Il lungo articolo di Gian Enrico Rusconi, uscito su Il Foglio qualche giorno fa, smonta gli argomenti dei vari devoti che con «toni accorati» ammoniscono di «non escludere Dio dalla sfera pubblica». Come mai, viene da chiedersi, «a fasi alterne si sente parlare di rivincita o di mortificazione della religione»?
Cosa intendono Ratzinger e Ruini, ma anche Ferrara e Pera, quando parlano di «Dio nella sfera pubblica»? L'espressione pubblica dei convincimenti dei cittadini dev'essere garantita a tutti: credenti, non credenti e diversamente credenti. E mi sembra che lo sia, se ogni settimana c'è una fiction su un qualche santo o un Papa, se Benedetto XVI può parlare a milioni di italiani attraverso i telegiornali nazionali, se i mega-eventi sono ampiamente partecipati e mediaticamente coperti, se nelle trasmissioni televisive la presenza dei porporati supera quella degli esponenti di governo, se il Concordato riconosce alla Chiesa un rapporto privilegiato con lo Stato, benefici culturali e finanziari.
E' paradossale che le più alte cariche ecclesiastiche si lamentino dell'«esclusione di Dio dalla sfera pubblica», e lo fanno proprio mentre esercitano senza restrizioni il loro ruolo nella sfera pubblica. No, non regge. A meno che per «esclusione di Dio dalla sfera pubblica» non si intendano le scarse adesioni dei cittadini all'opzione religiosa e morale cattolica, forse per «Dio nella sfera pubblica» si pretende altro: che nessuna legge contraddica i valori «non negoziabili»; che le deliberazioni dei Parlamenti siano ispirati alla morale cattolica.
C'è una bella e decisiva differenza però, spiega Rusconi, «tra sfera pubblica in generale e discorso pubblico mirato alla decisione politica». I «contesti deliberativi che portano alla produzione di leggi che devono valere per tutti» dovrebbero rimanere off-limits per schemi morali e ideologici che tocchino, limitandole, le libertà individuali, qualunque sia la loro origine. Quindi Rusconi invita a «non dissimulare come etica razionale o naturale quella che è una dottrina religiosa, storicamente e culturalmente condizionata».
Ai laici che contestano «ogni apertura del discorso pubblico ad argomenti religiosi», in quanto minaccia alla laicità delo Stato, Rusconi suggerisce di «armarsi di strumenti più sofisticati». Tempo fa anche Giuliano Amato sottolineò l'esigenza di un «aggiornamento della nozione stessa di laicità». Eppure il Novecento, con le sue tragedie, ha già prodotto l'aggiornamento della nozione ottocentesca di laicità. La nostra laicità è già «nuova». I laici sono già dotati di nuovi strumenti.
Proprio il secolo delle ideologie da cui siamo usciti ci ha insegnato che la laicità, quella «nuova», non si contrappone alla religione così, per gusto, per vezzo anti-religioso, bensì a qualsiasi pretesa, confessionale o ideologica, di monopolizzare l'etica pubblica, negando pari dignità morale ad altre visioni etiche della vita. Non vuol dire indifferenza a principi e valori, ma rinunciare all'uso autoritario del diritto, individuare i suoi limiti e la dimensione propria dell'etica. L'Italia fascista, o l'Iraq di Saddam Hussein, erano forse stati laici? Facendo riferimento a una nozione ottocentesca della laicità potremmo rispondere "sì", in quanto il loro potere legale non si fondava su una confessione religiosa. Ma l'esperienza dei totalitarismi del secolo scorso ci ha insegnato che è davvero laico solo lo Stato che non assuma per legge alcuna visione etica, neanche su temi come la famiglia, il sesso, o la scienza; e in generale non attribuisca alle leggi, al diritto positivo, alcuna funzione "educativa".
Dunque, che le leggi dello Stato sposino una visione morale o ideologica (che sia essa di ispirazione religiosa, razionalistica, o frutto dell'incontro tra fides e ratio, non fa alcuna differenza) rimane inaccettabile e incompatibile con il principio di laicità. Il che non equivale a negare che i legislatori presi singolarmente agiscano ciascuno con la propria morale. Ciò è persino ovvio. Che «laici "conservatori" si trovino di fatto, loro malgrado, dalla parte dove milita la chiesa» non scalfisce una concezione di laicità come metodo che respinge qualsiasi preteso fondamento etico o giustificazione educativa del diritto, provengano esse dalla Chiesa, dai partiti, o da qualsiasi normale civis che intenda trasferire la sua etica "buona" in leggi per tutti.
Riaprire tali questioni significa in realtà riaprire la questione teologica-politica, cioè il problema di capire fino a che punto una religione può sopportare che i suoi dogmi e precetti non vengano abbracciati dall'intera comunità e sanciti dalle sue leggi pena la credibilità stessa del dogma.
La laicità come metodo, spiega Rusconi, «lungi dal rappresentare un mascherato disimpegno dalle grandi questioni etiche sull'uomo e sul mondo, contesta la presunzione di parlare autoritativamente in nome di Dio su questioni razionalmente/ragionevolmente controverse, in particolare sul tema della natura umana...»
Il problema della Chiesa, semmai, è il «progressivo utilizzo dell'apparato teologico-dogmatico in funzione quasi esclusiva della dottrina morale e della sua pastorale. Anzi è in atto una sorta di de-teologizzazione del messaggio religioso a favore della raccomandazione morale in gran parte di carattere privato-sessuale, anche se nobilitata come "difesa della famiglia". Per non parlare dell'appello culturalista alle "radici cristiane" o all'esposizione del crocifisso in luogo pubblico considerato alla stregua di un simbolo nazional-popolare».
Per dirla in breve: la Chiesa oggi ha dismesso la funzione di guida religiosa delle anime, fa del gretto moralismo. Non diffonde la parola di Cristo, perpetua un ordine culturale e antropologico molto, molto relativo, tanto relativo da essere già sorpassato.
Concludendo il suo articolo, Rusconi prende in esame «l'insistente evocazione nel discorso pubblico delle "radici cristiane" della nostra civiltà. E' ovvio che esse sono parte integrante della genealogia della ragione occidentale, e dopo il discorso di Ratzinger a Regensburg dovremmo sempre parlare di "radici greco-cristiane"», ma ricorda che «il tratto qualificante dell'Europa politica non è l'identità cristiana ma la sua natura laica». O, meglio, le «radici cristiane diventate ragioni laiche».
In Europa credente e laico sono divenuti sinonimi, grazie al cristianesimo e al liberalesimo, e nonostante la Chiesa Cattolica. Questa è la nostra identità. Nel mondo islamico questo processo non è ancora compiuto.
5 comments:
Post perfetto, Fede.
LC
ricapitoliamo.
due precisazioni, però: la prima è che come ho già detto, i preti a me piacciono in sagrestia. la seconda...è che non so dove andrò a parare con questo mio sterile contributo se non dove già so.
alla seconda precisazione, ovviamente, segue spontanea una domanda: ma lo stato, la comunità...noi, in una parola, dove vogliamo andare a parare quanto ai rapporti con la chiesa?
questa domanda mi nasce spontanea in considerazione del problema particolare, quello della chiesa fattasi comunità...e tutte le altre tali che vivono in forma associata in un ambito territtoriale individuabile come stato. il problema, è chiaro, non è solo "la chiesa", cattolica nel nostro caso, ma tutte le società-comunità intermedie.
con tutte quante le garanzie costituzionali ad esse riconosciute.
ricapitoliamo, avevo detto; cercherò di farlo sperando di non tediarvi, visto che devo fare un salto indietro nella storia...
già lo stato totalitario, almeno nell'esperienza che ci è stata più vicina, non ripudiò il principio delle pluralità degli ordinamenti; in pratica, però, tolse ogni contenuto ai gruppi e così il principio pluralista stesso divenne solo una vuota formula giuridica. questo risultato non stupisce, visto che proprio alla stregua del principio pluralista, se attuato compiutamente, "pluralità" di gruppi vuol dire necessariamente la libertà dei gruppi stessi di formarsi, organizzarsi e di conseguenza, di porre in essere quella che può definirsi la peculiare attività, il loro operare attivo. questo era troppo per lo stato totalitario, attento più all'ordine generale piuttosto che ai bisogni vitali dei singoli gruppi che compongono la società; e così, il regime totalitario, ritenne più utile esercitarsi nel tentativo - non riuscito fino in fondo - di "rispettare" ( oggi si direbbe "in forma politicamente corretta"... ) questi gruppi, incorporandoli nelle sue stesse strutture nel tentativo di conciliare la concezione autoritaria dello stato col riconoscimento di altri ordinamenti originari.
l'esempio di scuola è quello del sindacato di stato: una pia illusione, vista la impossibilità di ricondurre ad unità i variopinti interessi in conflitto.
in reazione alla vacuità del principio pluralista, così svuotato dei suoi contenuti basilari quali la libertà e la concorrenza, di fronte all'invadenza dello stato totalitario, il pluralismo divenne un ideale politico vero e proprio, il grimaldello attraverso il quale i gruppi potevano limitare l'azione statale opponendogli proprio il loro diritto positivo, in via di emancipazione dallo stato stesso: finalmente lo stato subordinato alla società! ed è così - e per questo - che l'istanza pluralista è penetrata nelle carte costituzionali, nella nostra agli art. 2 e 5 che riguardano, rispettivamente, le formazioni sociali intermedie tra l'individuo e lo stato e le comunità territoriali dotate d'autonomia. seguendo la traccia degli artt. 2 e 18, vengono fuori le altre formazioni sociali che la nostra costituzione riconosce e garantisce: la comunità religiosa, artt. 8 e 19 ( ma anche 7 e 20 ), la famiglia, art. 29, l'organizzazione sindacale, art. 39, il partito politico, art. 49, associazioni in senso economico, artt. 41 e 42, associazioni volte alla coperazione e con carattere di mutualità, artt. 43 e 45. ora, per non tediarvi veramente, salto tutti i discorsi che si dovrebbero fare sulle teorie costituzionalistiche e non, sul rale significato dell'art. 2 della nostra costituzione relativamente ai singoli requisiti dlle società intermedie fin qui elencate; volgerò dunquela mia attenzione all'attualità di questo angolo di blog ovvero, alla sola comunità detta "chiesa", la comunità dove gli interessi in gioco sono intimi assai, di apparteneza alla comunità religiosa stessa direi. due problmi saltano subito agli occhi: i rapporti tra le diverse confessioni e quelli tra ciascuna confessione e lo stato. quanto al primo aspetto << tutte le confessioni sono ugualmente libere davanti alla legge >>, come da formula dell'art. 8 cost.; è un principio che assume particolare valore tenedo conto che segue l'art. 7, dove si riserva uno speciale trattamento alla "nostra" chiesa cattolica. qui, è chiaro, sono in gioco i rapporti tra confessione e confessione, dove ciascuna può cadere nella tentazione di approfittare della sua posizione per indurre lo stato a mortificare la frofessione di fede altra ( la nostra costituzione, all'uopo, mitiga l'art. 7 con il 20 ); relativamente al secondo aspetto della questione, sono in ballo oltre ai primi anche altri rapporti, propriamente quelli tra confessione religiosa e stato. e qui il gioco si fa oltremodo duro perché è forte, nelle "chiese", la tentazione di servirsi dello stato per assicurarsi una posizione di privilegio e determinare, attraverso essa, gli indirizzi politici dello stato stesso. la "chiesa", cattolica nel nostro caso, tende sempre a ribadire la sua natura originaria, pre-statuale se non propriamente anti-statuale; l'esperienza storica è illuminate, sempre ci ricorda che nei momenti dcisivi le "chiese" lottano per la libertà di ciascuna e di tutte le comunità religiose. Le chiese, le confessioni, le comunità religiose, chiamiamole come ci pare, le libertà delle fedi si ritrovano sempre, tutte, dalla stessa parte: contro lo stato. è nella loro natura.
tutto qui, ve lo avevo detto che rischiavo di tediarvi, anche perché sono andato a parare per l'ennesima volta in quel che già da tempo ritengo ovvero, che nei rapporti con lo stato, la chiesa, cattolica quanto a noi, non può fare a meno di esercitare e porre in essere la sua stessa essenza di "chiesa", appunto.
e nei termini fin qui detti.
mi rendo conto che per meglio spiegarvi quel che io ritengo, forse avrei fatto meglio ad evitarvi tutta 'sta pippa dal sapore scolastico ed affidarmi, invece, ad uno scritto di t.s. eliot, molto più chiarificatore piuttosto che le mie farneticazioni: << ( fra stato e chiesa ) vi sarà sempre una tensione, una tensione essenziale all'idea di una società cristiana, il segno di divisione tra una società cristiana ed una pagana. l'accordo con lo stato è solo un compromesso instabile basato su una dubbia divisione di autorità e spesso anche su una divisione di lealtà popolare; un compromesso che implica forse la speranza da parte dei dirigenti dello stato che il loro imperio durerà più del cristianesimo, ed una fede da parte della chisa che essa sopravviverà ad ogni forma particolare di organizzazione secolare. se è vero che quando chiesa e stato sono in conflitto tra loro, è la società che è malata, è altrettanto vero che quando chiesa e stato vanno troppo d'accordo tra loro, c'è qualcosa di guasto nella chiesa >>.
cco, credo proprio che le parole di eliot possono essere ripetute a tutti, anche ai cattolici che oggi sono "politicamente" impegnati.
ciao.
io ero tzunami...
Caro Federico,
grazie per questo post così succoso; mi stupisce, ogni volta che mi proietta al di fuori del dibattito, scoprire che il tema dei rapporti tra stato e chiesa sia un tema da "radicali". Questo mi fa comprendere la deriva clericale che ha inchiodato lo spazio pubblico all'interno dello spazio clericale, rinsecchendo lo spazio genuinamente laico. Siamo sempre lì, l'Italia è uno stato laico ma politicamente confessionale.
Un caro saluto,
Gabriele
A Federì e Malvì, ma non lo capite che bastano 30 secondi di ballo delle veline di Striscia per mandare a quel paese Ratzi e co?
Di questo ce ne rendiamo conto, per fortuna, ma non toglie forza, necessità e ragioni alle nostre riflessioni.
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