misto.

Lo scandalo vero è come certi "autorevoli" giornali siano riusciti a bloccare per un giorno intero la politica italiana su questa bufala. Tra l'altro, se scandalo doveva esserci, doveva riguardare il fastidioso fenomeno dei giornalisti-candidati. Da Santoro alla Gruber, da Badaloni a Marrazzo, alla lista oggi si aggiunge David Sassoli. Ognuno è libero di fare ciò che vuole, naturalmente, e passiamo sopra all'opportunismo di chi sfrutta la propria notorietà di mezzobusto televisivo (e la credibilità che gli conferisce anche la testata in cui lavora). Però queste candidature - e soprattutto il passaggio lampo dal video alla politica - sollevano più di qualche dubbio sulla professionalità del giornalista e non fanno onore alla professione in generale. L'Ordine, se a qualcosa serve, dovrebbe preoccuparsene. Ne faccio qui una questione solo di tempi: è professionalmente corretto candidarsi alle elezioni quando solo pochi giorni prima si compariva sugli schermi della tv pubblica come inviato nelle zone terremotate dell'Abruzzo?

Se l'Egitto decide di fare sul serio

Se l'ipotesi dell'atomica iraniana spaventa più di tutti Israele, a rendere inquieti i governi arabi sono anche gli altri mezzi, molto convenzionali ma meno eclatanti, con i quali Teheran sta perseguendo i suoi disegni egemonici sull'intero Medio Oriente. «Potenze straniere cercano di sabotare l'Egitto attraverso movimenti islamici», è l'inequivocabile accusa lanciata ieri dal presidente egiziano Hosni Mubarak. Alcune settimane fa le autorità egiziane hanno sgominato una cellula di Hezbollah che stava progettando attentati contro mete turistiche frequentate da israeliani e altri occidentali e contro infrastrutture strategiche del paese. Tra le accuse a carico dei 49 arrestati (libanesi, palestinesi, egiziani e sudanesi, tutti legati a Hezbollah), «l'osservazione del movimento delle navi nel Canale di Suez e dei villagi turistici nel nord e nel sud del Sinai allo scopo di attaccarli»; «la diffusione di idee sciite in Egitto e l'incitamento degli egiziani contro il loro governo»; «la fornitura di armi e denaro ad Hamas».

Gli iraniani manovrano organizzazioni terroristiche loro alleate allo scopo di destabilizzare l'Egitto – l'unico vero ostacolo rimasto tra gli ayatollah e le loro ambizioni – economicamente, colpendo il turismo e il commercio, settori strategici per l'economia del paese dei faraoni, e politicamente, giocando le carte del risentimento filopalestinese e dell'integralismo islamico.

Anche altri stati arabi stanno reagendo: il Marocco ha bruscamente interrotto le relazioni diplomatiche con l'Iran, accusandolo apertamente di sostenere elementi sovversivi sciiti nel regno; il Bahrain ha protestato con forza contro le dichiarazioni di un funzionario iraniano, secondo cui lo stato arabo sarebbe la quattordicesima provincia iraniana; la Giordania ha lanciato un'ulteriore azione repressiva nei confronti di Hamas ed Hezbollah. Tutti segni dell'ansia crescente dei governi arabi, non solo per le attività iraniane, ma anche per l'inedita stagione di dialogo che Obama vuole aprire con Teheran.

Il Cairo sta mandando un segnale preciso a Washington: la questione nucleare non è l'unico aspetto – sebbene sia il più urgente – della minaccia iraniana. «La sfida iraniana allo status quo regionale si manifesta in molteplici modi», ha scritto Abdel Monem Said Aly, direttore del Centro di studi strategici "Al Ahram", sul Wall Street Journal. Il braccio di ferro a distanza tra Teheran e Il Cairo si gioca soprattutto sul tavolo di Hamas. L'Egitto cerca di convincere Hamas a riconciliarsi con Fatah e ad accettare di far parte di un governo di unità nazionale palestinese, minacciando l'organizzazione integralista di strangolarla, serrando i confini con la Striscia di Gaza e distruggendo i tunnel sotterranei per il contrabbando. Teheran rende vani i continui tentativi egiziani esercitando a sua volta pressioni su Hamas. Le prove dell'impegno iraniano nel sabotare gli sforzi egiziani per la stabilità regionale sono «inconfutabili», osserva Said Aly. Per esempio, fu l'Iran a istigare Hamas a rifiutarsi di rinnovare la tregua con Israele, causando indirettamente la guerra di Gaza del dicembre scorso. «L'Egitto ha dato e sta dando ai palestinesi più di quanto diate voi. Non li usa come merce di scambio e non partecipa nello spargere il loro sangue. Lavora duro per raggiungere la loro unità», ha rivendicato, sempre ieri, il presidente Mubarak.

L'Iran vede nell'Egitto il suo più grande rivale, forse l'ultimo, nella regione. Sabotare i suoi sforzi per la pace tra palestinesi, e tra palestinesi e israeliani, significa minarne l'autorità ed alimentare quel tipo di risentimenti anti-israeliani e anti-occidentali che avvicinano gli arabi sunniti a Teheran, a quell'ideologia che fa da «collante postmoderno – così l'ha definita Robert Kaplan sull'Atlantic – che tiene unita la grande sfera d'influenza iraniana». Un collante che appare persino più forte della storica divisione tra sciiti e sunniti. Sono milioni infatti gli arabi sunniti che, soprattutto in Egitto, si sentono più vicini ai mullah radicali sciiti che alla loro autocrazia sunnita, detestata perché compromessa con la politica di Usa e Israele. Temendo la penetrazione di tale ideologia, il governo egiziano monitora da tempo i legami di Teheran con Hezbollah, ma anche con movimenti integralisti sunniti come i Fratelli musulmani, particolarmente forti in Egitto, e Hamas.

La soluzione del conflitto israelo-palesinese sarebbe importante per frenare l'espansione dell'influenza iraniana nella regione, ma è altrettanto vero che difficilmente si faranno progressi reali finché l'Iran continuerà a sabotare ogni sforzo, proprio perché si rende conto di quanto sia fondamentale per le sue ambizioni che la tensione rimanga alta. Il presidente Obama «dovrebbe mandare un fermo messaggio a Teheran che l'America sta con l'Egitto dalla parte della pace e della stabilità», conclude Said Aly. «Gli Stati Uniti – suggeriscono gli analisti del Washington Institute for Near East Policy – dovrebbero agire in fretta per fornire un forte appoggio pubblico e una tangibile assistenza all'Egitto e agli altri governi arabi nei loro sforzi per contrastare le ambizioni egemoniche iraniane». Ma ora che ha aperto gli occhi sulla pericolosità degli alleati di Teheran dentro e fuori i suoi confini, Il Cairo dovrebbe decidersi ad annientare Hamas. Potrebbe farlo domani, se lo volesse, sigillando davvero i pochi km di confine con la Striscia di Gaza.

Friday, April 24, 2009

Per fortuna Silvio c'è, ma manca il dibattito delle idee

Altro che Santoro. La Rai del centrodestra è capace di operazioni di mistificazione ideologica ben più sofisticate e rivestite di rispettabilità. Mentre tutta la vis polemica è concentrata sui soliti noti, ricicciano personaggi della Prima Repubblica con le loro interviste in ginocchio, e piano piano, senza dare nell'occhio, dalla notte inoltrata risalgono le fasce orarie. A Minoli sono bastati pochi minuti. Per chi non avesse visto l'ultima puntata de "La Storia siamo noi", in onda su Raidue tra le unidici e mezzanotte di mercoledì scorso, il video dovrebbe essere disponibile on line tra qualche giorno.

Con l'uso delle tecniche audiovisive e del linguaggio tipico del documentario, Minoli ha offerto ai telespettatori una tesi - legittima ma pur sempre partigiana e ideologica - sulle cause dell'attuale crisi economica, come se fosse una indiscutibile verità storica. Partendo dalla ricostruzione dei trionfi delle coppie Thatcher-Hayek e Reagan-Friedman negli anni '80 e passando direttamente al 2007, come se nel frattempo nulla fosse avvenuto e nessuno avesse avuto responsabilità di governo, gli sono bastati pochi minuti infarciti di luoghi comuni per addossare le colpe della crisi all'«ultra-liberismo» e al «capitalismo selvaggio», lanciando un attacco suggestivo ma privo di qualsiasi argomentazione al mito thatcheriano e al mito reaganiano.

Lo ripeto. Non è la tesi - ovviamente legittima - ma il metodo che mi scandalizza. Le tecniche del racconto documentaristico sono state usate per attribuire ad una delle tante analisi sulle cause lontane della crisi i toni perentori di una pagina di storia. Possibile che il centrodestra, oggi al governo, debba lasciare ai Minoli la politica culturale della tv di stato? Possibile che non sia in grado di veicolare una sua politica culturale, in senso alto, non certo eliminando gli avversari? Perché, per esempio, non rispondere con un ciclo di interviste agli economisti dalle cui considerazioni è tratto il libro "La crisi ha ucciso il libero mercato?"

Infine - a conferma della natura politica e non storica dell'operazione - l'intervista in ginocchio all'ex presidente del Consiglio Romano Prodi, solenne ed esultante per il ritorno del primato dello stato sul mercato, dell'etica e della giustizia sociale sull'avidità, dell'industria sulla finanza, nonché compiaciuto della evidente sintonia emersa sempre più negli ultimi mesi tra lui e il ministro Tremonti.

D'accordo con Tremonti sugli "Eurobond" («Li avevo proposti sul Financial Times parecchio tempo fa»); Tremonti ha «completamente ragione» anche sul fatto che bisogna tornare a leggera la Bibbia invece di troppi libri di economia. «Ma la cosa non riguarda solo l'oggi. Se avessimo letto un po' più di Bibbia anche negli anni in cui il libero mercato trionfava, oggi non saremmo nella crisi in cui siamo. L'etica era necessaria per i politici, per i finanzieri e lo è anche oggi».
E infine, Prodi spiega che dopo la crisi «tutto sarà diverso, a partire dal potere. Ci saranno nuovi Stati potentissimi e vecchi più deboli. Non ci sarà più questo comando senza controllo della finanza, ci sarà più peso della produzione reale dell'industria e anche più spazio per una maggiore giustizia sociale».

Oggi Prodi è columnist domenicale del quotidiano Il Messaggero. Molti, nei suoi editoriali degli ultimi mesi, i riconoscimenti impliciti alla politica economica di Tremonti. Su tutti quello di metà febbraio scorso sulla necessità di «una nuova Bretton Woods», la «globalizzazione delle regole» oltre che dei mercati. Editoriale che tanti complimenti ha ricevuto da parte dello stesso Tremonti, che il giorno successivo dava atto all'ex premier di aver scritto «un articolo che esprime la cifra della grande politica».

Se la politica cauta di Tremonti in questi frangenti di crisi può a ragione essere definita «immobilismo virtuoso», la sintonia tra i due ci fa tornare in mente i due statalismi nella cui morsa è stretta la politica italiana e nei cui confronti, dall'interno del centrodestra, tranne lodevoli ma minoritarie eccezioni, non si levano voci in difesa del libero mercato. Siamo messi male, insomma, come osservava su Corriere Magazine della settimana scorsa Angelo Panebianco:
Sono tempi grami per i difensori del mercato... particolarmente in Italia: Paese in cui le culture politiche dominanti hanno sempre diffidato del mercato. Che poi questa storica diffidenza sia accompagnata a una forte avversione popolare per i politici, per l'uso che essi fanno delle risorse pubbliche, non implica l'esistenza di una contraddizione. Perché l'avversione per i politici non è quasi mai tradotta nella richiesta generalizzata di meno Stato e di più spazio all'iniziativa privata... In Italia, oggi, non viviamo una fase di "ritorno dello Stato" a causa della crisi, dal momento che lo Stato non se ne è mai davvero andato. Viviamo piuttosto un momento di rivalutazione culturale del suo ruolo... Non c'è dubbio: alla politica (alle sue possibilità di controllo sulla società) conviene che tante persone si convincano che il mercato non è, in tanti campi, una buona soluzione. La maggiore sicurezza che la politica è in grado di offrire nel breve termine si paga poi, in genere, nel medio termine, con meno libertà e meno benessere.
Ma come osservava tempo fa Alberto Mingardi, «il problema di Tremonti è quello di tutto il centro destra. La sua stella brilla solo perché il cielo è sgombro. Se va reso merito all'ostinazione con cui ha frenato l'espansione della spesa, entusiasmarsi per il Tremonti-pensiero è difficile. L'immobilismo virtuoso va bene come risposta di breve periodo. Già nel medio, bisogna avere un progetto». Non basta il «curioso minestrone» tremontiano «in cui "legale" e "morale" si rincorrono». Ma per ora quasi tutti nel centrodestra se lo bevono.

Il Papa come Zapatero

Vi ricordate quante ne scrivemmo su Zapatero allora? Io sì, e voi?

Thursday, April 23, 2009

Soluzione liberale per il dopo-terremoto

Otto miliardi di euro complessivi ma senza un centesimo in più di tasse. Questa la cifra messa a disposizione dal Consiglio dei ministri per il dopo-terremoto in Abruzzo. Ma adesso, oltre ai soldi, servono idee per il dopo-terremoto. Qualche buona idea la suggerisce un "focus" pubblicato oggi dall'Istituto Bruno Leoni, dal titolo "Un contributo di idee per il dopo-terremoto". Secondo l'autore, Piercamillo Falasca, finanziare la ricostruzione «non significa affatto che lo Stato gestisca in prima persona la ricostruzione stessa. Un sistema di indennizzi commisurati ai danni subiti sarebbe assai migliore, in quanto più trasparente, utile alla popolazione, meglio al riparo da malversazioni».

L'idea del premier dei "cento cantieri" da suddividere tra le province italiane si scontra con i livelli di efficienza delle province, «troppo diversi tra loro». Per quanto riguarda la fonte del finanziamento, il governo ha già deciso di «evitare il ricorso ad una tassazione straordinaria», come suggerito dall'IBL. Ma è proprio inevitabile «che il settore pubblico debba gestire materialmente l'intera ricostruzione delle aree terremotate, pianificando ex ante cosa ricostruire e dove»? E la «ricostruzione» è davvero «l'unica forma possibile di risarcimento ai terremotati»? Falasca propone invece di affidare «ad ogni famiglia e ad ogni impresa» un «indennizzo monetario di importo parametrato al danno stimato, ma non vincolato alla ricostruzione dell'immobile».

Questa soluzione avrebbe numerosi vantaggi: si eviterebbe che i soggetti danneggiati siano «preda delle inefficienze, dei ritardi e degli sprechi delle macchine burocratiche e politiche»; quanti lo vorranno potranno optare per scelte diverse dalla ricostruzione («l'acquisto di un'abitazione già esistente in un luogo diverso; una diversa tipologia di abitazione; l'avvio di un'attività economica»); alleggerirebbe i compiti per lo Stato, che quindi «potrebbe investire le proprie risorse umane nel controllo degli standard di qualità di ciò che viene costruito o riparato».

Certo, Falasca è consapevole che «si condannerebbero alcuni borghi o quartieri a non essere ricostruiti o a perdere una parte degli abitanti», ma per quanto sia spiacevole ammetterlo, a volte «il ripristino dello status quo ante si scontra con la razionalità, l'efficienza economica e la libertà individuale, che non può essere sacrificata sull'altare di una visione romantica della conservazione». Affidando i soldi «direttamente nelle mani delle persone e non della burocrazia o della politica», «i tempi della normalizzazione si ridurrebbero e non si condannerebbero le persone ad una dipendenza di medio-lungo periodo dall'intervento pubblico».

A seguito del terremoto che ha colpito l'Abruzzo, si è aperto un dibattito sull'ipotesi, per il futuro, dell'introduzione di una polizza obbligatoria per la copertura dei rischi derivanti da calamità naturali. Secondo Falasca, il modello più efficace sarebbe quello neozelandese. In Nuova Zelanda «un ente pubblico assicura da sinistri fino a un tetto massimo (nel caso del paese oceanico, circa 100.000 dollari americani). Sopra quella soglia, sono le compagnie private in concorrenza tra loro ad offrire forme integrative di assicurazione».

Una soluzione simile avrebbe molti pregi. Innanzitutto, «sottrarrebbe all'arbitrio della politica le risorse accantonate (oggi il terremoto appare una priorità, ma tornerà a non esserlo), destinandole ad una bilancio separato». Inoltre, «con molto più zelo dello Stato, le assicurazioni private interverrebbero sul fronte della prevenzione, premendo – attraverso il valore dei premi assicurativi - perché siano rispettati gli standard di sicurezza rispetto ai terremoti... e alle altre tipologie di calamità».

Wednesday, April 22, 2009

A forza di stringere mani rischia di scottarsi

Mentre Obama va in giro per il mondo a stringere mani e a sorridere, il ruolo del "poliziotto cattivo" sembra affidato a H. Clinton, che oggi avverte così la leadership iraniana:
«Siamo più che pronti a tendere la mano all'Iran per discutere diversi problemi. Ma stiamo preparando tutto per sanzioni molto dure, che potrebbero essere necessarie se le nostre offerte fossero respinte o se il processo dovesse fallire. Sviluppiamo nuovi approcci alla minaccia iraniana, e lo facciamo con gli occhi ben aperti e senza illusioni».
Un sollievo le parole della Clinton, ma le foto della calorosa stretta di mano e dei sorrisi tra il presidente Obama e il caudillo venezuelano Chavez, il leader sudamericano in assoluto più ostile agli Stati Uniti, hanno fatto il giro del mondo, rafforzando la percezione di una svolta nella politica estera americana e l'immagine di un'America ora pronta a mostrare il suo volto più disponibile al dialogo e accomodante.

Ai nostri occhi quella che è stata già ribattezzata da qualche commentatore Usa "politica delle strette di mano" dovrebbe ricordare qualcosa: la politica delle "pacche sulle spalle" del nostro Berlusconi. Nasce spontaneo l'interrogativo: dove ci porterà questa diplomazia delle strette di mano di Obama? Quanto vale una stretta di mano a Chavez, o la mano tesa all'Iran? Prima o poi Obama si scotterà la mano, a forza di tenderla verso i nemici?

La sensazione è che una stretta di mano possa voler dire tutto o niente. Bisognerà vedere se stringendo mani e sorridendo sarà Obama a metterlo amabilmente in quel posto a Chavez e ad Ahmadinejad; o se saranno questi ultimi ad approfittare dello sprovveduto mentre fa il "piacione" con le opinioni pubbliche mondiali.

Alla Casa Bianca ripetono che una stretta di mano è una stretta di mano. «Niente di più», riporta Politico.com. Per molti repubblicani invece, il caloroso saluto di Obama al presidente venezuelano è stato molto di più. Un'altra dimostrazione di come Obama sia troppo amichevole con i nemici degli Stati Uniti. In ogni caso, anche in questo suo secondo viaggio Obama si è rivelato coerente con quanto promesso durante la campagna presidenziale, cioè di mostrare al mondo un volto più amichevole rispetto al suo predecessore, e di tendere la mano alle altre nazioni, sia alleate che rivali.

Se il Vertice delle Americhe di Trinidad e Tobago rappresentava una sorta di prova del fuoco per la politica estera di Obama, il bilancio non sembra entusiasmante. Gli analisti hanno rimproverato all'amministrazione precedente di aver perso progressivamente influenza in America Latina, e di essersi concentrata troppo sul Medio Oriente. Ora si aspettano che Obama riguadagni il terreno perduto, anche se nel frattempo nel continente si sono affermati e rafforzati regimi molto ostili agli Stati Uniti. Ma al di là di sorrisi e strette di mano, e tra un "mea culpa" e l'altro per le "cattive" azioni compiute in passato da Washington negli affari dei paesi latinoamericani, il vertice si è chiuso senza l'attesa dichiarazione finale, per l'opposizione dei leader della cosiddetta "ala bolivariana". La stretta di mano di Obama non è valsa nemmeno una firmetta su un pezzo di carta poco più che retorico.

Le critiche del Dalai Lama e la risposta del regime a Charta 08

In una conferenza stampa tenuta oggi a Tokyo, il Dalai Lama è tornato a criticare la Cina. Sfiduciato dall'assenza di risultati della sua ultradecennale politica della "Via di mezzo", negli ultimi tempi le sue critiche si sono fatte più dure ed esplicite, quasi a voler dimostrare ai tibetani in Tibet di tenere in considerazione la loro crescente frustrazione. Lo stallo nei colloqui con Pechino e l'inasprimento della repressione spingono sempre più tibetani a criticare la moderazione del Dalai Lama e a sostenere una linea d'azione più radicale.

Ma nelle sue più recenti critiche al governo cinese il Dalai Lama sembra anche concentrarsi più sulle violazioni dei diritti umani in tutta la Cina che solo sulla questione tibetana. «Una nazione così grande come la Cina si comporta come un bambino». Il governo arresta «regolarmente» chi è in dissenso verso la sua politica, ma «una grande nazione di oltre un miliardo di persone non deve avere paura» di ogni minimo dissenso, osserva il Dalai Lama. La Cina è «una potenza demografica, militare, ed economica. Ora la quarta condizione perché diventi una superpotenza è l'autorità morale. In questo è carente». E la chiave per guadagnarsi l'autorità morale è la «fiducia». «Una ragione di debolezza del governo cinese – spiega – è che non c'è trasparenza, dà sempre notizie distorte». Quello della trasparenza e della fiducia nelle comunicazioni del governo è in effetti un tasto al quale gli stessi cinesi stanno diventando molto sensibili.

Tra i paesi responsabili del maggior numero di violazioni dei diritti umani che nei giorni scorsi hanno partecipato alla conferenza dell'Onu sul razzismo c'era anche la Cina, che è riuscita ad ottenere l'esclusione dalla conferenza del Tibetan Centre for Human Rights and Democracy (Tchrd), ong ammessa al primo appuntamento di Durban nel 2001. All'agenzia di stampa Asianews il direttore del Centro ha denunciato l'esclusione e raccontato il «sistematico razzismo» praticato dalle autorità cinesi nei confronti dei tibetani.

Eppure, qualcosa sembra muoversi all'interno del regime cinese. All'inizio della settimana scorsa il Consiglio di Stato ha pubblicato il primo "Piano di azione nazionale per i diritti umani", nel quale in perfetto stile comunista vengono "pianificati" gli obiettivi del prossimo biennio nel campo dei diritti civili e sociali. Ne abbiamo parlato qualche post fa.

Al di là della sua attuazione - piuttosto improbabile - è importante l'ammissione implicita da parte del Partito dell'esistenza di diritti umani fondamentali diversi dal diritto del popolo alla mera sussistenza, in nome del quale Pechino ha sempre giustificato i suoi più orrendi crimini. Da sempre infatti Pechino afferma che i diritti umani come concepiti in occidente non siano applicabili alla diversa realtà cinese. Il Piano indica ancora come prioritaria «la protezione dei diritti del popolo alla sussistenza» (mangiare, abitare, vestirsi), ponendosi gli obiettivi di aumentare i redditi, creare 180 milioni di nuovi posti di lavoro, costruire case popolari, ma per la prima volta accanto ad essi compaiono diritti umani di diversa fattispecie. La stessa agenzia di stampa ufficiale Xinhua riferisce che «il governo ha ammesso che la Cina ha davanti una lunga strada nel tentativo di migliorare la situazione dei diritti umani».

Siamo di fronte ad un cambiamento di visione? Di certo una concessione, anche se solo formale, alla quale potranno appellarsi quanti si battono per i diritti umani in Cina e la comunità internazionale. E di certo, come osserva Enzo Reale su Laogai.it, «è significativo che questo programma d'azione arrivi solo pochi mesi dopo la diffusione della Charta 08, ovvero il più importante manifesto politico prodotto dalla società civile cinese nei sessant'anni di dittatura comunista. In un certo senso il Piano rappresenta la goffa risposta del governo cinese alla dichiarazione dei trecento e ne conferma involontariamente la rilevanza politica. I promotori e i firmatari della Charta 08 ottengono in questo modo una doppia vittoria: in primo luogo perché il documento è evidentemente riuscito a bucare le maglie della censura e del silenzio ufficiale, diventando un punto di riferimento anche per i suoi oppositori; ma soprattutto perché obbliga il Partito Comunista a misurarsi sul terreno dei diritti umani».

Scende il coprifuoco in Lombardia

Ma in che razza di paese viviamo? Notizie come queste mi fanno rimanere sempre più attonito. Kebaberie, ma anche gelaterie, pizzerie d'asporto, rosticcerie e piadinerie aperti non oltre l'una di notte e divieto di consumare sui marciapiedi fuori dai locali. E' il succo amaro del provvedimento approvato dal Consiglio regionale della Lombardia. Dopo lo stato dalla culla alla tomba, la regione che ti manda a nanna. Il trionfo del provincialismo.

Monday, April 20, 2009

A Giuliano - un anno dopo

E' già passato un anno da quella terribile chiamata. Non ho un ricordo sfocato di te, ma vivo. Chissà le cose che avremmo potuto fare insieme in un anno. Con la tua forza e le nostre ragioni. Il destino ha voluto altrimenti, ma per me resti un autentico esempio da seguire: dal punto di vista umano e intellettuale. Uno dei pochi migliori. Spesso hai fatto visita nei miei pensieri in questi mesi, e te ne sono grato.

Lo show di Ahmadinejad, con la complicità occidentale

Come volevasi dimostrare, Ahmadinejad ha sfruttato la tribuna internazionale offertagli dall'Onu per aggredire verbalmente Israele. I paesi dell'Ue che hanno deciso di non boicottare la conferenza sul razzismo hanno avuto torto. I loro delegati hanno dovuto prendere atto delle parole pronunciate dal presidente iraniano ed abbandonare i lavori. Incredibilmente la Francia di Sarkozy e Kouchner (Kouchner!) è incappata nell'errore di legittimare con la sua presenza, insieme a molti, troppi paesi europei, l'assise in cui ha preso la parola Ahmadinejad. Siamo lieti di constatare che per una volta l'Italia ha fatto una figura migliore. Sarkozy e Brown si sono sbrigati a condannare con estrema durezza le parole di Ahmadinejad, non riuscendo però a cancellare del tutto l'imbarazzo per aver reso i loro paesi complici della trappola propagandistica tesa contro Israele.

Dalla Durban II Angelo Panebianco trae questa mattina sul Corriere tre insegnamenti che mi sembrano condivisibili:
«Se l'Occidente si divide, coloro che puntano a usare le istituzioni internazionali in chiave antioccidentale hanno facile gioco... I Paesi europei che, insieme al Vaticano, hanno scelto comunque di andare alla Conferenza forse riusciranno a impedire che essa si risolva in una Durban bis ma corrono anche un rischio: il rischio che la loro presenza contribuisca a dare legittimazione internazionale a regimi politici che fanno quotidianamente strage di diritti umani a casa loro e che non hanno le carte in regola neppure in materia di razzismo essendo noti campioni di propaganda antisemita...

I diritti umani non possono essere facilmente separati dal contesto culturale occidentale che li ha generati... altri, con alle spalle altre e diverse tradizioni culturali, si impadroniscono di quelle istituzioni, e del connesso linguaggio dei diritti umani, cambiandone radicalmente l'ispira­zione e il significato. E' proprio in nome dei "diritti umani" (nel senso che essi danno a queste parole) che i Paesi islamici cercano oggi di imporre a tutto l'Occidente una drastica limitazione della libertà di parola e della libertà di stampa, erigendo barriere giuridiche che rendano la religione islamica non criticabile.

L'impossibilità di separare diritti umani e politica. A Ginevra "si fa" e "si farà" politica, ossia la questione del razzismo e dei diritti umani verrà usata come arma propagandistica ai fini della competizione di potenza e delle connesse negoziazioni politiche».
E' rimasto letteralmente sbigottito Natan Sharansky nell'apprendere dall'intervistatore di la Repubblica che il Papa era intervenuto per "benedire" la conferenza: «Il Papa? Sul serio?». Sì, sul serio.
«Dunque, le ipotesi sono due. O il pontefice semplicemente non capisce il contenuto della conferenza, ed è un conto. O invece è a conoscenza di che cosa si parlerà a Ginevra e con chi. E se fosse vera l'ultima ipotesi, allora questo potrebbe essere motivo per noi di grande preoccupazione. Anche in vista del suo prossimo viaggio qui in Israele. Possiamo meglio comprendere il potere della Chiesa e i tanti comportamenti espressi in passato dal Vaticano».

Vergogna Vaticano

Non c'è niente da fare. Sotto Benedetto XVI tra Santa Sede e Israele (e mondo ebraico) proprio non c'è sintonia. Ieri, esprimendo tutto il suo appoggio alla conferenza dell'Onu sul razzismo, il Papa ha pronunciato parole ovvie e condivisibili contro ogni discriminazione razziale e intolleranza, ma è impensabile che Ratzinger stesso e i suoi uffici in Vaticano ignorassero le polemiche che circondano l'iniziativa di Durban I e II.

Stati Uniti, Italia, Germania, Israele, Australia, Canada, Olanda e Svezia boicotteranno l'appuntamento, perché la dichiarazione della conferenza, che dovrebbe essere contro il razzismo, paradossalmente trabocca di antisemitismo. Com'è noto infatti, la conferenza - così come il Consiglio dell'Onu sui diritti umani - è in mano alle dittature e ai paesi islamici, che la usano principalmente come pulpito da cui levare davanti all'opinione pubblica mondiale, sfruttando la credibilità dell'Onu (quella poca che gli è rimasta), la loro inappellabile sentenza di condanna nei confronti di Israele. Un'altra parte inaccettabile della dichiarazione è quella sulla cosiddetta «diffamazione religiosa», che i paesi islamici hanno introdotto per giustificare la censura e i limiti alla libertà d'espressione.

Il Vaticano avrebbe potuto partecipare alla conferenza mantenendo un basso profilo, come faranno tanti altri stati. Invece, non casualmente bisogna dedurre, Ratzinger ha voluto onorare la ben poco raccomandabile conferenza con una vera e propria benedizione urbi et orbi. Non dico che il Vaticano doveva boicottarla, ma almeno Ratzinger poteva fare a meno di "benedirla" così platealmente. Ma ormai ci ha abituati a queste gaffe. Evidentemente la Santa Sede non vuole perdere occasione per dimostrarsi più interessata a mantenere buoni rapporti con i paesi islamici piuttosto che con Israele e il mondo ebraico.

Thursday, April 16, 2009

Tempi cupi, le aperture di Obama non basteranno

Tira una brutta aria, perché le aperture al dialogo di Obama in tutte - davvero in tutte - le direzioni sembrano suscitare un senso di sollievo e rilassamento, persino di entusiasmo, tra gli analisti, i commentatori e i media mainstream, oltre che nelle capitali occidentali. Quasi che l'ammorbidimento delle posizioni e dei toni Usa sia destinato di per sé a risolvere tutte le crisi e a migliorare ogni rapporto conflittuale. Peccato che a questo clima rilassato e vagamente ottimista non corrispondano fatti altrettanto tranquillizzanti. Le sfide sembrano aumentare e crescere di complessità; gli stati canaglia alzano la posta, per sfruttare il più possibile a loro vantaggio la nuova aria che spira a Washington.

L'Iran, innanzitutto. La prima conseguenza dell'apertura di Obama è che la sospensione dell'arricchimento dell'uranio non è più una precondizione per l'avvio dei negoziati. Teheran non chiedeva di meglio. Mentre si discute potrà continuare a portare avanti il suo programma, e magari in corsa riuscirà a ottenere persino qualche benefit. Come detto, spetta a Obama capire prima possibile le reali intenzioni di Teheran e tirare le somme del suo tentativo senza farsi impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte dell'Iran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell'atomica sciita.

Intanto, il governo egiziano sembra aver capito che gli iraniani mirano a destabilizzare il paese, colpendo il turismo e il commercio, settori strategici per l'economia egiziana. L'Egitto è forse l'unico vero ostacolo rimasto tra Teheran e le sue ambizioni egemoniche sull'intera regione. Nei giorni scorsi sono stati arrestati 49 uomini accusati di essere vicini a Hezbollah e di progettare attentati nel Sinai contro mete turistiche frequentate da israeliani e contro infrastrutture egiziane, tra cui il canale di Suez. Sarebbero stati il Mossad e la Cia a fornire le informazioni agli egiziani.

Il ministro degli Esteri egiziano, Abul Gheit, è stato molto esplicito con il quotidiano Asharq al-Awsat, promettendo «grandi sorprese» quando saranno resi noti i particolari sulla cellula sciita operante nel Sinai: «Aspetto con ansia il momento in cui vedrò le facce di coloro che dentro e fuori l'Iran dettano le istruzioni... quando leggeranno il rapporto preparato dal procuratore di Stato. La questione Hezbollah dimostra che l'Iran vuole trasformare l'Egitto in un trampolino iraniano per chi vuole penetrare in Medio Oriente. Ma l'Egitto non fa da trampolino a nessuno». Secondo il quotidiano Haaretz quella egiziana è una vera e propria «rabbia» nei confronti di Teheran. Di poche settimane fa la rottura tra Marocco e Iran, dopo la scoperta dei tentativi di infiltrazione islamico-sciita nel regno sunnita retto da Maometto VI.

Ma se Obama si volta verso Israele, l'orizzonte non appare più sereno e le cose si fanno se possibile più complicate. Il ministro degli Esteri israeliano Lieberman ha spiegato all'inviato speciale di Obama per il Medio Oriente, George Mitchell, che il governo Netanyahu non crede più nella politica delle concessioni e dei ritiri unilaterali (che hanno portato alla guerra con Hezbollah nel 2006 e al rafforzamento di Hamas), che non si riconosce in Annapolis, ma si sente vincolato solo al rispetto della "road map", che prevede (pochi se ne ricordano) la cessazione di ogni violenza e terrorismo tra le condizioni per la nascita di uno stato palestinese.

Lieberman ha chiesto «impegni senza equivoci» da parte di Washington sulla sicurezza di Israele e la sua natura di stato ebraico. Le parole di Lieberman sembrano confermare il cambio di rotta del nuovo governo israeliano: la priorità è l'Iran; nel frattempo, "pace economica" con i palestinesi: Israele è disponibile a tutto per migliorare le condizioni economiche dei palestinesi, ma «se vogliamo una soluzione stabile alla questione palestinese dobbiamo in primo luogo fermare l'intensificazione e l'espansione della minaccia iraniana». Al contrario di Bush, l'amministrazione Obama sembra sposare l'approccio più tradizionale che vede nel processo di pace e nella minaccia iraniana due problemi separati. Ciò costituirà un problema di non poco conto nei rapporti con Israele.

Nulla di buono neanche dalla Corea del Nord, che in una settimana ha effettuato un test missilistico (fallito), espulso gli ispettori delle Nazioni Unite, abbandonato i colloqui a sei e minacciato di riaccendere i reattori e proseguire nel programma nucleare, a dimostrazione di quanto fosse propagandistico il successo diplomatico sbandierato in "zona Cesarini" dall'amministrazione Bush. E' fin troppo evidente che il regime di Pyongyang è attratto dalla prospettiva di lucrare dalla nuova stagione di dialogo a 360° inaugurata dalla presidenza Obama. Spera di ricominciare con il solito tira e molla, ottenendo ulteriori concessioni. E, magari, di seguire l'esempio iraniano, costringendo Washington a colloqui diretti senza precondizioni.

Non meno gravi gli ultimi sviluppi in Afghanistan e Pakistan, dove la situazione sembra precipitare di giorno in giorno. Riguardo l'Afghanistan, Obama sembra aver capito che esiste un problema strettamente militare: la quantità di truppe impegnate sul terreno. Prosegue, però, la progressiva perdita di controllo del Pakistan. Un processo a dire il vero iniziato già con la precedente amministrazione, ma che pare accentuarsi con Obama, che mostra molte incertezze e nessuna strategia. Il fatto che il presidente pachistano Zardari abbia addirittura concesso l'introduzione della sharia in una zona del paese, lo Swat, per venire a patti con i talebani pakistani è davvero inquietante. In pratica una cessione di sovranità ai talebani dalle conseguenze potenzialmente disastrose per la stabilità del paese.

Sulle differenze tra Bush e Obama in politica estera avremo modo di tornare.

In questo scenario a tinte fosche, l'unica nota positiva potrebbe paradossalmente giungere da un'altra dittatura, quella cinese, che in questa fase sembra se non altro muoversi con un certo pragmatismo. La leadership di Pechino dimostra di saper trattare i suoi interessi con realismo. E' nazionalista, ma almeno il potere non sembra in mano a una setta di fanatici. Fa ben sperare la pubblicazione del primo "Piano di azione nazionale per i diritti umani in Cina", che indica gli obiettivi del prossimo biennio: una maggiore tutela fisica e morale dei detenuti. Il che vorrebbe dire bandire la tortura. Nel piano si afferma il diritto dei detenuti a presentare proteste scritte e a denunciare abusi. Viene ribadito il loro diritto a incontrarsi e a comunicare con l'avvocato, e il diritto del legale a poter svolgere nel miglior modo la difesa.

Pieno di omissioni e ambiguità; operazione d'immagine, sul piano sia internazionale che interno; e sappiamo che in gran parte resterà lettera morta. Ma quanto meno - osservano molti - è importante la sola ammissione, per la prima volta, che ci sono diritti umani fondamentali diversi dal diritto del popolo alla sussistenza, in nome del quale Pechino ha sempre giustificato i suoi più orrendi crimini.

Problema suo

Adriano Sofri è molto «seccato», perché qualcuno o qualcosa lo costringerebbe a dire "Giù le mani da Vauro", proprio nel giorno in cui invece vorrebbe «riferire del corteo di donne afghane contro la legge sugli stupri maritali assaltato dalla sassaiola dei farabutti». Ebbene, se Sofri nella sua rubrica quotidiana sente il bisogno di parlare di Vauro invece che delle donne afghane che lottano per la propria libertà contro i talebani, a me sembra un problema tutto e solo suo. E di quelli gravi. Se fossi in lui mi preoccuperei.

Col suo sarcasmo vorrebbe farci capire fino a che punto è minacciata la libertà d'espressione in Italia, se bisogna occuparsi di Vauro e rinunciare invece a riferire del coraggio delle donne afghane. Invece, capisco solo come si è ridotto Sofri, se davvero pensa che Vauro sia un martire della libertà di stampa che merita più attenzione delle donne afghane e non, piuttosto, solo un teppista televisivo. La satira non è qualcosa di sacro e intoccabile. A proposito di certe vignette di Vauro sugli ebrei, ricordo a Sofri che anche il regime nazista si avvaleva della satira.

Wednesday, April 15, 2009

Ci risiamo: nuova emergenza, nuova tassa

Tutti i governi, ma in particolare quelli italiani, amano praticare una bizzarra forma di solidarietà: una solidarietà "coatta". La solidarietà sembra essere obbligatoria. Anche il governo di centrodestra, guidato dallo stesso Berlusconi che aveva giurato che non avrebbe in nessun caso messo le mani nelle tasche degli italiani, pare si accinga ad alzare le tasse per far fronte alle spese di ricostruzione dopo il terremoto in Abruzzo.

Un prelievo aggiuntivo - un «contributo obbligatorio» - a carico di chi dichiara redditi superiori ai 130-140 mila euro l'anno. Ma siccome temono che i ricchi "normali" si siano stufati di essere sempre loro a pagare, questa volta li chiameranno i "super-ricchi". Non è ancora chiaro se si tratterà di una addizionale Irpef, se sarà permanente o sarà una una-tantum. Ma più si farà leva sul sentimento di invidia sociale nei confronti di quella razza di contribuenti in via d'estinzione, definendoli non a caso "super-ricchi", più l'aumento apparirà di buon senso.

L'idea non è particolarmente originale. Il nostro sistema tributario è pieno di tasse e balzelli "di scopo", misure quasi mai cancellate una volta passata l'emergenza. Stiamo ancora pagando per l'Irpinia, e sulla benzina paghiamo ancora le guerre coloniali in Africa. In altre occasioni, come la tassa per entrare nell'euro, i soldi non ci sono mai stati restituiti del tutto. Tra l'altro, è una soluzione particolarmente infelice in questo momento, perché a causa della crisi il gettito fiscale diminuirà comunque, con o senza una-tantum o aumenti dell'aliquota massima. I nostri politici ancora non hanno capito che a livelli estremamente alti di tassazione l'unico modo per incrementare il gettito è far crescere l'economia, non continuare a spremere sempre gli stessi limoni.

Thursday, April 09, 2009

Usa-Iran, via alle danze

Come previsto, l'Iran ha detto sì a colloqui diretti con gli Stati Uniti, nei quali non ha nulla da perdere. Proprio ieri il segretario di Stato Hillary Clinton aveva annunciato che «da questo momento in poi» gli Stati Uniti parteciperanno ai negoziati sul nucleare iraniano. Ci si aspettava una risposta, o almeno qualche indicazione di massima sull'atteggiamento iraniano, dal discorso che avrebbe pronunciato oggi Ahmadinejad inaugurando il primo impianto di produzione di combustibile nucleare a Isfahan. Così è stato.

Celebrando i progressi del programma nucleare (tra cui le 7.000 centrifughe installate nella centrale di arricchimento di Natanz, e i due "nuovi tipi di centrifughe" più potenti sperimentati), Ahmadinejad ha detto che l'Iran è aperto a negoziati sul nucleare con gli Stati Uniti e con le altre potenze occidentali, ma a condizione che siano basati sulla «giustizia» e sul «rispetto dei suoi diritti». E tra questi diritti c'è quello al nucleare: la comunità internazionale non deve cercare di costringere Teheran a sospendere l'arricchimento dell'uranio.

«Siamo pronti ad avere colloqui con l'Occidente... Salutiamo l'appello [del presidente degli Stati Uniti] per un mondo libero dalle armi nucleari e siamo anche pronti a pagare il nostro prezzo in proposito. Ma ho un consiglio per il nuovo presidente: cambi la retorica del suo predecessore nei confronti dell'Iran e lavoriamo sulla base del rispetto e della giustizia».

A questo punto i colloqui diretti ci saranno. Gli Stati Uniti rinunciano alla precondizione della sospensione dell'arricchimento dell'uranio, come già annunciato a suo tempo da Obama in campagna elettorale e come suggerito dai "realisti". E' un azzardo, perché gli ayatollah hanno dalla loro il fattore tempo ed è molto probabile che i negoziati falliranno per la volontà iraniana di dotarsi della bomba. Sarà cura di Obama capire prima possibile le reali intenzioni di Teheran, e tirare le somme del suo tentativo senza farsi impantanare in un dialogo il cui unico obiettivo da parte dell'Iran fosse quello di prendere tempo per mettere la comunità internazionale di fronte al fatto compiuto dell'atomica sciita.

Condividiamo quindi le considerazioni di Emanuele Ottolenghi sulla mossa dell'America di Obama:

«Il punto di questo esercizio non è di umiliare l'America e concedere nella retorica quanto gli iraniani ci chiedono nella sostanza. Il punto è un altro - che gli iraniani vogliono ottenere il loro posto al sole senza fare le dovute rinunce e i necessari aggiustamenti, contando di riuscirci o con la forza o per l'inedia diplomatica occidentale che non li fermerà. E l'America deve convincere i suoi alleati di aver fatto ogni tentativo - con le buone, s'intende - per persuadere l'Iran ad adottare un nuovo corso prima di passare all'estremo rimedio. Obama deve avere in testa ben chiara la sua strategia, e ci auguriamo che essa comprenda i seguenti elementi. Primo, il tempo è denaro - non sprecarlo permettendo ai tempi della diplomazia di addormentare il senso d'urgenza che deve guidare il negoziato con Teheran. Secondo, coordinati con gli alleati, elaborando in anticipo le prossime mosse comuni. Sarebbe bello che il dialogo porti gli sperati frutti - ma occorre pensare in anticipo anche a cosa si fa se le cose vanno male. Terzo, ricordati che anche le grandi civiltà si macchiano di nefandezze - in Iran queste non mancano oggi come in passato, e la ferocia del regime iraniano terrorizza i nostri amici e alleati nella regione. Non fare nulla dunque, nel dialogo con Teheran, che possa in qualche modo far sì che essi si sentano abbandonati. E infine, quarto, stabilisci chiari criteri e linee rosse che permettano all'America e ai suoi alleati di sapere quando è il momento di chiudere i giochi e passare ad altri sistemi persuasivi».

L'antipatico Lieberman e le sue scomode verità

Sarà in Italia a maggio, invitato da Frattini, il controverso nuovo ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Il premier israeliano Netanyahu lo ha voluto nel suo governo per suggellare l'allleanza con il partito nazionalista Israel Beitenu. Immigrato dalla ex Unione sovietica, con le sue opinioni politicamente scorrette sugli arabi e la sua posizione iconoclasta nei confronti dei tabù del processo di pace ha già suscitato la riprovazione delle cancellerie europee e dei mainstream media occidentali e arabi, che lo hanno definito di «estrema destra», «guerrafondaio», «razzista», «pericoloso» per Israele stesso.

Eppure, non gli si può dar torto quando dice che il processo di pace tra israeliani e palestinesi è «a un vicolo cieco» e che servono «nuove idee». Non sia mai! Lesa maestà! Le sue parole sono state interpretate come un attacco diretto alla soluzione "due popoli, due stati", sponsorizzata dalla comunità internazionale. Una formula che però con il tempo rischia di diventare vuota retorica, un tabù a cui nell'impasse diplomatico si aggrappano i membri del Quartetto (Usa, Ue, Russia, Onu) per far credere all'opinione pubblica che sono tutti impegnati per la pace.

«Il governo di Israele non ha mai ratificato Annapolis, né lo ha fatto la Knesset». La colpa di Lieberman è di affermare, ben poco diplomaticamente, verità note a tutti, ma anche scomode per tutti. Servirebbe, invece, un "reality check". Annapolis è morta quando l'anno scorso Mahmoud Abbas e Ahmed Qurei hanno rifiutato l'offerta di Olmert e della Livni: praticamente tutta la Cisgiordania. A seguito delle polemiche suscitate, Lieberman ha poi precisato che Israele si ritiene comunque tenuto a onorare l'itinerario di pace tracciato dal Quartetto. Infatti, nonostante tutto, il governo Netanyahu-Lieberman-Barak è impegnato per la creazione di uno Stato palestinese attraverso la "road map". Un risultato che però – pochi lo rammentano – la stessa "road map" condiziona alla fine della violenza e del terrorismo da parte palestinese. L'idea dei "due stati" va congelata fino a quel momento.

E' innegabile infatti che il principio "terra in cambio di pace", su cui si è fin qui basata la soluzione "due popoli, due stati", è stato screditato dai lanci di razzi di Hamas e dalla guerra con Hezbollah nel 2006. Visti con gli occhi degli israeliani, i ritiri unilaterali dal Sud del Libano e dalla Striscia di Gaza hanno prodotto più vulnerabilità incece di pace. Secondo Michael Oren, del Washington Institute for Near East Policy, «l'opinione pubblica israeliana è disillusa sul processo di pace, e sta realizzando che il conflitto non riguarda più il 1967, ma il 1948. In altre parole, non è più per le terre, ma per l'esistenza stessa di Israele». Le terre da cui gli israeliani si ritirano non vengono viste da organizzazioni come Hamas come presupposti per la costituzione del futuro stato palestinese, ma come avamposti più avanzati da cui far partire i razzi e le offensive contro Israele.

Secondo il Jerusalem Post, quindi, il nuovo esecutivo sarebbe alla ricerca di nuove strade: non più concessioni e ritiri, ma una controparte finalmente pronta ad abbandonare il terrorismo. Per questo Netanyahu sta pensando ad una "pace economica" e a come sviluppare istituzioni palestinesi in grado di contrastare efficacemente le organizzazioni terroristiche. Demarcare il confine tra Israele e la Cisgiordania, anche se per ora l'esercito israeliano dovrà rimanervi, potrebbe essere nel frattempo un'idea per porre fine all'ambiguità sugli insediamenti, definendo de facto quali territori faranno parte di Israele e quali di un futuro Stato palestinese. «Invece che preoccuparci di Lieberman – osserva Emanuele Ottolenghi – in Europa faremmo bene a chiederci su chi possiamo sperare a Ramallah e a Gaza».

Ad ostacolare il processo di pace c'è sempre il retropensiero, l'illusione coltivata dai palestinesi che un giorno la Siria, o più probabilmente l'Iran, possano cancellare in un sol colpo Israele dalla faccia della terra, risolvendo tutti i loro problemi. Ecco perché la minaccia atomica iraniana domina l'orizzonte politico israeliano. E' una delle poche cose su cui concordano tutti i principali attori politici israeliani, tanto che Netanyahu ha voluto il leader laburista Barak nel suo governo, proprio per avere un sostegno politico sufficientemente ampio, e per condividere la responsabilità di decisioni delicatissime, dai possibili esiti drammatici anche in caso di successo, in quella che si profila essere la più difficile sfida alla sopravvivenza di Israele almeno dalla Guerra dei Sei Giorni del 1967, se non dall'indipendenza del '48. America ed Europa non si facciano illusioni: Netanyahu e Barak condividono la stessa visione sull'Iran, la Siria e le istituzioni palestinesi.

Wednesday, April 08, 2009

Previsioni no, ma almeno un'attenta valutazione del rischio

Lasciamo per un momento da parte Giuliani e il suo radon, perché mi pare che il parlarne ci distolga da un aspetto più importante in tutta questa tragica vicenda.

I terremoti sono imprevedibili, si è detto. Eppure, il 31 marzo si riuniva a L'Aquila la Commissione Grandi rischi, con i massimi esperti italiani di terremoti. Si riuniva per fare che cosa, esattamente, se comunque non è possibile "prevedere" un terremoto? Di logica sembrerebbe essercene poca. E' ovvio però che dalla Commissione Grandi rischi non ci si aspettava una "previsione" in senso stretto, tale da dar luogo ad una evacuazione, ma almeno - come dice il nome stesso - un'attenta e scientificamente informata valutazione del rischio, che in qualche modo è a sua volta una previsione, sia pure probabilistica.

Molti aquilani sopravvissuti al terremoto hanno lamentato il fatto che fino a quella maledetta notte tra il 5 e il 6 aprile gli sia stato ripetuto di restare «tranquilli». Il signor Giuliani sarà anche "solo" un perito elettronico, un «imbecille», un cialtrone, ma i tanti signor "restate tranquilli"?

Ebbene, il dibattito sulla scientificità, o sulla semplice attendibilità, del modello predittivo di Giuliani sta nascondendo il fatto che Barberi, Boschi e gli altri sismologi "ufficiali" non hanno saputo effettuare una corretta valutazione del rischio con gli elementi in loro possesso. Prim'ancora che per non aver dato ascolto a Giuliani, hanno fallito perché non hanno saputo utilizzare al meglio i loro strumenti e le loro conoscenze: era in corso da tre mesi uno sciame sismico piuttosto anomalo, vista la grande quantità di scosse avvertite dalla popolazione negli ultimi giorni; lo sciame interessava una zona sismica considerata - non da Giuliani, ma dall'Ingv - tra le più a rischio, se non la più a rischio, d'Italia; e per di più, si poteva notare (a cavallo tra marzo e aprile) una tendenza all'aumento della frequenza e dell'intensità delle scosse (come provano la scossa di Sulmona di magnitudo 4 e le due ravvicinate a L'Aquila poche ore prima quella tremenda delle 3.32). Forse da quella riunione non si poteva proprio uscire ripetendo alla popolazione di restare «tranquilla».

Sbaglia chi critica Bertolaso. Il quale, a ben vedere, non ha del tutto ignorato l'allarme lanciato da Giuliani, come può far pensare la reazione scomposta nei suoi confronti, l'avergli dato dell'«imbecille», e poi persino la denuncia per procurato allarme. Proprio a seguito del perdurante sciame sismico, dell'allarme di Giuliani e della scossa del 29 marzo a Sulmona, Bertolaso decideva molto saggiamente di cautelarsi mettendo comunque in preallarme la Protezione civile e convocando a L'Aquila la Commissione Grandi rischi. Non potendo certo lanciare l'allarme catastrofe sulla base di una rilevazione non fondata dal punto di vista scientifico, almeno non sottovalutava la situazione e chiamava ad esprimersi i maggiori sismologi italiani.

Sono questi, gli scienziati "ufficiali", che hanno fallito e di cui troppo poco si parla in queste ore, anzi quasi per niente. Qui Giuliani non c'entra nulla. Hanno fallito non perché non hanno dato retta a Giuliani, o perché hanno sbagliato la "previsione" - che sappiamo essere impossibile allo stato delle conoscenze scientifiche attuali - ma perché non hanno effettuato una corretta valutazione del rischio, che era possibile con i dati di cui disponevano. A che serve una Commissione Grandi rischi se poi nessuno si assume la responsabilità del suo operato? Nel caso di Barberi, poi, siamo di fronte a un recidivo. Fu sempre lui, da capo della Protezione civile, a tranquillizzare tutti la mattina dopo la prima scossa del terremoto di Assisi nel 1997, dicendo che sarebbero seguite solo scosse di assestamento, minori rispetto all'evento della notte, mentre alle 11.42 una seconda e più devastante scossa fece crollare la volta della Basilica. Com'è che sono sempre le stesse facce da oltre dieci anni?

Monday, April 06, 2009

Terremoti ancora imprevedibili, ma la scienza "ufficiale" non è senza macchia

La domanda che si fa particolarmente angosciante in queste ore è se il terremoto che ha devastato l'Abruzzo ieri notte era prevedibile. L'opinione diffusa è che i terremoti non siano prevedibili in modo tale da allertare le popolazioni interessate. Ma questa convinzione è messa in forte dubbio in queste stesse ore da un ricercatore, Giampaolo Giuliani, che in seguito allo sciame sismico che stava interessando l'Abruzzo da più di un mese aveva lanciato l'allarme sulla possibilità che si verificasse un terremoto "disastroso".

Non gli hanno creduto e lo hanno persino denunciato per procurato allarme. Cerchiamo di guardare ai fatti. La previsione di Giuliani non si è dimostrata di un'accuratezza tale da poter salvare delle vite, perché annunciava un terremoto "disastroso" domenica 29 marzo con epicentro a Sulmona. Se fossero stati evacuati i cittadini di Sulmona e delle zone limitrofe, trascorsa una settimana sarebbero rientrati nelle loro case giusto in tempo per venire colpiti dal terremoto che si è effettivamente verificato. E' un fatto anche che allo stato attuale nessuna ricerca sui cosiddetti "precursori sismici", in nessuna parte del mondo (neanche in Giappone o in California, dove di terremoti se ne intendono) ha fornito un'attendibilità tale da giustificare l'evacuazione delle popolazioni.

Anche perché se parliamo di misure così estreme come un'evacuazione, oltre ai costi esiste una seria questione di credibilità dell'allarme stesso. Se infatti l'evento non si verifica, l'allarme rischia di perdere credibilità presso la stessa popolazione. I falsi allarme rischiano di rendere sempre meno credibili gli allarmi successivi. Mi pare quindi che Bertolaso abbia agito per il meglio, secondo le informazioni in suo possesso. Ha denunciato gli allarmismi di Giuliani, ma nel contempo ha riunito la Commissione Grandi rischi con i più autorevoli sismologi italiani, mettendo in preallarme le strutture della Protezione civile, che a quanto sembra hanno prestato un soccorso tempestivo e di proporzioni adeguate alle dimensioni della tragedia.

D'altra parte però bisogna riconoscere che effettivamente lo sciame sismico che stava interessando l'Abruzzo era anomalo, perché se è vero che di solito questi sciami passano senza eventi rilevanti, questa volta molte scosse erano state avvertite dalla popolazione, e una di queste il 31 marzo aveva raggiunto una più che allarmante magnitudo 4. Uno sciame anomalo che forse avrebbe dovuto destare maggiori preoccupazioni nei nostri sismologi "ufficiali", visto anche che l'Abruzzo risulta dalle loro mappe tra le regioni a più elevato grado di pericolosità sismica. E' vero poi che Franco Barberi, vicepresidente della Commissione Grandi rischi, è lo stesso Barberi che da capo della Protezione civile la mattina dopo la prima scossa del terremoto di Assisi nel 1997 disse che sarebbero seguite solo scosse di assestamento minori rispetto all'evento della notte, mentre alle 11.42 una seconda e più devastante scossa colpì la zona, facendo crollare la volta della Basilica.

Se i terremoti non sono prevedibili, come ci dicono dall'Ingv, perché così spesso dopo un terremoto di una certa intensità ci assicurano che seguiranno solo scosse minori? Come fanno a saperlo? Non lo sanno affatto: una cosa che i terremoti dell'Umbria del 1997 e di ieri ci hanno dimostrato è che un forte terremoto non sempre e comunque è seguito solo da scosse di assestamento, ma a volte anche da scosse di potenza maggiore.

E' vero inoltre che dal punto di vista scientifico è discutibile non aspettare che le proprie teorie ricevano una verifica da parte della comunità scientifica prima di basare su di esse allarmi rivolti ai sindaci e alla stampa, alla quale ci si rivolge di regola solo dopo una pubblicazione. E' anche vero però che spesso le scoperte più importanti sono merito di personaggi al di fuori, o addirittura estromessi dalla scienza "ufficiale", e che la nostra comunità scientifica è particolarmente chiusa, asfittica e oligarchica, ed è difficile che le risorse seguano il merito. E' vero che la sensazionale "scoperta" di Giuliani non è stata pubblicata su nessuna rivista scientifica, ma è anche vero che non è facile pubblicare se non si ricevono i fondi adeguati e se non si fa parte delle conventicole giuste.

Insomma, non sarebbe stato prudente dare credito all'allarme di Giuliani, che tra l'altro non avrebbe salvato alcuna vita. Tuttavia, sarà solo un «perito elettronico», può essere stato solo un caso, ma siccome innegabilmente è andato molto, molto vicino alla previsione che avrebbe fatto la differenza, piuttosto che dargli dell'«imbecille», rinnegarlo come dipendente, come ha fatto l'Infn, o screditarlo (è solo un «tecnico, non un ricercatore», che lavora sui terremoti «a scopo personale») come ha fatto l'Inaf, Bertolaso, Boschi e i nostri istituti nazionali dovrebbero spiegare pacatamente all'opinione pubblica che non siamo ancora in grado di giustificare un'evacuazione su basi scientifiche, ma che allo stesso tempo alle ricerche di Giuliani verrà dato tutto lo spazio, l'attenzione e le risorse che meritano, e che verrà coinvolto in quelle che sono in corso.

Friday, April 03, 2009

Le regole del gioco sono cambiate anche per la Cina

La proposta "shock" lanciata la settimana scorsa dal presidente della Banca centrale cinese, di sostituire in futuro il dollaro come valuta di riserva internazionale con una moneta unica mondiale gestita dal FMI, rappresenta sì una sfida alla centralità degli Stati Uniti nell'ordine economico internazionale, ma rivela anche la preoccupazione e la fragilità di Pechino, come fa notare Paul Krugman: «Il discorso di Mr. Zhou è in realtà un'ammissione di debolezza. In effetti sta dicendo che la Cina è caduta da sola in una sorta di "trappola del dollaro", e che non può né uscirne da sola, né cambiare le politiche che ce l'hanno fatta finire».

Grazie al loro surplus commerciale, e tenendo il valore dello yuan più o meno fisso rispetto al dollaro, i cinesi hanno potuto accumulare miliardi di dollari in Buoni del Tesoro Usa, titoli tra i più sicuri ma anche poco redditizi. Non c'è stata una strategia dietro, secondo Krugman, ma ora i leader cinesi hanno realizzato di avere un problema. «Circa il 70% dei loro asset sono valutati in dollari, quindi ogni futura caduta del valore del dollaro significherebbe una grossa perdita di capitale per la Cina».

Gli "Special Drawing Rights" (SDR), che i cinesi vorrebbero come moneta unica mondiale di riserva al posto del dollaro, sono legati al valore di un "paniere" di monete reali: dollari, euro, sterline e yen. E nulla impedisce ai cinesi di diversificare le loro riserve in modo simile alla composizione degli SDR, se non il fatto che ora, avendo così tanti dollari, non possono venderli senza far cadere il valore del dollaro determinando le perdite che temono.

I leader cinesi, osserva Krugman, non hanno afferrato che le regole del gioco sono cambiate. «Due anni fa vivevamo in un mondo nel quale la Cina poteva risparmiare molto più di quanto investiva... Quel mondo non c'è più». Lasciando Krugman, che è convinto che la crisi durerà ancora anni perché né cinesi, né americani, né europei, né giapponesi hanno ancora capito i terribili cambiamenti che questa crisi globale ci costringe ad affrontare, torniamo alla Cina.

Le regole sono cambiate non solo per l'America e l'occidente, ma anche per la Cina. Ed è probabile che se la crisi pone una sfida all'egemonia americana e occidentale, alla centralità degli Usa nel sistema finanziario internazionale, getta le basi anche per una sfida all'emergente superpotenza cinese. Non è detto che il suo modello di sviluppo, capitalismo senza libertà e democrazia, che secondo alcuni dovrebbe soppiantare quello americano, uscirà indenne - anzi, vincitore e dominante - dalla crisi.

Le regole del gioco sono cambiate anche per la Cina, scrive Krugman. I suoi leader non vogliono che sia democratica perché non riuscirebbero più a governare un modello di sviluppo capitalistico finora basato sul dumping sociale. Peccato che per riequilibrare il sistema che ha portato la Cina nella "trappola del dollaro" di cui parla Krugman (e che in definitiva ci ha portati in questa crisi), Pechino non potrà più permettersi di giocare solo sull'export e sul dumping sociale, ma dovrà accettare le nuove regole del gioco e fare qualcosa che guarda caso ha cercato fino ad oggi di ritardare.

Qualcosa che il presidente della Banca mondiale Zoellick ha descritto molto bene ai leader cinesi: la Cina dovrebbe attuare riforme per «aumentare le protezioni sociali, i salari, l'efficienza del settore dei servizi», in modo da «accrescere i consumi e le importazioni». In particolare, «dovrebbe promuovere il settore bancario locale per servire in modo migliore le piccole e medie imprese». Lo scarso accesso al credito di cui usufruiscono ad oggi le imprese più piccole, infatti, «ritarda la crescita, limita l'occupazione ed esercita una pressione verso il basso sui salari». In poche parole, la Cina deve espandere la sua domanda interna, adottare politiche che mettano i suoi cittadini nelle condizioni di acquistare più prodotti e servizi occidentali, promuovere la libertà di piccola e media impresa.

Non mi pare una sfida da poco per il Partito comunista di Pechino: si tratta di promuovere la libertà economica, di consumi e di impresa, non più solo a beneficio di una cerchia relativamente stretta di uomini d'affari e di establishment, che rimarrebbero sempre grati al regime.

E c'è già chi dall'interno del regime invita la leadership a non commettere il grave errore di concentrarsi solo sui problemi economici accantonando il dibattito per una maggior democrazia. Si tratta dell'opinione di Yu Keping, alto funzionario del Partito comunista e vicedirettore del Central Compilation and Transition Bureau, importante organo di indirizzo del Pc, pubblicata su China Comment, bisettimanale dell'agenzia ufficiale Xinhua. Yu, riporta Asianews, «non contesta la centralità del Pc, né la necessità di ordine, obbedienza e centralizzazione a favore del potere centrale, ma ritiene necessario "un incremento della democrazia con l'introduzione di alcune riforme radicali"». Siamo solo all'inizio.

G20, ritorno alla realtà

Tutti contenti al G20 di Londra. Al di là del Fondo monetario internazionale, tra i vincitori ci sono gli Usa. Ok, Obama non ha ottenuto dagli europei un vero e proprio stimolo fiscale (per fortuna), ma attravero il FMI e la Banca mondiale altri mille miliardi di dollari verranno messi in circolo nell'economia mondiale: 500 miliardi di dollari in più al Fondo monetario internazionale, le cui risorse per sostenere le economie in difficoltà passano da 250 a 750 miliardi; 250 miliardi di dollari per sostenere la ripresa del commercio mondiale; e altri 250 miliardi nella linea di credito costituita dai cosiddetti "diritti speciali di prelievo" per le economie dei Paesi in via di sviluppo.

Accontentate anche Francia e Germania, nella loro richiesta di un più rigido controllo sugli hedge funds e nella loro ossessiva guerra ai "paradisi fiscali", che non c'entrano niente con la crisi, ma c'entrano con la necessità tutta politica di rispondere alle pulsioni populiste delle opinioni pubbliche contro il mondo della finanza. «Addio paradisi fiscali», ha potuto annunciare trionfalmente Sarkozy. Compariranno in una "lista nera" compilata dall'Ocse e quelli che non coopereranno saranno oggetto di sanzioni. «L'era della segretezza bancaria è finita», si legge nel comunicato di Londra. Ma è molto meno di quel più grande e più centralizzato sistema di regolazione finanziaria globale che alcuni paesi europei volevano.

Escono sconfitti i top manager, le cui remunerazioni e bonus saranno legati alla performance complessiva e di lungo periodo dell'impresa, i trader e le banche, che saranno sottoposti a requisiti di capitale più severi e a controlli più rigidi della leva finanziaria.

Annunciato anche un approccio comune per ripulire le banche dagli "asset tossici" e un nuovo Consiglio per la stabilità finanziaria globale, per una maggiore cooperazione internazionale nella vigilanza. Infine, la messa all'indice dei paesi che non rispettano le regole internazionali del commercio dovrebbe scongiurare un ritorno al protezionismo, anche se la maggior parte delle nazioni del G20 ha adottato striscianti misure protezionistiche fin dall'inizio della crisi.

Al di là dei toni entusiastici, e di quel numero facile da ricordare - 1000 miliardi - secondo il Wall Street Journal il G20 ha segnato un ritorno alla realtà, ai fatti. Dietro l'altisonante annuncio del «più grande stimolo fiscale e monetario e del più completo programma di sostegno del settore finanziario dei tempi moderni», si intravede, molto meno visibile, nascosto nel mezzo del comunicato finale, un paragrafo sulle "exit strategies" per assicurare la «stabilità dei prezzi». «E' rassicurante», perché «indica che c'è almeno una qualche consapevolezza del fatto che la strategia promossa dagli Usa di stampare migliaia di miliardi di dollari per finanziare lo stimolo globale porta con sé la minaccia di una futura inflazione piuttosto significativa - a meno che le banche centrali non restringano questa politica monetaria espansiva prima che arrivi l'inflazione».

Un'altra prova di realismo è che «la maggior parte degli altri impegni dovranno essere attuati non da un'unica entità chiamata G20, ma da 20 o più singole nazioni sovrane». Anche il proposito di eliminare i "paradisi fiscali" sembra più che altro un «disperato tentativo» da parte di quelle nazioni la cui spesa pubblica ha raggiunto un livello tale che sono disperatamente alla ricerca di introiti fiscali. «Se la vera questione fosse l'"armonizzazione" fiscale attraverso i confini a livelli relativamente alti di tassazione, ci sarebbe da chiedersi dove il mondo troverà gli incentivi per una nuova crescita economica».

«Ciò che è emerso a Londra - conclude il WSJ - suggerisce che questi leader riconoscono di essere mortali e che il loro vero lavoro per la ripresa economica dovrà ricominciare quando i loro aerei li avranno riportati a casa».

La strategia minoritaria del Pd

D'Alema, Bersani, il segretario Franceschini, 115 parlamentari, la benedizione dei veltroniani. Alla fine tutti in piazza appassionatamente insieme al sindacato più anti-moderno e conservatore dell'occidente. Quella Cgil che domani manifesta, tra le altre cose, contro la riforma contrattuale accettata invece da Cisl e Uil. Ci sarà, o ha comunque aderito convintamente, tutto lo stato maggiore del Pd, che si appiattisce sempre di più sulle posizioni anacronistiche della Cgil.

E questo dovrebbe essere il partito riformista che si propone per governare l'Italia? Un partito che in quanto a riformismo si fa scavalcare da Cisl e Uil?

Al contrario di molti penso che rispetto ai sondaggi catastrofici (20-22%), il Pd alle europee riuscirà a recuperare, forse persino ad avvicinarsi al 29-30%, quanto basta per sentirli festeggiare la "grande" rimonta in arrivo.

Ma in un sistema ormai saldamente bipolare e quasi bipartitico, per capire se un partito è davvero competitivo non bisogna guarda solo a quanti voti, ma anche a quali, e dove li va a pescare. La strategia di questi mesi, accentuata ancora di più dopo le dimissioni di Veltroni, è quella di recuperare voti a sinistra. Ebbene, non sono quelli i voti con i quali possono pensare di arrivare a guidare il Paese.

Il Cav. e il PdL possono - per ora - dormire sonni tranquilli, perché magari al 30-35% in qualche anno ci arrivano di nuovo, ma con quella strategia di certo non vanno oltre.

Thursday, April 02, 2009

Legge 40, imparate la lezione

Avete sostenuto, difeso, fatto campagna per una legge incostituzionale. La Chiesa cattolica, è bene sottolinearlo, ha sostenuto e difeso una legge incostituzionale. Contro i valori su cui è fondata la nostra democrazia, in particolare quelli sanciti dagli articoli 2, 3 e 32 della Carta costituzionale. E si badi bene, al di là del diritto alla salute (art. 32), non si tratta di articoli retorici o tecnici, ma davvero dei principi fondamentali del liberalismo: i «diritti inviolabili dell'uomo» (art. 2); la dignità, la libertà e l'eguaglianza dei cittadini (art. 3). Se fossi in voi - in tutti quanti hanno sostenuto, difeso, fatto campagna per quella legge, al fianco della Cei - proverei un po' di vergogna quanto meno a definirmi liberale.

La "vittoria" di Pirro del referendum - ottenuta sfruttando oltre il 50% di astensione fisiologica - non è bastata a rendere la Legge 40 migliore di quella che era. Ora la Corte costituzionale dichiara illegittimo il comma 2 dell'art. 14, il limite dei tre embrioni, il cuore stesso della legge, e il comma 3 del medesimo articolo, «nella parte in cui non prevede che il trasferimento degli embrioni, da realizzare non appena possibile, come previsto in tale norma, debba essere effettuato senza pregiudizio della salute della donna», di fatto aprendo alla crioconservazione degli embrioni in vista di eventuali impianti successivi.

E' bene anche ricordare che bocciatura «parziale» non si significa che il resto della legge è costituzionale. La Corte non ha dichiarato costituzionali le altre parti della legge rimaste in piedi, semplicemente perché non ha esaminato la legge nel suo complesso, ma solo due norme. Ed entrambe sono cadute. La bocciatura quindi è totale, perché la Corte ha dichiarato incostituzionali tutte le norme su cui ha ritenuto di potersi esprimere.

La Corte infatti può esprimersi solo su questioni di legittimità strettamente riguardanti i giudizi da cui hanno avuto origine i ricorsi. Nel dichiarare inammissibili le questioni di legittimità sugli articoli 6, comma 3, e 14, commi 1 e 4 (la crioconservazione degli embrioni e la riduzione embrionaria), la Corte non li ha affatto dichiarati costituzionali, ma ha semplicemente rifiutato di esprimersi per «difetto di rilevanza nei giudizi principali». Poiché, in parole povere, ha ritenuto che quegli articoli non c'entrassero niente con i procedimenti giudiziari da cui erano partiti i ricorsi alla Consulta.

Particolarmente opportuno il commento di Fini: «Quando una legge si basa su dogmi di tipo etico-religioso, è sempre suscettibile di censure di costituzionalità, in ragione della laicità delle nostre istituzioni». Ed è esattamente questo ciò che si sta ripetendo sul testamento biologico.

Chi ha preso questa bella mazzata dalla Corte già sulla procreazione assistita farebbe bene a imparare la lezione e a non commettere lo stesso errore con quella porcheria incostituzionale sul testamento biologico. Sbagliare è umano, ma perseverare è diabolico. C'è ancora tempo per non esporsi ad una seconda figuraccia. Pensateci bene.

Wednesday, April 01, 2009

G20, la crisi è una sfida al potere Usa. Ma anche al regime di Pechino

La maggior parte dei commentatori e degli analisti sono pessimisti riguardo l'esito del G20 che si apre domani a Londra. Il Times parla di «aspettative contenute» e Martin Wolf, sul Financial Times, prevede che «il G20 non affronterà la grande sfida». Si affronteranno due diversi approcci. Il presidente americano Barack Obama (con il premier britannico Brown) è concentrato sulla stabilizzazione del sistema bancario e chiede all'Europa di stimolare di più la crescita attraverso la spesa pubblica, mentre Francia e Germania ritengono di aver già fatto abbastanza e ora mirano a una regolamentazione più severa - da alcuni giudicata persino eccessivamente punitiva - della finanza globale, minacciando di far fallire il vertice.

Sebbene - osserva il Wall Street Journal - Obama ammetta le responsabilità degli Usa in questa crisi e l'inadeguatezza delle regole, e sebbene sembri aver rinunciato all'idea di convincere gli altri paesi ad approvare più ampi pacchetti di stimolo, tuttavia il presidente Usa avverte che «il resto del mondo non può contare esclusivamente sugli Stati Uniti e i suoi consumatori per rilanciare la crescita globale». Non possono essere solo gli Stati Uniti il «motore» della crescita, «tutti devono camminare di pari passo».

Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha spiegato la sua posizione sulle pagine del Washington Post. La priorità ora non è approvare nuove misure anti-crisi, ma «riformare il sistema finanziario internazionale e ricostruire, insieme, una forma meglio regolata di capitalismo, con un maggiore senso di moralità e solidarietà». A suo avviso è questa la «precondizione per mobilitare l'economia globale» e garantire una «crescita sostenibile». «Abbiamo già tenuto alla larga lo spettro del protezionismo», e molte nazioni hanno già provveduto a sostenere le loro economie con «ambiziosi pacchetti di stimolo, accrescendo in modo significativo la spesa per il welfare collegato alla crisi», spiega Sarkozy quasi rispondendo alle richieste dell'amministrazione Usa. Adesso «dobbiamo attribuire la stessa urgenza alla riforma della regolamentazione dei mercati finanziari» e «offrire molto più spazio alle nazioni emergenti» in tutti gli organismi internazionali, soprattutto nelle istituzioni finanziarie internazionali.

Secondo Alvaro Vargas Llosa, nel mezzo di questa crisi l'unica «voce di buon senso» è quella di Angela Merkel, di cui ammira (come alcune settimane fa il Wall Street Journal) la responsabilità fiscale. «Nel mezzo del panico di questi giorni, con i governi che creano, prestano e spendono soldi come marinai ubriachi, la cancelliera tedesca si è rivelata la coscienza critica del mondo sviluppato. Tra tutti i leader è l'unica ad averci ricordato l'origine dei problemi attuali e perché il rimedio preso da quasi tutti i governi è pericoloso: "Stavamo vivendo al di là le nostre possibilità... dopo la crisi asiatica e l'11 settembre, per sostenere la crescita i governi hanno incoraggiato l'assunzione di rischi eccessivi, riversando soldi sempre più a minor costo nel sistema finanziario"», scriveva la Merkel sul Financial Times. «In risposta alle pressioni dell'amministrazione Usa per aumentare la spesa pubblica, quindi, la Merkel ha fatto notare che "questa crisi non si è verificata perché abbiamo emesso troppo poco denaro, ma perché abbiamo creato crescita economica con troppo denaro, e non è stata una crescita sostenibile"».

Poi c'è chi, come Irwin Stelzer, sul Weekly Standard, ritiene che il vero problema non verrà affrontato dal G20, ma da un "G2" Usa-Cina. «La maggior parte delle nazioni respingeranno la richiesta di Obama di adeguarsi al suo pacchetto di stimolo. I britannici lo farebbero, ma Gordon Brown ha speso così tanto in welfare che le sue casse sono vuote». La cancelliera tedesca Angela Merkel non vuole rischiare di alimentare l'inflazione e «la Francia di Sarkozy intende usare misure protezionistiche per mitigare il declino del suo paese, non importa che furono misure simili ad aggravare e a prolungare la Grande Depressione».

I leader del G20, prevede Stelzer, «prometteranno ancora di evitare il protezionismo, daranno qualche aiuto ai paesi in via di sviluppo, aumentando i contributi al Fondo monetario internazionale, e diranno qualcosa sulla necessità che i regolatori finanziari cooperino di più tra di loro. Tuttavia, non concederanno a Obama più che una retorica annacquata circa la necessità che tutti i paesi contribuiscano alla ripresa dell'economia. Mentre Obama respingerà gli appelli franco-tedeschi per una regolamentazione oppressiva del sistema finanziario».

Per capire davvero cosa sta succedendo non bisogna guardare al G20, ma al G2: America e Cina. «La Cina è seduta su oltre mille miliardi di titoli di debito americani», che ha comprato con i dollari guadagnati grazie alle sue esportazioni. «Ora è preoccupata che Obama dovrà finanziare il suo ampio deficit riversando sul mercato altri Bot Usa sotto costo e che il governatore della Fed, Bernanke, ridurrà il valore della sua riserva di dollari quando manterrà la promessa di stamparne altri miliardi».

Ciò che davvero sta accadendo, quindi, osserva Stelzer, è «l'inizio di un accordo tra Cina e Stati Uniti per riequilibrare il sistema mondiale»: «La Cina ha bisogno di investire di più al suo interno per far sì che i suoi consumatori possano acquistare più nostri prodotti, e noi dobbiamo risparmiare e investire di più in modo da non mandare così tanti dollari in Cina. Perché quando i cinesi usano questi dollari per comprare i Buoni del Tesoro Usa, fanno scendere i tassi di interesse e incoraggiano quel tipo di indebitamento che ha portato alla rovina così tante nostre banche e così tanti consumatori». Se bisogna rilanciare l'economia mondiale, conclude Stelzer, «noi abbiamo bisogno della Cina e la Cina di noi». Il resto sono dettagli. «E la Cina non assumerà alcun ruolo finché non gli verrà riconosciuta la posizione che sente di meritare come superpotenza emergente».

Dunque, l'uscita dalla crisi passa inevitabilmente per una sfida all'egemonia americana e occidentale, alla centralità degli Usa nel sistema finanziario internazionale, ma a ben vedere getta le basi anche per una sfida all'autorità del Partito comunista cinese.

Per riequilibrare il sistema, infatti, Pechino dovrà fare qualcosa che guarda caso ha cercato fino ad oggi di ritardare, giocando quasi esclusivamente sull'export: espandere la sua domanda interna, adottare politiche che mettano i suoi cittadini nelle condizioni di acquistare più prodotti e servizi americani (e occidentali) e di godere di una maggiore libertà di piccola-media impresa, diffusa e rivolta al mercato interno. Ciò potrebbe determinare un'apertura senza precedenti, una vera apertura, della Cina al mondo (finora infatti la Cina si è "aperta" al mondo soprattutto tramite le sue esportazioni). Significherebbe l'ingresso nel mercato di una domanda che va ben oltre una relativamente stretta cerchia di uomini d'affari e di establishment che in un modo o nell'altro devono il loro benessere al regime.

Un'apertura che negli anni potrebbe cambiare gli stili di vita e la mentalità di decine, centinaia di milioni di cinesi. Ma soprattutto, assaporando la pluralità e la qualità di un mercato in cui si trovano finalmente nelle condizioni per poter giocare un ruolo da protagonisti, sia sul lato della domanda che dell'offerta, potrebbe mutare radicalmente la loro concezione del rapporto tra stato e cittadino. Il monopartitismo reggerà all'impatto? Saprà rispondere alla crescente domanda di libertà anche politiche? Può darsi, ma è certo che una sfida senza precedenti aspetta anche il regime di Pechino.

Non cedere alla tentazione di spendere in deficit

Anche l'Ocse è piena di comunisti? Da come ieri Berlusconi ha apostrofato l'organizzazione («Prima non sono stati capaci di prevedere la crisi e poi fanno previsioni negative. Ma state zitti...») sembrerebbe pensarla così. La colpa dell'Ocse è aver stimato, nel suo rapporto di marzo, il PIL dell'Italia in calo del 4,3% nel 2009. Per effetto del calo del PIL, il rapporto deficit/PIL potrebbe salire al 5% e addirittura al 6 nel 2010. Infatti, si osserva nelle pagine del rapporto dedicate all'Italia, l'estensione degli ammortizzatori sociali e gli aiuti alle famiglie a basso reddito decisi dal governo non hanno influito negativamente sulla spesa, essendo stati compensati da tagli su altre voci.

A beneficio della polemica politica interna, il governo potrebbe accontentarsi di rivendicare che secondo l'Ocse «ci sono limiti alle misure fiscali» dell'Italia, e «con un alto debito pubblico e un mercato» dei titoli di stato «nervoso», «non molto di più può essere fatto». Sul lato della spesa, insomma, l'organizzazione sembra riconoscere che, dato il debito pubblico, il governo ha già fatto quanto poteva. Piuttosto, suggerisce, dovrebbe focalizzarsi sul consolidamento del bilancio nel lungo termine, accelerando o estendendo la riforma delle pensioni e migliorando l'efficienza della pubblica amministrazione.

Proprio nel momento in cui l'Ocse riconosce al governo di aver speso quanto poteva, Berlusconi per la prima volta ipotizza di spendere aumentando il deficit: «Se dovessimo sfondare il tetto del deficit e del debito per affrontare spese importanti lo faremo». Si prepara quindi a sovvertire l'unico aspetto fin qui apprezzabile della politica di Tremonti, la cautela sul fronte del deficit e del debito. In piena recessione il rapporto deficit/PIL tende ad aumentare anche a deficit invariato, perché diminuisce il PIL. Quindi, mettersi ad aumentare il deficit mentre il PIL cala, con un debito già oltre il 100%, è letteralmente suicida e il cosiddetto downgrade del debito finirebbero per pagarlo gli stessi che il premier vorrebbe aiutare con la spesa in deficit.

Più che dai dati e dalle previsioni sulla crisi economica, Berlusconi è spaventato dalla possibilità di una crisi di consenso politico. E' un errore comune, e comprensibile, nei momenti di crisi, quello dei governi che sia negli Stati Uniti che in Europa cercano di non perdere consensi assecondando le pulsioni populiste, da una parte contro il mondo della finanza, dall'altra aumentando la spesa sociale. Ma se in un momento di crisi gli ammortizzatori e le politiche sociali vanno certamente rafforzati, i governi non dovrebbero dimenticare che il vero obiettivo non è garantire a tutti generosi sussidi di disoccupazione, ma favorire la ripresa economica in modo che tutti tornino a lavorare (per esempio, potremmo deciderci a varare quelle riforme a "costo zero" di cui avremmo bisogno).

Il know how della Fiat a Chrysler

La Fiat ha già trasferito alla Chrysler il suo esclusivo know how: come "socializzare" le perdite. In questo a Torino sono leader mondiali.

«Bancarotta o no, qui il problema più grande - avvertiva ieri il Wall Street Journal - è la politica industriale di Washington. Anche se Chrysler approvasse la fusione e GM si ristrutturasse, Obama vuole che le due compagnie producano il tipo di auto che piace ai politici, non importa se i consumatori vogliono comprarle o meno. In altre parole, l'idea di politica industriale di Obama contrasta direttamente con una strategia per riportare al profitto le due compagnie prima possibile. Per aiutarle a vendere macchine indesiderate, Obama ha promesso che saranno i contribuenti a garantire. E ha sollecitato il Congresso ad approvare un nuovo programma di incentivi per l'acquisto di aiuto più pulite».

In poche parole, ci sta dicendo il WSJ, con la scusa di salvarle la Casa Bianca impone alle industrie automobilistiche una linea produttiva che risponde non alla domanda ma ad una posizione politica.