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Thursday, October 12, 2006

Corea del Nord. E ora che fare?

Kim Jong Il come rappresentato nel film Team AmericaGli obiettivi di uno Stato «revisionista». Chi ci guadagna dalla caduta di Kim? Per la Cina l'atomica nordcoreana potrebbe essere il male minore rispetto a una penisola riunificata, democratica e alleata degli Usa

Lunedì mattina, alle 10.36 locali (le 3.36 in Italia), la Corea del Nord ha effettuato «con successo», stando agli organi di informazione del regime di Pyongyang, il test nucleare sotterraneo già annunciato nei giorni precedenti.

Dopo le condanne unanimi, alle Nazioni Unite è emersa un'intesa tra Giappone e Stati Uniti per l'approvazione di una risoluzione che prevedesse anche l'uso della forza. Ma l'ipotesi è stata subito bocciata da Corea del Sud e Cina: per il governo di Pechino un attacco è «inimmaginabile». Washington allora ha cominciato a lavorare a una lista di sanzioni, tra cui diverse forme di embargo.

«Stiamo ancora valutando la veridicità del test nucleare della Corea del Nord», ha precisato ieri Bush, anche se l'annuncio stesso rappresenta di per sé «una seria minaccia» cui si dovrà rispondere con «serie ripercussioni». Gli Stati Uniti stanno lavorando alle misure da prendere «con i partner nella regione e nel Consiglio di Sicurezza Onu», ma si riservano, ha chiarito il presidente, «tutte le opzioni» per difendere gli «amici nella regione». E' chiaro che senza l'attiva collaborazione della Cina nessuna sanzione, né alcuna forma di embargo, avrebbe effetto. Un embargo severo potrebbe portare al collasso il regime nordcoreano e non è detto che la Cina sia interessata a che ciò avvenga. Oltre al rischio ondata di profughi, perderebbe una carta diplomatica che può giocare su altri tavoli aperti con Usa e Giappone.

Ma per capire in quale situazione ci troviamo, e quanto sia lontana dal soddisfarci, serve uno sforzo d'immaginazione: quale sarebbe lo scenario più desiderabile nel Nord Est asiatico? Vedere riunificata la penisola coreana sotto istituzioni libere e democratiche. Vedere Stati Uniti, Giappone e Australia collaborare per risollevare economicamente il Nord, con un ruolo positivo della Cina.

Proprio Pechino però avrebbe avuto molto da ridire su una sistemazione di questo genere per la Corea. Avrebbe visto crescere, ai suoi confini, una Corea unificata alleata naturale di Washington. La Cina, dunque, sta giocando il ruolo di una potenza per lo status quo e l'atomica di Kim a Pechino dev'essere vista come il male minore. Posto quello come lo scenario più desiderabile chiediamoci cosa abbiano fatto in tutti questi anni gli attori internazionali coinvolti, Stati Uniti in primis, per renderlo più probabile: nulla, sembra, o comunque poco e male. Hanno anch'essi lavorato al mantenimento dello status quo, invece di tentare un dialogo concreto con i cinesi per il suo superamento verso lo scenario desiderabile. Si sarebbe trattato di rassicurare Pechino che la nuova stabilità non avrebbe rappresentato una minaccia, ma un'opportunità.

Ma adesso? Cosa c'è nella mente di Kim Jong Il nessuno può saperlo, essendo il regime così impenetrabile e il personaggio imprevedibile. Tuttavia, considerando il forte culto della personalità, non bisogna attribuire ai piani del dittatore un'eccessiva razionalità e ragionevolezza, come certe analisi di stampo "realista" indulgono a fare. Primum vivere, ma non credo che i piani di Kim Jong Il si limitino a ottenere da Washington una promessa di non-aggressione e a veder garantita la sopravvivenza del suo regime attraverso aiuti e denaro. Certo, Kim non rifiuterebbe queste "carote", ma la paranoia è un connotato essenziale di questi regimi e la difesa dal nemico esterno uno strumento irrinunciabile per mantenere il potere.

Mancano spesso, nelle analisi "realiste", due elementi a mio avviso fondamentali: la natura del regime e la psicologia umana dei dittatori. Non di rado, esercitando il loro potere nel più totale isolamento e nel sospetto, e circondati da corti intente a compiacerli, perdono del tutto il contatto con la realtà, illudendosi di avere la forza di lanciare sfide eroiche che poi si risolvono in atroci massacri per i loro popoli. Così è accaduto, come ipotizzano alcuni (tra cui David Kay), che Saddam si illudesse di possedere davvero formidabili armi, o che fosse indotto a credere che Francia e Russia avrebbero impedito l'attacco anglo-americano.

Tra gli analisti più competenti di Corea del Nord c'è senz'altro Nicholas Eberstadt, autore del libro A New International Engagement Framework for North Korea? (2004), che sul Wall Street Journal ha indicato i possibili obiettivi di Kim Jong Il, a mio modo di vedere più verosimili di altri: «Distruggere il sistema di sicurezza messo in piedi dagli Usa nel Nord Est asiatico; spezzare l'alleanza militare tra Stati Uniti e Corea del Sud; portare avanti il processo di riunificazione della penisola coreana alle proprie condizioni».

Questi obiettivi, certamente poco realistici, non sono però i sogni di un folle, ma avrebbero una loro coerenza con il carattere del regime di Pyongyang, che Eberstadt definisce uno Stato «revisionista», che si prefigge, cioè, di ribaltare lo status quo in Asia rispetto a tre condizioni ritenute incompatibili con la sua sopravvivenza: il predominio e il successo dell'economia capitalista nella regione; il sistema di alleanze politico-militari guidato dagli Usa; una prospera e democratica Corea del Sud ideologicamente rivale al confine.

«Rendere il mondo sicuro per Kim Jong Il non significa nient'altro che stravolgere l'attuale ordine economico, politico e militare nel Nord Est asiatico. I mezzi, attentamente scelti a questo scopo, sono le armi nucleari e i missili balistici a lunga gittata; il punto debole è proprio l'alleanza militare tra Stati Uniti e Corea del Sud».

Secondo Eberstadt, minacciare il territorio degli Stati Uniti è «il modo più efficace per rompere quell'alleanza e procedere all'unificazione incondizionata della penisola». Perché? L'analista spiega che riuscendo a tenere sotto tiro il territorio Usa, se gli americani dessero l'impressione di non essere intenzionati a esporre Seattle per difendere Seul, verrebbe minata la credibilità dell'ombrello di protezione americano sulla penisola coreana in un momento di crisi. La chiave geopolitica che Kim Jong Il vuole girare è «dissuadere il dissuasore».

Il lavorìo diplomatico di oggi nei confronti della Corea del Nord, osserva Eberstadt, somiglia a quello tra le due guerre mondiali nei confronti della Germania. Certo, con la differenza che la Germania era allora tra le maggiori potenze e oggi la Corea del Nord è lo stato più debole della zona, ma «la dinamica è per lo più la stessa: le potenze per lo status quo vogliono negoziare; la potenza revisionista vuole armarsi».

Il problema, avverte Eberstadt, è che l'alleanza tra Stati Uniti e Corea del Sud non è così solida e il cuneo di Pyongyang trova delle fenditure in cui inserirsi. Eberstadt si dilunga in modo dettagliato sui motivi di queste crepe, rintracciabili sia in decisioni politiche, economiche e militari discutibili del presidente sudcoreano Roh Moo Hyun, che denotano sfiducia nell'alleato americano, sia negli errori dell'amministrazione Bush.

Non usa mezzi termini David Frum, che sul New York Times parla di «crollo catastrofico di dodici anni di politica americana. Per tutto quel periodo, due dei più pericolosi regimi del mondo, Pakistan e Corea del Nord, hanno sviluppato armi nucleari e i missili per lanciarle. L'Iran, probabilmente il più pericoloso di tutti, certamente seguirà, a meno che qualche azione drammatica non sarà presto intrapresa».

Una «legge di ferro» della moderna diplomazia, osserva Frum, sembra essere quella che «il fallimento di qualsiasi processo diplomatico prova solo che c'è bisogno di insistere nel processo appena fallito. Così coloro che hanno a lungo sostenuto di negoziare con la Corea del Nord ora suggeriscono all'amministrazione Bush di iniziare negoziati diretti con il regime di Kim Jong Il».

C'è bisogno di un «nuovo approccio», invece, spiega Frum, che miri a tre obiettivi: «rafforzare la sicurezza degli alleati americani direttamente minacciati» (Giappone e Corea del Sud); «far pagare alla Corea del Nord un prezzo sufficientemente alto da spaventare l'Iran e ogni altro regime canaglia»; «punire la Cina, che ha fornito al paese un'immensa quantità di alimenti e aiuti energetici». Evidentemente, ipotizza, «Pechino vede un potenziale guadagno dall'instabilità che la situazione nordcoreana produce». Ma «se la Cina può agire in questo modo impunemente, cosa dissuaderà la Russia dall'aiutare il programma nucleare iraniano?».

Secondo Frum lo sviluppo e il dispiegamento di sistemi di difesa missilistici colpirebbero indirettamente la Cina, che vedrebbe diminuire il potenziale dei missili con cui intimidisce Taiwan; così come cessare ogni aiuto verso Pyongyang, invitare Giappone, Corea del Sud, Australia, Nuova Zelanda e Singapore a unirsi alla Nato - e Taiwan come osservatore - e «incoraggiare» il Giappone a dotarsi del deterrente nucleare, «cosa che Cina e Corea del Nord temono di più».

La via del negoziato è «sempre preferibile», conclude Frum, ma «quando fallisce, come ha fallito con la Corea del Nord e sta fallendo con l'Iran, i regimi canaglia devono sopportare dei costi per le loro ambizioni nucleari».

Fred Kaplan, su Slate, individua dei possibili scenari: Kim Jong Il potrebbe sfornare più bombe e venderne almeno qualcuna ai migliori offerenti; potrebbe scatenare una corsa al riarmo regionale, un'escalation e infine una guerra; l'Iran, intanto, osserva da vicino: se il mondo non ferma il piccolo, criminale regime nordcoreano, chi fermerà l'Iran ricco di petrolio?

«Senza il cibo, il carburante, e altre forme di aiuto dalla Cina - osserva Kaplan - il regime di Kim crollerebbe presto. Questo è il problema: la Cina non vuole che il regime crolli... ed è un affare davvero delicato punire Kim tanto da influenzarne le azioni ma non al punto di causarne la caduta».

L'altro Kaplan, Robert, in un recente saggio per l'Atlantic Monthly, When North Korea Falls, di cui alcuni estratti sono stati pubblicati dal Corriere della Sera, propone una lettura esattamente opposta: il collasso del regime di Pyongyang rappresenta una «minaccia», perché chiamerebbe la Cina a riempirne il vuoto.

Sostiene che «la determinazione di Kim Jong Il nel dimostrare la sua potenza missilistica e nucleare è segno della sua debolezza», ma che «lo scalpore destato dalle prove missilistiche e dalla politica del "rischio calcolato" offusca la vera minaccia: la prospettiva del collasso catastrofico della Corea del Nord. Il modo in cui si conclude il regime potrebbe determinare l'equilibrio del potere in Asia per decenni». Una crisi da cui uscirebbe come «probabile vincitrice» la Cina.

Tuttavia, questa lettura mostra un difetto: come mai la Cina sembra temere, non auspicare, il crollo del regime di Kim? Così ha agito in questi anni, moderando le richieste punitive di Usa e Giappone e fornendo a Pyongyang ingenti aiuti, determinanti nel tenere in piedi il regime. Certo, tutto sta a capire chi ci guadagna dalla caduta di Kim. Se gli Stati Uniti non hanno ancora agito con decisione, la Cina sembra convinta di perderci, ma potrebbe anche essere tentata di prevenire, preparando la successione a Kim Jong Il. Un nuovo regime, sempre totalitario e repressivo, ma più aperto agli investimenti economici e senza quelle fastidiose provocazioni nucleari, potrebbe persino risultare un compromesso accettabile alla Casa Bianca.

Secondo Peter Hayes e Tim Savage, del Nautilus Institute, la paura di Pechino — come di Seul e di Mosca - è che buttando giù il regime di Kim con le sanzioni economiche le armi nucleari possano finire nelle mani sbagliate. Quindi, in totale controtendenza, a loro avviso «proprio adesso, la risposta migliore è fare poco e non dire niente, per sminuire l'atomica di Kim» [!].

Al contrario, per Dan Blumenthal, del The Weekly Standard, il problema che impedisce di essere duri con Kim è proprio «il calcolo geopolitico di Pechino»: tutto sommato, pensano, una Corea del Nord nucleare «non è così male se l'alternativa è una Corea unificata alleata degli Stati Uniti». Perché, chiede ironicamente Blumenthal, «Kim dovrebbe preoccuparsi delle conseguenze? Gli sforzi americani e giapponesi di far esprimere disapprovazione all'Onu con riferimento alle azioni previste nel Capitolo 7, che includono l'uso della forza, è stato già respinto dai "protettori" della Corea del Nord, così l'ambasciatore Usa all'Onu John Bolton chiama Cina e Russia».

Blumenthal avverte che «il nostro messaggio dev'essere chiaro: la tua sfida ti ha isolato, ha aumentato la determinazione a buttare giù il tuo regime, e un più solido arsenale nucleare è puntato su di te». Inoltre, il «fattore Iran»: «Dobbiamo ricordarci che l'Iran sta guardando e imparando». Anche il presidente iraniano ha capito che il processo diplomatico sta garantendo al suo paese di costruirsi l'arsenale nucleare, nel contempo strappando tutti i benefici della diplomazia. «Proprio come Kim», cha una cosa l'ha imparata: «l'escalation funziona».

4 comments:

Alexis said...

In effetti le teorie realistiche che derivano dalla teoria della ragion di stato, basata sulla constatazione (giusta) della separazione della politica estera i cui fondamenti riposano sulla natura anarchica della comunità internazionale, con tutto ciò che ne deriva in termini di conflitto permanente e di necessità della politica di potenza, che può essere ridotta ma non eliminata, non dovrebbero vietare di calcolare anche influenze che sulla stessa politica estera può esercitare il regime politico interno, il quale per rinviare la propria fine, può scegliere una politica particolarmente aggressiva: si definisce bonapartismo, e gli esempi storici non mancano, quello della N.Corea è un caso probabile, vista la bancarotta del regime e la prospettiva di una riunificazione.

Anonymous said...

ottimo il commento di alexis che mi anticipa in parte. Ad alexis ricordo che il realismo classico infatti ritiene fondamentale la politica interna degli stati come determinante della loro politica estera (Carr, 1939; Morgenthau, 1948; Kissinger, 1994, Wolforth, 1993; Schweller, 1996; Zakaria, 1998).

A Jim, quindi, mi limito a dire: ottima la segnalazione di Eberstandt. Un duro e puro, come si dice dalle mie parti. D'altronde fa un ragionamento che non mi è proprio estraneo: Kim Jong Il non è pazzo, ma ha degli obiettivi. Ma non solo: Jim usa la categoria "stato revisionista". Categoria ideata da Hans Morgenthau. Do not need to add anything else. :)

AG

Anonymous said...

che fare??? piuttosto è da chiedersi che ne è delle democrazie che nei momenti cruciali si illudono a credere di poter contenere i nemici totalitari attraverso una politica di cortesia...

negli anni 70, tre presidenti americani pensarono che una politica di distensione con il pio leonid breznev avrebbe reso possibile la creazione di "una struttura di pace" tra usa e urss.

negli anni 90, un poker di premier israeliani avviarono "un processo di pace" che offrì a yasser arafat delle sostanziali ricompense, nella speranza che i palestinesi avrebbero poi accettato l'esistenza dello stato di israele.

cazzate.

ognuno di questi tentativi "diplomatici", ha nuociuto agli interessi degli stati democratici.

la politica di riconciliazione degli anni 30 stimolò le pretese tedesche, accrebbe le tensioni e fu in parte responsabile della seconda guerra mondiale.

la politica di distensione degli anni 70 contribuì a rafforzare l'arsenale militare sovietico e incoraggiò l'avventurismo del cremlino, che culminò nell'invasione dell'afghanistan.

il processo di pace degli anni 90 persuase i palestinesi della debolezza di israele, portando a un'esplosione di attentati suicidi e ad altri episodi di violenza che proseguono negli anni.

e così, ignorando i disastrosi precedenti, un altro stato democratico(?)...la corea del sud filoamericana...è ben intenzionato ad essere "gentile" con un altro nemico, totalitario e comunista...

la corea del nord ringrazia, nonostante l'invettiva di nicholas eberstadt nell'edizione autunnale di the national interest.

ed intanto, lungi dal parafrasare il regista romero...i morti camminano veramente lungo il 38° parallelo.

in parole povere, la politica del sorriso di stampo sudcoreano è illusoria...essa, inoltre, rappresenta un concreto pericolo per tutto il mondo.

il che ci riporta alla domanda posta anche qui...perché le democrazie sono talmente idiote da cullarsi beatamente al solo pensiero di poter ammansire un feroce nemico, magari dittatore comunista incallito, con sorrisi, strette di mano, osanna e magnanimità varie????

forse, l'unica verità è che non si può arginare male, siamo tutti in procinto, sud-coreani inclusi, ad incamminarcii sul sentiero della follia.

suicida.

altro che eutanasia...

forse la soluzione sta in un testo di un certo gregory...bomb...

ciao.


io ero tzunami...

Anonymous said...

Userei lo skydiver... perchè no?