Dietro la vittoria tattica di Fini, ieri alla Camera, poco o nulla è cambiato. Da una parte, i suoi calcoli si stanno compiendo: la "terza gamba" della maggioranza è ormai nei fatti. Dopo la breve parentesi nel Pdl si è ricostruito una casuccia tutta sua da cui ricominciare a logorare l'invidiato Berlusconi. Un esito a cui, a quanto pare, Berlusconi per ora non può sottrarsi, ha il dovere di provare ad andare avanti. Ha dovuto subire Fini e Casini tra il 2001 e il 2006; dovrà subire Fini adesso. Inutile accapigliarsi sui numeri, autosufficienza o no è facile prevedere che i finiani quanto meno alla Camera hanno i numeri che bastano, e la volontà, di proseguire con la guerriglia nel lavoro quotidiano delle commissioni e dell'aula e sui media. Partito di governo e al tempo stesso di lotta, possibile solo nel nostro un po' bizzarro e sconclusionato sistema politico. Per di più, Fini continuerà a esercitare anche una terza parte (o parte terza?) in commedia, quella in teoria neutra e di garanzia di presidente della Camera, pulpito autorevole (?) dal quale potrà continuare a picconare il governo a cui ha appena rinnovato la fiducia. La tattica è più o meno quella della legislatura 2001-2006: logorare. E' diversa solo la nostra pazienza (è diminuita).
Ma la fiducia di ieri, e l'ormai prossimo lancio del partito, sono anche un'assunzione di responsabilità. I finiani saranno sì decisivi, ma rischiano di esserlo in negativo. Ma per un certo verso Fini è anche in un vicolo cieco: l'impressione infatti è che i finiani moderati non staccheranno mai la spina al governo, e forse non si presteranno neanche alla guerriglia; ma da Fini la sinistra e alcuni giornali si aspettano che assesti la spallata decisiva a Berlusconi, aprendo le porte a un governo tecnico, e che si opponga a certe leggi. Se non si dimostrerà in grado di farlo - e si tratta di operazioni politicamente molto costose - potrebbero venir meno certe protezioni e sponde di cui ha goduto.
Berlusconi non può farci niente, se non, come ho già scritto, giocarsi il tutto per tutto sulle riforme, andare avanti "all in" dopo "all in". In questo modo, delle due l'una: o va avanti portando a casa le riforme che servono al Paese; o si immola, ma su qualcosa per cui valga la pena e vendendo cara la pelle. Ma essenziale, ora, che recuperi il controllo dell'agenda e del dibattito politico, che si torni a discutere - bene o male che sia - di cose che il governo "fa".
Quello di Fini è un disegno messo a punto a tavolino che si rischia di non scorgere nella sua interezza se non si allarga lo sguardo ad una prospettiva temporale piuttosto ampia. Dopo aver respinto in modo sprezzante («siamo alle comiche finali») l'annuncio del "predellino" - convinto che il governo Prodi tenesse, e quindi che negli anni la leadership di Berlusconi non avrebbe retto - è costretto nell'imminenza delle elezioni anticipate ad aderire al progetto del Pdl (fuori avrebbe fatto la fine di Casini e comunque la maggior parte di An non lo avrebbe seguito), ma con il retropensiero di ricostituire appena possibile un suo partito, e quindi il vecchio assetto della Cdl che il progetto del partito unico si era proposto di superare, recuperando posizioni di rendita e potere di ricatto. Ecco perché ha deciso di non condividere la responsabilità di governo, né di assumere un ruolo di vertice nel partito, ma di sistemarsi alla presidenza della Camera, il podio ideale - come dimostra la storia recente - per condurre guerre di logoramento.
Significative due accelerazioni: la prima, quando Berlusconi ha vinto alla grande le regionali. Pur avendo mancato la scommessa sulla sua sconfitta, Fini decide di imprimere comunque, per motivi solo apparentemente inspiegabili, una svolta decisiva a quelli che fino ad allora erano stati distinguo e controcanti inoppurtuni, considerando la carica che ricopre, ma pur sempre compatibili con una normale dialettica interna alla maggioranza. Da lì in poi la critica al governo e al Pdl si fa continua e a 360 gradi, dirompente, andando a toccare le radici stesse del "berlusconismo". Fini si erge a paladino della legalità, contrapposta alla presunta impunità del Pdl, flirta con gli accusatori di Berlusconi, e arriva alla minaccia di costituire gruppi parlamentari autonomi. Tutti si chiedono perché questo strappo proprio all'indomani di una vittoria elettorale. Già, perché?
E' questo l'interrogativo chiave. Da quel momento in poi le intenzioni di Fini non possono più essere fraintese. Non c'entra più il diritto al dissenso, il ruolo di una minoranza interna, la sfida culturale sulla base di un'idea diversa, più moderna ed europea, di "destra", come anche qualcuno molto vicino a Berlusconi ha creduto, consigliando al Cav. di ricomporre, accettando il percorso, il pungolo, quindi le legittime ambizioni di Fini. Il punto è questo: non si trattava più di rispettare una dialettica interna, ma di tollerare il logoramento proprio e dell'azione di governo, fino ad allora sostenuta dai cittadini in tutte le prove elettorali. Si è citato l'esempio dei grandi partiti nelle altre democrazie occidentali. Vero è che le leadership sono contendibili, e aspramente contese, mentre in Italia i meccanismi sono un po' inceppati e un po' torbidi. Ma tutto a tempo debito, non mentre si è al governo. Ce la vedete la speaker Pelosi che organizza la fronda contro Obama?
Insomma, l'intento demolitorio è diventato evidente e se il premier, in questi giorni, alla Camera e al Senato è apparso dialogante non è perché si illuda sulle reali intenzioni di Fini, ma perché ha il dovere, nei confronti dei suoi elettori, di provare ad andare avanti, e forse scorge che alcuni finiani sono lontani dall'astio e dal rancore del loro leader.
La seconda accelerazione Fini l'ha impressa ieri, con l'annuncio della costituzione di un partito, questa volta non giustificato da nessuna presunta "cacciata". A questo punto ha di fronte a sé una scelta: o si dimette, per porsi anche formalmente alla guida del nuovo partito; oppure, segue lo schema Casini-Follini, rimanendo alla presidenza di Montecitorio mentre al vertice del partito mette uno dei suoi (Urso?). Intanto, vale la pena di annotare le flagranti anomalie istituzionali in cui Fini è incappato anche ieri. Proprio durante la seduta più "politica" dell'assemblea della Camera, sulla fiducia al governo, esercitava al tempo stesso il ruolo di capofazione e di presidente super partes. E' lui, un minuto dopo che Berlusconi finisce di parlare, ad annunciare che il suo gruppo voterà la fiducia al governo (è "inevitabile"); è lui a riunire i suoi subito dopo il discorso del premier (lasciando la presidenza dell'aula alla Bindi); è lui ad annunciare il processo di costituzione di un nuovo partito.
Thursday, September 30, 2010
Tuesday, September 28, 2010
Riforme o morte
Le elezioni costano, non è detto che risolvano alcunché, ma un governo che vivacchia e si fa logorare non ci serve. Il voto di fiducia di domani è un passaggio obbligato. Certo, con una semplice risoluzione, meno impegnativa e 'formale', sarebbe stato più facile per Berlusconi trovare nuovi consensi per raggiungere la fatidica quota 316 prescindendo dai voti dei finiani e dell'Mpa, ma sarebbe stata una maggioranza virtuale, mentre il voto di fiducia ha il merito di fare chiarezza, separare chi ci sta da chi non ci sta agli occhi dell'opinione pubblica. Una forte assunzione di responsabilità da parte di chi la vota, soprattutto in questo momento, che rende più costoso politicamente far cadere il governo un domani.
Come scrivevo un mesetto fa, l'unica arma che Berlusconi ha per sfuggire al logoramento - che probabilmente dopo il voto di domani riprenderà nelle commissioni, in aula, sui giornali e sulle tv - è portare in Parlamento riforme il più possibile di alto profilo, non accettare trattative al ribasso, alzare la posta in palio, rendendo costoso ai propri oppositori interni far cadere un governo che si mostra impegnato nel cambiamento. Se le riforme passano, per convinzione o per paura delle urne, tanto meglio per il governo (e per il Paese); se non passano, sarà crisi e voto, ma la responsabilità ricadrà su chi si sarà dissociato. Certo, portare in Parlamento riforme di alto profilo, ambiziose, organiche e qualificanti, per le quali valga la pena anche immolarsi, e sostenerle fino in fondo rimanendo compatti, non sarà facile. In questi primi due anni e mezzo il profilo riformatore del governo è stato deludente, quindi dovrà sforzarsi di cambiare passo.
Ma se è la frammentazione della politica, la dispersione del potere, come sostiene Angelo Panebianco, il male che affligge la governabilità in Italia, che rende impossibile il cambiamento e incomprensibile la politica, e se la violenta polarizzazione intorno alla figura di Berlusconi da sola non può bastare, come hanno dimostrato questi 16 anni, allora dalla palude si può uscire solo attraverso radicali riforme. Il governo ha il dovere di provarci. Allora sarebbe chiaro che chi dovesse opporsi, lo fa in nome di un malinteso senso della democrazia, e attento in realtà a conservare la propria rendita di posizione:
Come scrivevo un mesetto fa, l'unica arma che Berlusconi ha per sfuggire al logoramento - che probabilmente dopo il voto di domani riprenderà nelle commissioni, in aula, sui giornali e sulle tv - è portare in Parlamento riforme il più possibile di alto profilo, non accettare trattative al ribasso, alzare la posta in palio, rendendo costoso ai propri oppositori interni far cadere un governo che si mostra impegnato nel cambiamento. Se le riforme passano, per convinzione o per paura delle urne, tanto meglio per il governo (e per il Paese); se non passano, sarà crisi e voto, ma la responsabilità ricadrà su chi si sarà dissociato. Certo, portare in Parlamento riforme di alto profilo, ambiziose, organiche e qualificanti, per le quali valga la pena anche immolarsi, e sostenerle fino in fondo rimanendo compatti, non sarà facile. In questi primi due anni e mezzo il profilo riformatore del governo è stato deludente, quindi dovrà sforzarsi di cambiare passo.
Ma se è la frammentazione della politica, la dispersione del potere, come sostiene Angelo Panebianco, il male che affligge la governabilità in Italia, che rende impossibile il cambiamento e incomprensibile la politica, e se la violenta polarizzazione intorno alla figura di Berlusconi da sola non può bastare, come hanno dimostrato questi 16 anni, allora dalla palude si può uscire solo attraverso radicali riforme. Il governo ha il dovere di provarci. Allora sarebbe chiaro che chi dovesse opporsi, lo fa in nome di un malinteso senso della democrazia, e attento in realtà a conservare la propria rendita di posizione:
«... la dispersione del potere avvantaggia molti. Dove esistono tante fazioni e tanti poteri di veto, ogni detentore di rendite piccole o grandi sa di essere più protetto contro l'azione del governo. C'è sempre qualcuno, qualche fazione, a cui ci si può rivolgere per bloccare decisioni sgradite. La frammentazione rende la politica debole, tutela e garantisce lo status quo, rende difficili i cambiamenti che potrebbero fare bene al Paese ma male a certi interessi costituiti. Chi preferisce, e in questo Paese sono in tanti, un'eccessiva dispersione del potere, attribuendole virtù che non possiede, scambiandola per la variante italiana del meccanismo democratico dei pesi e contrappesi, ha il diritto di farlo. Ma non ha il diritto di lamentarsi se poi la politica risulta incomprensibile».
Monday, September 27, 2010
Il New Labour va in soffitta
Con la vittoria di Ed Miliband nella contesa tutta in famiglia con il fratello, "blairiano", David per la leadership del partito laburista viene sancito il ritorno all'"Old Labour". Un Labour Party dal volto giovane di Ed, ma che torna all'antica per i segmenti sociali a cui intende rivolgersi con le sue proposte. E che svolta a sinistra, tornando a illudersi di poter vincere ignorando esigenze e ambizioni del centro dell'elettorato. Naturalmente Ed direbbe che non è così, e si sforzerà per far credere il contrario. Vedremo cosa ne penseranno gli elettori.
Era prevedibile, Tony Blair ci ha provato, ma non ce l'ha fatta ad ancorare il suo partito ai principi New Labour, affinché potesse replicare lunghe stagioni al governo come la sua anziché tornare ad essere il partito di opposizione con qualche breve parentesi di governo che è sempre stato. Una preoccupazione costante dei suoi ultimi anni al potere, che emerge con forza dal suo libro di Memorie. Ma sulla direzione che avrebbe intrapreso il Labour dopo la sua uscita da Downing Street lo stesso Blair non coltivava molte illusioni. Prevedeva che se Gordon si fosse allontanato di un solo millimetro dai principi e dalla piattaforma New Labour, sarebbe andato incontro ad una sonora sconfitta. E così è stato.
Ora, con l'affermazione di Ed Miliband, si compie l'allontanamento del partito da quei principi. Ed proverà a coniugare vecchio e nuovo, a portare con sé ciò che ritiene utile dell'eredità di Blair, ma l'anima sarà "Old" e, come dice l'ex premier, basta discostarsi di un millimetro per perdere la fiducia degli elettori "New". Anche se in Italia non si percepiva, la guerra in Iraq è sempre stata solo la punta dell'iceberg dell'insofferenza che covava nella sinistra britannica per Blair e il suo New Labour, il pretesto per attaccarlo a viso aperto. Ma in realtà, il suo approccio innovativo in settori come i servizi pubblici, la scuola, la sicurezza, non andava giù e non è mai stato digerito dalla "pancia" del partito.
Il New Labour, dunque, va in soffitta e ci resterà per qualche tempo, ma non esce spazzato via - come pure qualcuno ipotizzava - dalla votazione che ha incoronato Ed, il quale pur con il sostegno dei sindacati e della sinistra, e sull'onda della volontà del partito di "purificarsi" dal blairismo, ha prevalso solo con il 50,6% dei voti contro 49,4. La sensazione, insomma, è che non trascorreranno molti anni finché qualcuno decida di raccogliere il testimone di Blair.
Era prevedibile, Tony Blair ci ha provato, ma non ce l'ha fatta ad ancorare il suo partito ai principi New Labour, affinché potesse replicare lunghe stagioni al governo come la sua anziché tornare ad essere il partito di opposizione con qualche breve parentesi di governo che è sempre stato. Una preoccupazione costante dei suoi ultimi anni al potere, che emerge con forza dal suo libro di Memorie. Ma sulla direzione che avrebbe intrapreso il Labour dopo la sua uscita da Downing Street lo stesso Blair non coltivava molte illusioni. Prevedeva che se Gordon si fosse allontanato di un solo millimetro dai principi e dalla piattaforma New Labour, sarebbe andato incontro ad una sonora sconfitta. E così è stato.
Ora, con l'affermazione di Ed Miliband, si compie l'allontanamento del partito da quei principi. Ed proverà a coniugare vecchio e nuovo, a portare con sé ciò che ritiene utile dell'eredità di Blair, ma l'anima sarà "Old" e, come dice l'ex premier, basta discostarsi di un millimetro per perdere la fiducia degli elettori "New". Anche se in Italia non si percepiva, la guerra in Iraq è sempre stata solo la punta dell'iceberg dell'insofferenza che covava nella sinistra britannica per Blair e il suo New Labour, il pretesto per attaccarlo a viso aperto. Ma in realtà, il suo approccio innovativo in settori come i servizi pubblici, la scuola, la sicurezza, non andava giù e non è mai stato digerito dalla "pancia" del partito.
Il New Labour, dunque, va in soffitta e ci resterà per qualche tempo, ma non esce spazzato via - come pure qualcuno ipotizzava - dalla votazione che ha incoronato Ed, il quale pur con il sostegno dei sindacati e della sinistra, e sull'onda della volontà del partito di "purificarsi" dal blairismo, ha prevalso solo con il 50,6% dei voti contro 49,4. La sensazione, insomma, è che non trascorreranno molti anni finché qualcuno decida di raccogliere il testimone di Blair.
Con la coda fra le gambe
Con il video di sabato Gianfranco Fini cambia la sua linea di difesa. Abbandona la spavalderia (quando la verità sarà accertata, vedrete che «ci sarà da ridere», rispondeva in modo sprezzante alle accuse da Mentana), ammette «forse una leggerezza» sul prezzo di vendita della casa di Montecarlo (solo 300 mila euro) e «una certa ingenuità» nell'averla venduta a una società off-shore di cui dice di non conoscere i titolari. E sulla proprietà dell'appartamento si limita a dire che il "cognato", Giancarlo Tulliani, «ha sempre negato con forza, pubblicamente e in privato», di esserne il proprietario, ma ha fatto capire di non credergli neanche lui. «Dubbi» e «sospetti» restano allo stesso presidente della Camera, tanto da indurlo a promettere che «se dovesse emergere con certezza che Tulliani è il proprietario e che la mia buona fede è stata tradita, non esiterei a lasciare la Presidenza della Camera».
E' la frase chiave e, politicamente, chiede a Berlusconi una tregua, fa capire di essere pronto a darsi una calmata. Così Fini cerca, in extremis, di rimanere aggrappato al suo posto alla presidenza di Montecitorio. Ma forse è troppo tardi. Colto con le mani nella marmellata, è una linea che avrebbe dovuto assumere fin dall'inizio: ammettere qualche «leggerezza», scaricare il "cognato" per aver tradito la sua «buona fede», costringendolo ad abbandonare fulmineamente l'appartamento di Montecarlo (cosa che il presidente della Camera non è ancora riuscito a ottenere). Se non è in grado neanche lui di rivelare chi c'è - o c'era - dietro le società off shore a cui ha venduto, né di smentire che Tulliani sia (o sia stato!) il vero proprietario dell'appartamento, allora non ha alcun senso accusare chicchessia di «dossieraggio», falsità, montature, eccetera.
E' la frase chiave e, politicamente, chiede a Berlusconi una tregua, fa capire di essere pronto a darsi una calmata. Così Fini cerca, in extremis, di rimanere aggrappato al suo posto alla presidenza di Montecitorio. Ma forse è troppo tardi. Colto con le mani nella marmellata, è una linea che avrebbe dovuto assumere fin dall'inizio: ammettere qualche «leggerezza», scaricare il "cognato" per aver tradito la sua «buona fede», costringendolo ad abbandonare fulmineamente l'appartamento di Montecarlo (cosa che il presidente della Camera non è ancora riuscito a ottenere). Se non è in grado neanche lui di rivelare chi c'è - o c'era - dietro le società off shore a cui ha venduto, né di smentire che Tulliani sia (o sia stato!) il vero proprietario dell'appartamento, allora non ha alcun senso accusare chicchessia di «dossieraggio», falsità, montature, eccetera.
Friday, September 24, 2010
Quale dialogo?
Pare che le sanzioni ultimamente imposte dall'Onu all'Iran, e quelle unilaterali americane ed europee, funzionino meglio del previsto. Pare. Non ho elementi per contraddire questa tesi, ma prendiamola per buona. D'altra parte, il divieto firmato dal presidente russo Medvedev di vendere armamenti a Teheran e soprattutto lo stop alla vendita del sistema di missili S-300 è un risultato innegabile e per nulla scontato. Pare, che gli iraniani stiano addivenendo a più miti consigli ed acconciandosi a riaprire al dialogo. Anche qui: pare. In effetti, le ultime uscite - al netto delle solite sparate - sembrano più aperturiste.
Ma il problema è: quale tipo di dialogo, quello fine a se stesso, nel quale gli iraniani e in genere i mediorientali sono maestri assoluti, o il mezzo per arrivare ad un risultato diplomatico concreto? Troppo spesso si dà per scontato il secondo, per poi scoprire che si trattava del dialogo del primo tipo (e intanto sono trascorsi altri mesi). Il problema della politica della «mano tesa», ora pare sia diventata una «porta aperta» (arriveremo anche al «cappello in mano»?) è di fondo. Senza un termine preciso e invalicabile, una sorta di ultimatum, è una politica che si presta a mille strumentalizzazioni. Una porta non può rimanere aperta indefinitivamente senza che qualche ladro o male intenzionato non si decida prima o poi a varcarla. Allora, forse, meglio chiuderla. E se qualche pecorella smarrita busserà, le sarà aperto.
Non mi stupirei se Teheran aprisse al dialogo. Ma con l'intenzione di dimostrare finalmente gli intenti pacifici del suo programma nucleare, oppure con l'obiettivo tattico di allentare le maglie delle sanzioni e dell'isolamento internazionale, e quello personale di Ahmadinejad di placare i suoi critici all'interno? Si dirà che l'amministrazione Obama è consapevole e ha calcolato questo rischio; si dirà che bisogna andare a vedere comunque le carte di Teheran. E sì, bisogna. Ma se non si mette un punto, questo giochetto potrebbe durare anni, senza cavare dal buco nulla di concreto. Dopo di ché, un bel giorno, la «mano tesa» te la tagliano.
Ma il problema è: quale tipo di dialogo, quello fine a se stesso, nel quale gli iraniani e in genere i mediorientali sono maestri assoluti, o il mezzo per arrivare ad un risultato diplomatico concreto? Troppo spesso si dà per scontato il secondo, per poi scoprire che si trattava del dialogo del primo tipo (e intanto sono trascorsi altri mesi). Il problema della politica della «mano tesa», ora pare sia diventata una «porta aperta» (arriveremo anche al «cappello in mano»?) è di fondo. Senza un termine preciso e invalicabile, una sorta di ultimatum, è una politica che si presta a mille strumentalizzazioni. Una porta non può rimanere aperta indefinitivamente senza che qualche ladro o male intenzionato non si decida prima o poi a varcarla. Allora, forse, meglio chiuderla. E se qualche pecorella smarrita busserà, le sarà aperto.
Non mi stupirei se Teheran aprisse al dialogo. Ma con l'intenzione di dimostrare finalmente gli intenti pacifici del suo programma nucleare, oppure con l'obiettivo tattico di allentare le maglie delle sanzioni e dell'isolamento internazionale, e quello personale di Ahmadinejad di placare i suoi critici all'interno? Si dirà che l'amministrazione Obama è consapevole e ha calcolato questo rischio; si dirà che bisogna andare a vedere comunque le carte di Teheran. E sì, bisogna. Ma se non si mette un punto, questo giochetto potrebbe durare anni, senza cavare dal buco nulla di concreto. Dopo di ché, un bel giorno, la «mano tesa» te la tagliano.
Alle comiche finiane/2
Lasciatemi dire, la ricostruzione di Bocchino ad Annozero, con tanto di agenti italiani, libici e russi, tutti a Saint Lucia a cercare di incastrare Fini, con l'aiuto di un certo Lavitola, e di un'agenzia di stampa, Il Velino, e gli articoli di oggi della Sarzanini e del "commissario Davanzoni" (che tra l'altro indicano in Capezzone il «proprietario» del Velino, mentre ha venduto la quota - di minoranza - che aveva, la primavera scorsa, e sarebbe stato facile accertarlo); ebbene, tutta questa ricostruzione (che Bordin questa mattina ha sintetizzato magnificamente «a metà tra un romanzo di Ken Follett e un film della Pantera rosa») mi conferma, almeno personalmente, che i finiani stanno alla frutta, alla disperazione. Brancolano nel buio. Se pensano che dietro alla presunta patacca ci sia "Il Velino", Vittorugo Mangiavillani, allora sono alla frutta. Ci sarà da ridere, diceva Fini da Mentana. No, caro presidente, già stiamo ridendo.
E questo a prescindere dall'autenticità o meno della lettera del ministro della Giustizia di Saint Lucia che attribuisce al "cognato" di Fini, Giancarlo Tulliani, la titolarità delle società off-shore acquirenti dell'immobile ex An di Montecarlo. Non ho alcun elemento per affermare che sia vera o falsa, ma è bene mettersi d'accordo subito su alcuni criteri fondamentali: se si dimostrerà un falso, allora siamo di fronte a qualcosa che si può chiamare "dossieraggio"; ma se è vera (e contattato dal Fatto quotidiano, il ministro ha detto: «E' vera»), bisognerà finirla con queste accuse e cominciare a parlare di scoop giornalistico, indipendentemente dalle fonti. Tra l'altro, siccome conosco l'agenzia e il giornalista di cui si parla, e ai quali si attribuisce un ruolo abnorme e surreale in questa vicenda, questo mi dà personalmente la misura delle cazzate che tutti i giorni - senza poter esserne avvertito come stavolta - scrivono certi giornalisti di certi giornali e su cui ruota tutto il dibattito politico. Il mondo politico e giornalistico di questo Paese è letteralmente impazzito, rincoglionito, tutti che giriamo come criceti in una ruota.
In questa vicenda fin qui poco chiara ci sono tuttavia alcuni punti fermi. Primo, Fini nel 2008 ha svenduto una casa del suo partito ad una società off-shore, ad un prezzo da lui definito congruo: 300 mila euro. Ora, a prescindere da valori fiscali e catastali, il presidente della Camera dovrebbe andarlo a spiegare a chi con enormi sacrifici compra a quel prezzo un modesto appartamento a Centocelle, Quarticciolo, Tor Bella Monaca, per rimanere nella periferia romana. A questo punto, sono tutti dei deficienti, se non se lo sono andati a comprare a Montecarlo? Secondo, lo svende a una società off-shore di uno dei Paesi su tutte le black-list anti-riciclaggio dei Paesi occidentali (come ha avuto la faccia tosta di ricordare Flavia Perina), con il rischio concreto che dietro ci siano come minimo evasori fiscali, se non la mafia stessa. Terzo, altro che "killeraggio" e "regime". E' evidente che la magistratura sta dimostrando totale disinteresse nelle indagini, al contrario dello zelo dimostrato in altre vicende. Di solito, sui giornali leggiamo anticipazioni di indagini, se non stralci di verbali; qui, stranamente, i giornali sono avanti e la Procura di Roma non riesce neanche a farsi mandare banali documenti dal Principato di Monaco. E quotidiani come Corriere e Repubblica, se si fosse trattato di Berlusconi o di qualcuno a lui vicino, c'è da scommettere che non avrebbero smesso di titolare fino alle dimissioni: "Tizio svende casa alla Mafia".
UPDATE ore 13:47 - Ecco la risposta di Mangiavillani alla Sarzanini:
E questo a prescindere dall'autenticità o meno della lettera del ministro della Giustizia di Saint Lucia che attribuisce al "cognato" di Fini, Giancarlo Tulliani, la titolarità delle società off-shore acquirenti dell'immobile ex An di Montecarlo. Non ho alcun elemento per affermare che sia vera o falsa, ma è bene mettersi d'accordo subito su alcuni criteri fondamentali: se si dimostrerà un falso, allora siamo di fronte a qualcosa che si può chiamare "dossieraggio"; ma se è vera (e contattato dal Fatto quotidiano, il ministro ha detto: «E' vera»), bisognerà finirla con queste accuse e cominciare a parlare di scoop giornalistico, indipendentemente dalle fonti. Tra l'altro, siccome conosco l'agenzia e il giornalista di cui si parla, e ai quali si attribuisce un ruolo abnorme e surreale in questa vicenda, questo mi dà personalmente la misura delle cazzate che tutti i giorni - senza poter esserne avvertito come stavolta - scrivono certi giornalisti di certi giornali e su cui ruota tutto il dibattito politico. Il mondo politico e giornalistico di questo Paese è letteralmente impazzito, rincoglionito, tutti che giriamo come criceti in una ruota.
In questa vicenda fin qui poco chiara ci sono tuttavia alcuni punti fermi. Primo, Fini nel 2008 ha svenduto una casa del suo partito ad una società off-shore, ad un prezzo da lui definito congruo: 300 mila euro. Ora, a prescindere da valori fiscali e catastali, il presidente della Camera dovrebbe andarlo a spiegare a chi con enormi sacrifici compra a quel prezzo un modesto appartamento a Centocelle, Quarticciolo, Tor Bella Monaca, per rimanere nella periferia romana. A questo punto, sono tutti dei deficienti, se non se lo sono andati a comprare a Montecarlo? Secondo, lo svende a una società off-shore di uno dei Paesi su tutte le black-list anti-riciclaggio dei Paesi occidentali (come ha avuto la faccia tosta di ricordare Flavia Perina), con il rischio concreto che dietro ci siano come minimo evasori fiscali, se non la mafia stessa. Terzo, altro che "killeraggio" e "regime". E' evidente che la magistratura sta dimostrando totale disinteresse nelle indagini, al contrario dello zelo dimostrato in altre vicende. Di solito, sui giornali leggiamo anticipazioni di indagini, se non stralci di verbali; qui, stranamente, i giornali sono avanti e la Procura di Roma non riesce neanche a farsi mandare banali documenti dal Principato di Monaco. E quotidiani come Corriere e Repubblica, se si fosse trattato di Berlusconi o di qualcuno a lui vicino, c'è da scommettere che non avrebbero smesso di titolare fino alle dimissioni: "Tizio svende casa alla Mafia".
UPDATE ore 13:47 - Ecco la risposta di Mangiavillani alla Sarzanini:
«Le colleghe e i colleghi che hanno avuto l'amabile sensibilità di coinvolgermi, a prescindere, nello scontro fra Italo Bocchino e i giornali che da mesi indagano sulla vicenda legata alla casa di Montecarlo, dovrebbero indicarmi tempi e luoghi nei quali si sarebbe consumata la mia "amicizia" con il signor Pio Pompa. E ciò perché come ben sa anche qualche brillante signora, gaia frequentatrice di "certi ambienti", chi trova "certi amici" trova un tesoro e un'ottima tribuna dalla quale propalare affari e notizie preconfezionate».UPDATE ore 18:44 - St. Lucia ha confermato ufficialmente l'autenticità del documento. Domani Fini esporrà in un video la sua verità. A prescindere dal merito del caso Montecarlo e dalle dimissioni (che io continuo a ritenere doverose per l'incompatibilità del suo ruolo politico con la carica di presidente della Camera), a questo punto però Fini e finiani almeno una cosa dovrebbero farla: chiedere scusa ai giornalisti, ai servizi e a Berlusconi per le accuse di "dossieraggio". Solo questo, almeno questo. E forse qualcuno dovrebbe scusarsi anche con St. Lucia, su cui è stata fatta fin troppa ironia. Non conosco questa piccola isola caraibica, ma dai minimi indicatori istituzionali ed economici non mi pare un "Bananas" qualsiasi. Certo, se poi la teoria è "Berlusconi tanto si compra tutti", allora si può sostenere davvero di tutto...
Thursday, September 23, 2010
Le impronte non sono della politica
Se diffidate - comprensibilmente, non essendo certo disinteressate - delle parole di Geronzi (a la Repubblica) e Rampl (nella sua lettera ai dipendenti), dopo Giannino anche un osservatore intellettualmente onesto e indipendente come Franco Debenedetti, sul Sole24Ore, sostiene che con l'estrmossionie di Profumo dalla guida di Unicredit la politica non c'entra nulla.
«La colpa di Alessandro Profumo sarebbe quella di essersi voluto scegliere il padrone, usando i soldi dei libici per ridurre il potere delle fondazioni, e poi trovare nel mercato il sostegno della propria leadership. Molte banche blasonate, si sono rivolte ai fondi sovrani. Ma il parallelo finisce lì: perché le altre grandi banche poi hanno fatto aumenti di capitale sul mercato a condizioni penalizzanti per gli azionisti, che quindi hanno cacciato i ceo, mentre Profumo i soldi li aveva chiesti non al mercato, ma alle Fondazioni e a condizioni non proprio di favore. Queste non avevano avuto timore di diluirsi per sostenere Profumo nella politica di acquisizioni, l'hanno alla fine seguito anche su una organizzazione che pure riduce il loro il potere locale. Perché adesso hanno cambiato orientamento: solo perché Profumo non ha saputo (o voluto? o potuto?) spiegare il senso dell'operazione? Non regge la spiegazione come colpo di coda del capitalismo di relazione, ancor meno quella del complotto politico. A lasciare "le impronte digitali" sono stati i consiglieri, quelli delle fondazioni e quelli tedeschi: tutti allineati nel fare un favore alla Lega (ancor prima che nominasse i consiglieri di competenza) o a Berlusconi? Con Ligresti che vota a favore di Profumo come copertura? Anche nei riguardi della politica del governo, Profumo si è costruito un'immagine di indipendenza: si è tirato fuori dal "salotto" di Via Solferino, e si è rifiutato di entrare nelle sistemazioni di Telecom e di Alitalia. Ma su cose di sostanza come la defenestrazione di Maranghi, o l'acquisto di Capitalia ha prestato alla politica tutta l'attenzione del caso... Né risultano sue opposizioni alla vendita di Mediocredito Centrale al Tesoro...
Prima di cercare le cause nelle nostre anomalie, quella della politica o quella del nostro sistema di governance capitalistica, incominciamo a cercarlo nella normalità: gli azionisti cambiano il management quando non sono contenti di quello che ha fatto e non sono convinti di quello che intende fare. Anche a chi guarda le cose dall'esterno, sembra che abbiano motivi per non essere contenti. Unicredito in quanto a sedi e sportelli è l'unica nostra banca europea, ma non è europea la sua struttura di management: in questa emergenza le deleghe operative sono paradossalmente nelle mani di coloro che reggevano la banca tedesca, sostanzialmente fallita quando Profumo la comperò. E il cambio di governance pare venga affrontato senza avere nessuna idea sulle tante opzioni strategiche che si possono immaginare per riportare la banca ai risultati economici che è lecito attendersi. Leggere l'avvicendamento di un Ceo come la metafora bancaria del cambiamento di governance del Paese che è nell'aria, spiega poco e confonde molto. Vedere invece nel modo con cui viene interpretato da chi sta fuori e affrontato da chi sta dentro un'altra manifestazione dell'incertezza del Paese verso il suo futuro economico e sociale, è purtroppo più che giustificato».
Anche Zapatero con Sarkozy
Oltre a Berlusconi, a quanto pare anche il premier spagnolo Zapatero sostiene la politica di Sarkozy sui rom. L'aveva già fatto al Consiglio europeo, ma i nostri media l'avevano accuratamente nascosto. Ieri, al Wall Street Journal, è tornato sulla questione assicurando che i rom «non sono stati espulsi a causa della loro origine etnica». I provvedimenti sono stati adottati «nel rispetto dello stato di diritto». «I principi dell'integrazione devono funzionare - spiega - ma deve anche essere rispettato l'ordine pubblico nei campi che non hanno le condizioni sanitarie e di sicurezza necessarie». Guarda caso allineati i governi di Francia, Italia, Spagna (e Repubblica Ceca). Per ideologia, o perché condividono lo stesso problema?
Wednesday, September 22, 2010
La cacciata di Profumo. Quanto c'entra la politica?
Per la Repubblica, manco a dirlo, è tutto un complotto Berlusconi-Geronzi. Il primo otterrebbe una «vittoria politica» in vista delle elezioni che avrebbe programmato per il marzo 2011; il secondo una «vittoria finanziaria» in vista della «mossa che, nella sua testa, chiuderà il 'Risiko' dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca», scrive Massimo Giannini. Giavazzi, sul Corriere, ma è in buona compagnia, se la prende invece con la Lega, per aver seguito la strada dei «vecchi democristiani», che «controllavano il territorio (e i voti) attraverso le Casse di risparmio e le municipalizzate» (perché, dove crede che siano quei «vecchi democristiani» ora?). Vero è, purtroppo, che i leghisti fanno di tutto per entrare nel sistema anziché scardinarlo, ma improvvisamente sembra che siano loro gli inventori delle fondazioni e i veri affossatori di Profumo in difesa degli interessi dei loro «feudi locali», mentre sono semmai nient'altro che gli ultimi arrivati al tavolo (e gli ultimi a spingere l'ad). Ma su chi si è seduto prima di loro, e per maggior tempo, a quel tavolo, silenzio. E mi riferisco alle fondazioni guidate da ex democristiani ed ex comunisti che la fanno da padrone in molte regioni italiane. Ovviamente questo sistema andrebbe smantellato, ma è comprensibile che, se quel tavolo resta, una forza politica altamente rappresentativa al nord voglia sedersi e contare anch'essa. Né deve sorprendere che le strategie di una grande banca internazionale interessino eccome la politica.
Può piacere o meno, ma i presunti interessi dei clienti, ammesso che si possano generalizzare e rappresentare, sono diversi da quelli degli azionisti, e a questi ultimi i top manager devono rendere conto. L'aumento della quota libica in Unicredit è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prim'ancora di addentrarsi in una disputa sui massimi sistemi, anche perché non è detto che il progetto di una grande banca multinazionale e "global" debba inevitabilmente passare sul cadavere di azionisti "local", fondamentalmente fondazioni e azionisti tedeschi l'hanno scaricato per gli scarsi utili e dividendi, per le ricapitalizzazioni e per una condotta autocratica. Non avendo sufficienti capitali per finanziare continuamente il tumultuoso sviluppo che era nei grandiosi disegni di Profumo, comprensibilmente gli azionisti temono di perdere quote di potere per effetto sia dell'ingresso, o dell'aumento di quote, di nuovi soci (vedi libici) sia di successive ricapitalizzazioni.
L'abbandono dell'internazionalizzazione e la chiusura in se stessa di Unicredit sarebbe un grave errore, ma non è detto che il progetto di "Banca Unica" debba passare per forza per un unico ad. Ed è un rischio sempre presente quello dei condizionamenti politici nella gestione. Ma in definitiva l'analisi più lucida ed equilibrata (direi indipendente) sull'intera vicenda mi sembra quella di Oscar Giannino, su Chicago-blog. Per Giannino la politica c'entra poco o niente con l'estromissione di Profumo:
«La sostanza - conclude Giannino - è che la caduta di Profumo con la politica non c'entra niente». Profumo paga una conduzione troppo «autoreferenziale», reo di «ignorare» gli azionisti, con «ricapitalizzazioni e tagli a utili e dividendi più dolorosi ai suoi azionisti che a quelli di altre banche italiane».
Può piacere o meno, ma i presunti interessi dei clienti, ammesso che si possano generalizzare e rappresentare, sono diversi da quelli degli azionisti, e a questi ultimi i top manager devono rendere conto. L'aumento della quota libica in Unicredit è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Prim'ancora di addentrarsi in una disputa sui massimi sistemi, anche perché non è detto che il progetto di una grande banca multinazionale e "global" debba inevitabilmente passare sul cadavere di azionisti "local", fondamentalmente fondazioni e azionisti tedeschi l'hanno scaricato per gli scarsi utili e dividendi, per le ricapitalizzazioni e per una condotta autocratica. Non avendo sufficienti capitali per finanziare continuamente il tumultuoso sviluppo che era nei grandiosi disegni di Profumo, comprensibilmente gli azionisti temono di perdere quote di potere per effetto sia dell'ingresso, o dell'aumento di quote, di nuovi soci (vedi libici) sia di successive ricapitalizzazioni.
L'abbandono dell'internazionalizzazione e la chiusura in se stessa di Unicredit sarebbe un grave errore, ma non è detto che il progetto di "Banca Unica" debba passare per forza per un unico ad. Ed è un rischio sempre presente quello dei condizionamenti politici nella gestione. Ma in definitiva l'analisi più lucida ed equilibrata (direi indipendente) sull'intera vicenda mi sembra quella di Oscar Giannino, su Chicago-blog. Per Giannino la politica c'entra poco o niente con l'estromissione di Profumo:
«Quando i dividendi agli azionisti scendono a meno della metà rispetto al difficile anno precedente e poi a un quarto o a un quinto degli anni precrisi come nella semestrale 2010 Unicredit, e si è dovuto pure mettere mano al portafoglio per miliardi in aumenti di capitale, lo spazio dei manager si restringe... La piena delega a Profumo si è rotta piano piano, nel corso degli ultimi due anni. E non solo per minori utili e dividendi, accantonamenti e rettifiche per miliardi ulteriori dopo aver rafforzato il capitale per oltre 6 miliardi. Le fondazioni non l'hanno mai voluto, un modello operativo accentrato sul capoazienda, con tre vice e sette proconsoli, come doveva essere l'Unicredit concepita da Profumo».Non la politica, dunque, che secondo Giannino «ha assistito da Roma preoccupata con Tremonti delle conseguenze sistemiche di una dipartirta senza successori pronti». «La pretesa influenza impropria della politica - scrive Giannino su Panorama Economy - è un'ombra cinese agitata con molta malizia e studiata abilità. In realtà, non è stata affatto la politica a mettere zampa nella caduta di Profumo». «Il teatrino politico italiano dirà che è stata la Lega ad entrare a gamba tesa» e, certo, ci sono le dichiarazioni di guerra del sindaco leghista di Verona, Flavio Tosi, ma «in realtà - fa notare Giannino - i leghisti dentro la Fondazione CariVerona ancora non sono formalmente neppure entrati, e Tosi è stato semplicemente astuto sui media a invocare più di tutti il ritorno in banca del potere ai territori». «Se non fosse così e fossimo stati in presenza (come sostiene la Repubblica) di uno spietato attacco per allineare la seconda banca italiana al naturalmente famigerato governo Berlusconi, non si capirebbe perché al contrario il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, abbia giocato fino all'ultimo nella vicenda assai più il ruolo del pompiere che quello del piromane».
«La sostanza - conclude Giannino - è che la caduta di Profumo con la politica non c'entra niente». Profumo paga una conduzione troppo «autoreferenziale», reo di «ignorare» gli azionisti, con «ricapitalizzazioni e tagli a utili e dividendi più dolorosi ai suoi azionisti che a quelli di altre banche italiane».
Tuesday, September 21, 2010
Scuola, le solite macerie
Come ogni anno, circa due settimane fa l'Ocse ha pubblicato il rapporto Education at glance che mette a confronto i principali indicatori dei sistemi educativi dei Paesi dell'area. E come al solito, anche quest'anno, emerge il solito sfacelo della scuola italiana. Sono anni che ci torno ogni volta, ma sempre più svogliatamente. Quest'anno avevo deciso di soprassedere, ma un'analisi ben fatta su noiseFromAmeriKa mi offre l'occasione di riparlarne. Sarà perché quest'anno la pubblicazione è coincisa con le polemiche sui precari e sulla riforma Gelmini, ma i media mainstream hanno posto in modo ancor più marcato l'accento sul luogo comune dell'Italia che "investe poco in istruzione". Una lettura superficiale e "comoda" del rapporto, che legittima il piagnisteo continuo e generalizzato del settore e degli osservatori esterni.
Ad una lettura più attenta, il rapporto Ocse ci ricorda che a) è falso che l'Italia spenda poco per la scuola; b) spende tanto, più degli altri Paesi, ma spende male, perché la maggior parte delle risorse servono a pagare troppi insegnanti che lavorano poche ore e sono pagati male. Come spiega l'analisi di noiseFromAmeriKa, infatti, l'indicatore spesa/Pil è «una buona misura di quanto "sforzo" il Paese compie in educazione», in percentuale alla ricchezza che produce ogni anno, ma per vari motivi «non è una buona misura di quante risorse abbiano a disposizione scuole ed insegnanti per insegnare». A questo scopo l'indicatore «più adeguato è la spesa per studente», considerando che nel confronto con gli altri Paesi dovremmo aspettarci una spesa per studente «proporzionale al Pil pro-capite». Leggi tutto.
Purtroppo, in Italia le varie riforme si susseguono con le migliori intenzioni pretendendo di migliorare la qualità della scuola a "strutture" invariate, e ogni volta sentiamo ripartire l'ipocrita cantilena per cui "va bene la riforma, ma va accompagnata con più risorse". Una lezione utile si ricava invece dal libro di Memorie di Tony Blair, il quale racconta di come - per dirla in breve - si sia reso conto solo con il tempo e per esperienza diretta che se si vogliono migliorare sensibilmente gli standard di un servizio pubblico, scuola in primis, non si può fare a meno di modificare anche le strutture. Ma ci tornerò presto.
Ad una lettura più attenta, il rapporto Ocse ci ricorda che a) è falso che l'Italia spenda poco per la scuola; b) spende tanto, più degli altri Paesi, ma spende male, perché la maggior parte delle risorse servono a pagare troppi insegnanti che lavorano poche ore e sono pagati male. Come spiega l'analisi di noiseFromAmeriKa, infatti, l'indicatore spesa/Pil è «una buona misura di quanto "sforzo" il Paese compie in educazione», in percentuale alla ricchezza che produce ogni anno, ma per vari motivi «non è una buona misura di quante risorse abbiano a disposizione scuole ed insegnanti per insegnare». A questo scopo l'indicatore «più adeguato è la spesa per studente», considerando che nel confronto con gli altri Paesi dovremmo aspettarci una spesa per studente «proporzionale al Pil pro-capite». Leggi tutto.
Purtroppo, in Italia le varie riforme si susseguono con le migliori intenzioni pretendendo di migliorare la qualità della scuola a "strutture" invariate, e ogni volta sentiamo ripartire l'ipocrita cantilena per cui "va bene la riforma, ma va accompagnata con più risorse". Una lezione utile si ricava invece dal libro di Memorie di Tony Blair, il quale racconta di come - per dirla in breve - si sia reso conto solo con il tempo e per esperienza diretta che se si vogliono migliorare sensibilmente gli standard di un servizio pubblico, scuola in primis, non si può fare a meno di modificare anche le strutture. Ma ci tornerò presto.
Anche in Svezia suona la sveglia
Dopo l'affermazione nella liberale Olanda del partito di Geert Wilders, i partiti nazionalisti e anti-immigrazione prendono piede anche in Danimarca e in Svezia, le patrie della socialdemocrazia scandinava e di modelli sociali generosi e tolleranti. Come osserva Il Foglio, «gli establishment europei, accecati dall'ideologia del politicamente corretto, prima fingono di non vedere, poi si dicono scioccati da questa avanzata». L'analisi mi sembra scontata. Se i partiti di governo - di centrodestra o di centrosinistra - vogliono contenere l'«avanzata» e disinnescare possibili derive intolleranti e xenofobe, non devono demonizzarli, ma comprendere che intercettano e danno una rappresentanza politica a un disagio reale. E' quanto stanno facendo Sarkozy in Francia, dove Le Pen è fortemente ridimensionato, e Berlusconi in Italia, dove la Lega è sì influente, ma anche molto più "moderata" e ormai interna al "sistema" rispetto ai partiti anti-immigrazione del nord Europa. Inoltre, essendo un partito radicato solo in una parte del Paese, è più "popolare" e rappresenta istanze territoriali (come il federalismo) che l'hanno spinta a maturare un profilo "di governo".
L'immigrazione incontrollata alimenta un senso di insicurezza e di ingiustizia sociale, e spesso è davvero - inutile negarlo - fonte di criminalità e di costi sociali che gravano sui ceti medi e più deboli. Un malinteso senso di tolleranza, inoltre, produce vere e proprie sacche, zone franche del diritto in cui pullulano una cultura e spesso un'ideologia politica incompatibili con i principi fondamentali che regolano la convivenza civile in Europa. Sono questioni tremendamente importanti, che non vanno né negate né sottovalutate, ma vanno affrontate con determinazione, respingendo il "negazionismo" e il "politicamente corretto" tipico di Bruxelles, proprio per evitare l'insorgere e l'aggravarsi di fenomeni di xenofobia.
Ma è un altro il dato epocale delle elezioni svedesi di domenica scorsa, purtroppo oscurato dall'affermazione dei "Democratici di Svezia". I socialdemocratici ridotti ai minimi storici e il centrodestra liberale al 49,3 per cento. Se "dalla culla alla tomba" è lo storico slogan di un certo modello di welfare statale, almeno in Svezia sembra esserci finito quel modello nella tomba... E viene premiato l'approccio decisamente riformatore del premier Fredrik Reinfeldt: aumento dell'età di pensionamento, lotta agli sprechi, privatizzazioni, riduzione delle tasse.
L'immigrazione incontrollata alimenta un senso di insicurezza e di ingiustizia sociale, e spesso è davvero - inutile negarlo - fonte di criminalità e di costi sociali che gravano sui ceti medi e più deboli. Un malinteso senso di tolleranza, inoltre, produce vere e proprie sacche, zone franche del diritto in cui pullulano una cultura e spesso un'ideologia politica incompatibili con i principi fondamentali che regolano la convivenza civile in Europa. Sono questioni tremendamente importanti, che non vanno né negate né sottovalutate, ma vanno affrontate con determinazione, respingendo il "negazionismo" e il "politicamente corretto" tipico di Bruxelles, proprio per evitare l'insorgere e l'aggravarsi di fenomeni di xenofobia.
Ma è un altro il dato epocale delle elezioni svedesi di domenica scorsa, purtroppo oscurato dall'affermazione dei "Democratici di Svezia". I socialdemocratici ridotti ai minimi storici e il centrodestra liberale al 49,3 per cento. Se "dalla culla alla tomba" è lo storico slogan di un certo modello di welfare statale, almeno in Svezia sembra esserci finito quel modello nella tomba... E viene premiato l'approccio decisamente riformatore del premier Fredrik Reinfeldt: aumento dell'età di pensionamento, lotta agli sprechi, privatizzazioni, riduzione delle tasse.
Monday, September 20, 2010
Tony, ci manchi/4 - L'obiettivo della missione
«Molti anni dopo, mentre ancora si combatte, la gente osserva la situazione e si chiede: che cosa è andato storto? Ma forse il punto non è che sia andato storto qualcosa, quanto piuttosto che la natura stessa di questa lotta implica una sua evoluzione in un arco di tempo molto lungo».
«I soldati non vengono uccisi perché combattono per la causa sbagliata, e non necessariamente perché combattono male: vengono uccisi perché il nemico vuole annientarci; perché anche per loro la posta in gioco è alta e perché ritengono che, se resistono abbastanza, noi ci scoraggeremo o verremo a patti in qualche modo ingnominioso, rinunciando ai principi fondamentali per cui combattiamo in cambio di un accordo di pace. Allora riemergeranno più forti, assieme all'ideologia che professano».
«Oggi, anni dopo, la gente ci dice: l'obiettivo della missione non è chiaro, è confuso. Non è vero, e non lo era all'epoca. Per noi, allora, e credo sia vero ancora oggi, non esisteva una distinzione netta tra una campagna per esorcizzare al-Qaeda, o per prevenire la rinascita dei talebani, o per costruire la democrazia, o per impiantare un'economia vera e non una narco-economia. Non sono obiettivi che si escludono a vicenda. Se si permette ai talebani di riemergere, se non si costruisce un'autorità di governo, ci si ritroverà con lo stesso Stato fallito e con le stesse conseguenze. Il problema non è che abbiamo cercato di fare troppo: è che serve un impegno totale e prolungato, sostenuto da risorse e forza di volontà su un periodo molto lungo».Tony Blair ("A Journey")
Friday, September 17, 2010
Euroipocrisia
Il fossato che si è aperto tra la Commissione europea da una parte e la Francia di Sarkozy dall'altra (di cui hanno preso le difese platealmente solo Berlusconi, Zapatero e il premier ceco Necas, ma i leader che covano in silenzio la loro insofferenza verso Bruxelles sono molti di più) è totalmente il risultato dell'ipocrisia e dell'irresponsabilità politica delle istituzioni europee.
La questione, che ha scaldato gli animi dei moralisti e dei custodi del politicamente corretto, nel merito è semplice, addirittura banale. La Francia ha tutto il diritto di chiudere campi abusivi sul suo territorio. E ha tutto il diritto secondo le normative comunitarie di rimpatriare cittadini, anche comunitari, che non abbiano documenti in regola, che dopo tre mesi di permanenza non abbiano un lavoro o non possano dimostrare di avere forme legali di sostentamento e una fissa dimora. Tutto il caso nasce da uno scivolone del governo francese subito corretto, ma che ben illustra come la Commissione europea sia un'istituzione fondata sull'ipocrisia e sull'irresponsabilità politica. Una circolare del Ministero degli Interni che ordinava ai prefetti di avviare lo sgombero di campi abusivi «in priorità rom». Ecco, il riferimento ai rom non doveva esserci, si doveva parlare genericamente di campi abusivi, per evitare che la direttiva apparisse discriminatoria. Ma guardiamoci negli occhi e parliamoci onestamente: chi, oltre i rom, vive nelle nostre città in baraccopoli abusive che ospitano centinaia di famiglie, tali da costituire un problema sociale e di sicurezza?
Insomma, il Ministero francese avrebbe potuto essere più accorto, ma è del tutto evidente che non c'era alcun intento discriminatorio, bensì l'esigenza pratica, anche se politicamente inopportuna e "scorretta", di chiamare le cose con il loro nome e rendere chiaro ai prefetti il compito loro assegnato; partendo semplicemente dalla constatazione di un dato di fatto: negli accampamenti abusivi vivono i rom, non giapponesi o portoricani. Ma è ovvio che campi simili vanno smantellati, a prescindere dall'etnia da cui sono abitati. E comunque la circolare è stata immediatamente corretta.
Detto questo, c'è il problema dell'euroburocrazia irresponsabile di Bruxelles, che non dovendo dar conto ai cittadini europei si abbandona al politicamente corretto, scansando sdegnosamente o affrontando in modo retorico problemi molto avvertiti dalle popolazioni. E' frustrante per i cittadini che l'Europa non riesca ad affrontare i loro problemi e, anzi, si comporti sempre più spesso come se non esistessero. Per di più, su alcune questioni delicate, come in questo caso, ricorrendo al ricatto morale del razzismo, e spesso senza prima aver valutato attentamente quali sono le effettive politiche dei governi.
C'è molto dilettantismo nella maggior parte dei commissari, che sono diventati il fulcro di un meccanismo perverso e dannoso per l'immagine dell'Europa agli occhi dei cittadini europei. Sembra che vengano attirati su un problema solo dal clamore mediatico e quando intervengono criticamente sull'operato dei governi, si ha l'impressione che siano animati da un eccesso di protagonismo. Pressocché sconosciuti alle opinioni pubbliche, i commissari cercano di affermare la loro identità politica in contrapposizione ai governi, di apparire indipendenti - alcuni, alla guida di uffici inutili, sono bisognosi di giustificare persino la loro esistenza. Ansiosi di "esserci" e di ottenere visibilità, alzano i toni, provoncando vere e proprie tempeste in bicchieri d'acqua. E' comprensibile che la cosa non sia ben digerita da quanti invece devono rispondere ai cittadini che li hanno votati.
«I governi nazionali sono scelti dall'elettorato. I commissari di Bruxelles no. Non affrontano un'elezione e questo fa una grande differenza», spiega Ernesto Galli della Loggia su Il Foglio: «E' la differenza che passa tra la politica e la burocrazia, anche l'altissima burocrazia», per di più una burocrazia «totalmente autoreferenziale». «La sensibilità dell'elettorato è molto diversa dall'ideologia dei diritti e del politicamente corretto che è l'ideologia dell'Ue», spiega il professore, «le culture esistono, ma l'Ue ha deciso che le diversità culturali non esistono». Al fondo c'è un problema di legittimità democratica della Commissione Ue: «In una democrazia ha sempre ragione l'elettorato. Se si ammette che l'elettorato si possa sbagliare si apre un baratro: chi al posto dell'elettorato? Non c'è risposta». Anzi, dice Galli della Loggia, «le risposte rischiano di essere peggio. Se le decisioni sono prese contro il sentire comune, nascono partiti xenofobi e razzisti. Non è un caso se in molti Paesi europei il panorama politico è sconvolto da partiti schierati contro l'ideologia di Bruxelles».
La questione, che ha scaldato gli animi dei moralisti e dei custodi del politicamente corretto, nel merito è semplice, addirittura banale. La Francia ha tutto il diritto di chiudere campi abusivi sul suo territorio. E ha tutto il diritto secondo le normative comunitarie di rimpatriare cittadini, anche comunitari, che non abbiano documenti in regola, che dopo tre mesi di permanenza non abbiano un lavoro o non possano dimostrare di avere forme legali di sostentamento e una fissa dimora. Tutto il caso nasce da uno scivolone del governo francese subito corretto, ma che ben illustra come la Commissione europea sia un'istituzione fondata sull'ipocrisia e sull'irresponsabilità politica. Una circolare del Ministero degli Interni che ordinava ai prefetti di avviare lo sgombero di campi abusivi «in priorità rom». Ecco, il riferimento ai rom non doveva esserci, si doveva parlare genericamente di campi abusivi, per evitare che la direttiva apparisse discriminatoria. Ma guardiamoci negli occhi e parliamoci onestamente: chi, oltre i rom, vive nelle nostre città in baraccopoli abusive che ospitano centinaia di famiglie, tali da costituire un problema sociale e di sicurezza?
Insomma, il Ministero francese avrebbe potuto essere più accorto, ma è del tutto evidente che non c'era alcun intento discriminatorio, bensì l'esigenza pratica, anche se politicamente inopportuna e "scorretta", di chiamare le cose con il loro nome e rendere chiaro ai prefetti il compito loro assegnato; partendo semplicemente dalla constatazione di un dato di fatto: negli accampamenti abusivi vivono i rom, non giapponesi o portoricani. Ma è ovvio che campi simili vanno smantellati, a prescindere dall'etnia da cui sono abitati. E comunque la circolare è stata immediatamente corretta.
Detto questo, c'è il problema dell'euroburocrazia irresponsabile di Bruxelles, che non dovendo dar conto ai cittadini europei si abbandona al politicamente corretto, scansando sdegnosamente o affrontando in modo retorico problemi molto avvertiti dalle popolazioni. E' frustrante per i cittadini che l'Europa non riesca ad affrontare i loro problemi e, anzi, si comporti sempre più spesso come se non esistessero. Per di più, su alcune questioni delicate, come in questo caso, ricorrendo al ricatto morale del razzismo, e spesso senza prima aver valutato attentamente quali sono le effettive politiche dei governi.
C'è molto dilettantismo nella maggior parte dei commissari, che sono diventati il fulcro di un meccanismo perverso e dannoso per l'immagine dell'Europa agli occhi dei cittadini europei. Sembra che vengano attirati su un problema solo dal clamore mediatico e quando intervengono criticamente sull'operato dei governi, si ha l'impressione che siano animati da un eccesso di protagonismo. Pressocché sconosciuti alle opinioni pubbliche, i commissari cercano di affermare la loro identità politica in contrapposizione ai governi, di apparire indipendenti - alcuni, alla guida di uffici inutili, sono bisognosi di giustificare persino la loro esistenza. Ansiosi di "esserci" e di ottenere visibilità, alzano i toni, provoncando vere e proprie tempeste in bicchieri d'acqua. E' comprensibile che la cosa non sia ben digerita da quanti invece devono rispondere ai cittadini che li hanno votati.
«I governi nazionali sono scelti dall'elettorato. I commissari di Bruxelles no. Non affrontano un'elezione e questo fa una grande differenza», spiega Ernesto Galli della Loggia su Il Foglio: «E' la differenza che passa tra la politica e la burocrazia, anche l'altissima burocrazia», per di più una burocrazia «totalmente autoreferenziale». «La sensibilità dell'elettorato è molto diversa dall'ideologia dei diritti e del politicamente corretto che è l'ideologia dell'Ue», spiega il professore, «le culture esistono, ma l'Ue ha deciso che le diversità culturali non esistono». Al fondo c'è un problema di legittimità democratica della Commissione Ue: «In una democrazia ha sempre ragione l'elettorato. Se si ammette che l'elettorato si possa sbagliare si apre un baratro: chi al posto dell'elettorato? Non c'è risposta». Anzi, dice Galli della Loggia, «le risposte rischiano di essere peggio. Se le decisioni sono prese contro il sentire comune, nascono partiti xenofobi e razzisti. Non è un caso se in molti Paesi europei il panorama politico è sconvolto da partiti schierati contro l'ideologia di Bruxelles».
Thursday, September 16, 2010
Riaprire il "caso Gheddafi"?
Forse in pochi lo sanno, ma non è la prima volta che i libici sparano contro i nostri pescherecci. Eppure, né le precedenti mitragliate, né i numerosi sequestri illegittimi hanno mai scatenato un putiferio politico e mediatico come in questi giorni. Ciò non significa che quanto sia accaduto non sia grave e che il governo attuale non meriti qualche critica, ma mettiamo agli atti quei precedenti passati sotto silenzio, tanto per avere un'idea della strumentalità politica che muove molti di coloro che si scandalizzano in queste ore. Mi sembra evidente che da parte italiana tutti i governi, dalla Prima Repubblica alla seconda, di centrodestra come di centrosinistra, sono rimasti colpevolmente passivi sulle rivendicazioni territoriali della Libia.
Tuttavia, basta con le ipocrisie! Nessuno sforzo o abilità diplomatica, né tanto meno fare la voce grossa, potrà mai porci al riparo dai ricatti di Gheddafi, che oggi è infinitamente meno pericoloso degli anni '80 e '90, ma ancora insopportabilmente molesto. Tutti sappiamo che la soluzione davvero definitiva al "problema Libia" è una sola: è il cambio di regime. Purtroppo, però, per quell'opzione siamo fuori tempo massimo. E di parecchi anni. Anche se ci fosse da parte italiana una volontà in tal senso (e non c'è mai stata, come non c'è adesso e non ci sarebbe mai, a partire da chi fa la voce più grossa in questi giorni - gente che non si scandalizzò quando il leader libico chiese e ottenne le dimissioni di un nostro ministro per una t-shirt), è mutata la posizione internazionale del regime di Gheddafi, che dopo la sua rinuncia alle armi di distruzione di massa e a sostenere il terrorismo, e dopo l'assunzione di responsabilità per l'attentato di Lockerbie, non è più isolato.
Nessun accordo con Gheddafi sarà mai "perfetto", tale cioè da non avere più problemi con il regime libico. Questo lo sappiamo benissimo tutti. Ma scartata l'unica vera soluzione definitiva (il cambio di regime), non ci rimane che affidarci pazientemente ad una diplomazia che da una parte blandisca l'ego del dittatore, e dall'altra riesca a concludere accordi che progressivamente tolgano di mezzo il maggior numero possibile di pretesti cui Gheddafi potrebbe appigliarsi per i suoi ricatti futuri.
Nel caso delle rivendicazioni libiche sulle acque territoriali, e dei rischi che quindi corrono i nostri pescherecci, è inutile sperare che le parole servano a qualcosa (probabilmente soldi, molti soldi, sortirebbero qualche effetto, beninteso fino alla successiva forma di ricatto). Anche perché non hanno a che fare con il recente trattato, ma con una posizione unilaterale da parte di Tripoli su cui semmai dovremmo coinvolgere, e portare a pronunciarsi, organismi internazionali. Il che non basterebbe comunque, temo, bisognerebbe probabilmente riportare sulla Libia una certa "pressione" da parte europea e americana. Una misura che potrebbe subito venire presa, è far scortare i nostri pescherecci da unità della marina e dell'aviazione militare. Consapevoli però che al primo incidente, Gheddafi ricomincerebbe a ricattarci con gli immigrati o con qualcos'altro. Uno scontro, una serie di scontri, potrebbe aiutarci a riportare lentamente il "dossier Gheddafi" all'attenzione delle capitali europee e magari anche di Washington.
Mi pare però che quanti oggi si scandalizzano sarebbero anche i primi a scagliarsi contro l'unico modo per riaprire davvero (non solo a parole) il "caso Gheddafi" e tutto ciò che comporterebbe, e che nessuno proponga una politica alternativa nei confronti della Libia, che ovviamente non si limiti a qualche sterile schiamazzo in più.
Tuttavia, basta con le ipocrisie! Nessuno sforzo o abilità diplomatica, né tanto meno fare la voce grossa, potrà mai porci al riparo dai ricatti di Gheddafi, che oggi è infinitamente meno pericoloso degli anni '80 e '90, ma ancora insopportabilmente molesto. Tutti sappiamo che la soluzione davvero definitiva al "problema Libia" è una sola: è il cambio di regime. Purtroppo, però, per quell'opzione siamo fuori tempo massimo. E di parecchi anni. Anche se ci fosse da parte italiana una volontà in tal senso (e non c'è mai stata, come non c'è adesso e non ci sarebbe mai, a partire da chi fa la voce più grossa in questi giorni - gente che non si scandalizzò quando il leader libico chiese e ottenne le dimissioni di un nostro ministro per una t-shirt), è mutata la posizione internazionale del regime di Gheddafi, che dopo la sua rinuncia alle armi di distruzione di massa e a sostenere il terrorismo, e dopo l'assunzione di responsabilità per l'attentato di Lockerbie, non è più isolato.
Nessun accordo con Gheddafi sarà mai "perfetto", tale cioè da non avere più problemi con il regime libico. Questo lo sappiamo benissimo tutti. Ma scartata l'unica vera soluzione definitiva (il cambio di regime), non ci rimane che affidarci pazientemente ad una diplomazia che da una parte blandisca l'ego del dittatore, e dall'altra riesca a concludere accordi che progressivamente tolgano di mezzo il maggior numero possibile di pretesti cui Gheddafi potrebbe appigliarsi per i suoi ricatti futuri.
Nel caso delle rivendicazioni libiche sulle acque territoriali, e dei rischi che quindi corrono i nostri pescherecci, è inutile sperare che le parole servano a qualcosa (probabilmente soldi, molti soldi, sortirebbero qualche effetto, beninteso fino alla successiva forma di ricatto). Anche perché non hanno a che fare con il recente trattato, ma con una posizione unilaterale da parte di Tripoli su cui semmai dovremmo coinvolgere, e portare a pronunciarsi, organismi internazionali. Il che non basterebbe comunque, temo, bisognerebbe probabilmente riportare sulla Libia una certa "pressione" da parte europea e americana. Una misura che potrebbe subito venire presa, è far scortare i nostri pescherecci da unità della marina e dell'aviazione militare. Consapevoli però che al primo incidente, Gheddafi ricomincerebbe a ricattarci con gli immigrati o con qualcos'altro. Uno scontro, una serie di scontri, potrebbe aiutarci a riportare lentamente il "dossier Gheddafi" all'attenzione delle capitali europee e magari anche di Washington.
Mi pare però che quanti oggi si scandalizzano sarebbero anche i primi a scagliarsi contro l'unico modo per riaprire davvero (non solo a parole) il "caso Gheddafi" e tutto ciò che comporterebbe, e che nessuno proponga una politica alternativa nei confronti della Libia, che ovviamente non si limiti a qualche sterile schiamazzo in più.
Wednesday, September 15, 2010
Basta indugi sul burqa
Finalmente approvato in Francia il divieto di indossare burqa e niqab nei luoghi pubblici, dopo aver già vietato (nel 2004) il velo islamico nelle scuole. Vietarli significa rifiutare che la versione più fondamentalista e ideologica dell'islam, che nega i più basilari diritti umani, venga tollerata e possa quindi radicarsi e prosperare nelle nostre società; e rifiutare di legittimarla agli occhi degli stessi Paesi musulmani. E' anche e soprattutto così, non solo con gli eserciti ma difendendo e facendo rispettare innanzitutto a casa nostra i nostri principi, che dobbiamo affrontare quella "guerra" per la civiltà iniziata con l'11 settembre. Da noi il fenomeno non è (ancora) così esteso e pressante come in Francia, ma dovremmo seguire almeno su questo l'esempio dei nostri cugini francesi. Basta scansare il problema fingendo che in Italia il divieto ci sia già di fatto grazie alla legge sull'ordine pubblico che vieta di andare in giro a volto coperto per non farsi riconoscere. Perché purtroppo, non è così.
Questo il testo della legge francese (traduzione mia):
Articolo 1
«Nessuno può, in luoghi pubblici, indossare indumenti destinati a nascondere il suo viso».
Articolo 2
«Per l'applicazione dell'articolo 1, per luoghi pubblici si intendono le vie pubbliche così come i luoghi aperti al pubblico o deputati a servizi pubblici».
«Il divieto previsto all'articolo 1 non si applica se l'indumento è prescritto o autorizzato per dispozioni di legge o regolamentari, se è giustificato per ragioni di salute o motivi professionali, o se è inserito nell'ambito di pratiche sportive, feste, o di manifestazioni artistiche o tradizionali».
Per quanto riguarda le sanzioni, una multa lieve ai trasgressori, mentre per chi obbliga altri a nascondere il proprio volto c'è la detenzione e ammende fino a 30 mila euro.
P.S.: Vedo che anche Fini ritiene ciò che ha deciso il Parlamento francese «non solo giusto ma opportuno e doveroso». Bene, perché mi era sembrato che appartenesse alla folta schiera di quanti scansano il problema ritenendo sufficiente la normativa attuale.
Questo il testo della legge francese (traduzione mia):
Articolo 1
«Nessuno può, in luoghi pubblici, indossare indumenti destinati a nascondere il suo viso».
Articolo 2
«Per l'applicazione dell'articolo 1, per luoghi pubblici si intendono le vie pubbliche così come i luoghi aperti al pubblico o deputati a servizi pubblici».
«Il divieto previsto all'articolo 1 non si applica se l'indumento è prescritto o autorizzato per dispozioni di legge o regolamentari, se è giustificato per ragioni di salute o motivi professionali, o se è inserito nell'ambito di pratiche sportive, feste, o di manifestazioni artistiche o tradizionali».
Per quanto riguarda le sanzioni, una multa lieve ai trasgressori, mentre per chi obbliga altri a nascondere il proprio volto c'è la detenzione e ammende fino a 30 mila euro.
P.S.: Vedo che anche Fini ritiene ciò che ha deciso il Parlamento francese «non solo giusto ma opportuno e doveroso». Bene, perché mi era sembrato che appartenesse alla folta schiera di quanti scansano il problema ritenendo sufficiente la normativa attuale.
Non abbiamo mica un'eternità
«Il consiglio che più servirebbe a Berlusconi è proprio quello che sicuramente non seguirà», premette Alberto Mingardi, su L'Occidentale, ma è l'unico che dovrebbe guidare le sue prossime mosse ed è lo stesso che da tempo in molti gli rivolgiamo. Non so se questo sia davvero il «suo ultimo giro di giostra», ma il tempo scarseggia ed è venuta l'ora di portare a casa qualcosa di storico, oltre che la solita ordinaria amministrazione con luci e ombre.
«Berlusconi dovrebbe accorgersi che sull'efficacia dell'azione del suo governo oggi si gioca davvero il giudizio che la storia darà di lui. Sedici anni fa scendeva in campo, all'apparenza, per risolvere due anomalie italiane: lo strabordante interventismo pubblico, che tracimava in corruzione, e il ruolo improprio giocato da una magistratura legittimata dal consenso popolare ma ormai irrispettosa di diritti dei singoli e procedure. Tutta l'avventura berlusconiana si è basata sull'idea che fosse necessario accettare l'anomalia Berlusconi, per liberare l'Italia da queste altre due anomalie. Per adempiere a questo patto tacito con gli elettori, il Cavaliere deve darsi tempi, obiettivi, scadenze. Come un semplice mortale, che accetta di non avere davanti a sé l'eternità».Anche perché se pure lui ce l'avesse, saremmo noi a non avercela...
Tuesday, September 14, 2010
Cose che sul Corrierino non si scrivono...
E si vanno a dire fuori. Ferruccio de Bortoli, ex direttore del Corriere della Sera, a La Vanguardia:
«Fini parla adesso di Berlusconi in termini critici. Ma dove è stato negli ultimi 16 anni? In quest'arco di tempo ha votato e appoggiato le peggiori leggi ad personam promosse da Berlusconi».Ernesto Galli Della Loggia, editorialista del Corriere della Sera, al quotidiano svizzero Basler Zeitung:
(...)
«Sono molto critico con Berlusconi ma gli riconosco dei meriti. È uno dei leader europei più longevi, il che significa o che la politica italiana non trova soluzioni o che Berlusconi ha talento. È a capo di un governo che ha gestito abbastanza bene la crisi economica e non sta lavorando male in ambiti come quello scolastico o della lotta alla criminalità organizzata... Gli sbarchi sono diminuiti e l'integrazione degli immigrati è soddisfacente anche nelle zone governate dalla Lega Nord... Spesso, quando si critica Berlusconi su quest'argomento ci si dimentica che l'Italia, come la Spagna, è per gli immigrati una delle porte verso l'Europa».
(...)
«Berlusconi ha molte colpe e il Corriere lo ha criticato per questo motivo, pero a volte è vittima dei pregiudizi. Che lui non faccia nulla per non alimentare questi pregiudizi è un'altra questione».
«Fini non ha idee, non ha intuito e nemmeno visione politica. Cinquant'anni per capire cosa è stato il fascismo, quindici per capire come funziona Berlusconi: si può avere fiducia in un simile politico?».
Monday, September 13, 2010
Il paradosso turco
Quello turco è un paradosso che potrebbe rivelarsi caso di scuola. Da ieri la Turchia ha una Costituzione indubbiamente più democratica, è quindi più vicina all'Europa e all'Occidente, ma proprio questo cambiamento potrebbe spalancare le porte all'islamismo e, di conseguenza, porre le premesse, in un futuro non molto lontano, per la negazione della libertà e la distruzione di quella stessa democrazia che oggi sembra formalmente più compiuta. E per di più potrebbe essere stata l'Europa, con le sue pressanti richieste ad Ankara, ad aver assestato la spinta decisiva, fungendo da grimaldello degli islamisti.
Molto dipenderà dalle reali intenzioni di Erdogan e del suo partito, ma anche no. Nel senso che, ferma restando la loro lealtà democratica, potrebbero però aver aperto un vero e proprio vaso di Pandora le cui conseguenze potrebbero rivelarsi incapaci di controllare. Solo il tempo ci dirà se la Turchia, con le sue istituzioni e la sua società, era davvero pronta, matura, per disfarsi della salvaguardia "laicista" dell'esercito e della magistratura. Certo è che una democrazia "sotto tutela" non può durare a lungo senza sfociare nell'autoritarismo, oppure incamminarsi verso una democrazia più compiuta. E quello turco è un caso che di per sé ha già qualcosa di miracoloso per la sua durata. Miracoloso che l'esercito nei suoi numerosi interventi non abbia mai superato la soglia "di non ritorno".
Quello turco è quindi anche il paradosso della democrazia come regime. Se pone in essere meccanismi e strutture troppo stringenti a propria difesa, rischia di negare se stessa; se allenta quelle "tutele", rischia di mettersi nelle mani di chi vorrebbe sovvertirla. D'altra parte, una democrazia che si rispetti deve affidarsi alla volontà popolare, non può averne paura oltremodo. (Bush nel dirsi contrario a rinviare le elezioni palestinesi del gennaio 2005, pur non ignorando la probabile affermazione di Hamas e le sue implicazioni, osservava che «se è questo che la gente pensa, allora scopriamolo»). Questo non significa che la demorazia non debba dotarsi di strumenti di autodifesa, né che bisogna arrendersi senza combattere di fronte al processo della sua dissoluzione, ma che non si può preventivamente escludere questo esito, pena la negazione di ciò che si vuole difendere, perché in ultima analisi l'essenza della democrazia è di lasciare sempre e comunque la sua sorte nelle mani dei cittadini.
La democrazia turca è quindi nelle mani dei turchi, non resta che sperare che sappiano farne buon uso e vigilare d'ora in poi su ogni concessione all'ideologia islamista. Per tutti questi problemi è miope che l'Europa abbia condizionato l'ingresso di Ankara nell'Unione al rispetto di parametri meramente "tecnici", giuridici o economici. Ora, ottenuti i cambiamenti formali che chiedeva, l'Ue dovrebbe spingere la Turchia verso Occidente anche nella sostanza della sua vita politica e sociale.
Molto dipenderà dalle reali intenzioni di Erdogan e del suo partito, ma anche no. Nel senso che, ferma restando la loro lealtà democratica, potrebbero però aver aperto un vero e proprio vaso di Pandora le cui conseguenze potrebbero rivelarsi incapaci di controllare. Solo il tempo ci dirà se la Turchia, con le sue istituzioni e la sua società, era davvero pronta, matura, per disfarsi della salvaguardia "laicista" dell'esercito e della magistratura. Certo è che una democrazia "sotto tutela" non può durare a lungo senza sfociare nell'autoritarismo, oppure incamminarsi verso una democrazia più compiuta. E quello turco è un caso che di per sé ha già qualcosa di miracoloso per la sua durata. Miracoloso che l'esercito nei suoi numerosi interventi non abbia mai superato la soglia "di non ritorno".
Quello turco è quindi anche il paradosso della democrazia come regime. Se pone in essere meccanismi e strutture troppo stringenti a propria difesa, rischia di negare se stessa; se allenta quelle "tutele", rischia di mettersi nelle mani di chi vorrebbe sovvertirla. D'altra parte, una democrazia che si rispetti deve affidarsi alla volontà popolare, non può averne paura oltremodo. (Bush nel dirsi contrario a rinviare le elezioni palestinesi del gennaio 2005, pur non ignorando la probabile affermazione di Hamas e le sue implicazioni, osservava che «se è questo che la gente pensa, allora scopriamolo»). Questo non significa che la demorazia non debba dotarsi di strumenti di autodifesa, né che bisogna arrendersi senza combattere di fronte al processo della sua dissoluzione, ma che non si può preventivamente escludere questo esito, pena la negazione di ciò che si vuole difendere, perché in ultima analisi l'essenza della democrazia è di lasciare sempre e comunque la sua sorte nelle mani dei cittadini.
La democrazia turca è quindi nelle mani dei turchi, non resta che sperare che sappiano farne buon uso e vigilare d'ora in poi su ogni concessione all'ideologia islamista. Per tutti questi problemi è miope che l'Europa abbia condizionato l'ingresso di Ankara nell'Unione al rispetto di parametri meramente "tecnici", giuridici o economici. Ora, ottenuti i cambiamenti formali che chiedeva, l'Ue dovrebbe spingere la Turchia verso Occidente anche nella sostanza della sua vita politica e sociale.
Saturday, September 11, 2010
Tony, ci manchi/3 - L'11 settembre non fu un malinteso
«E' straordinario come l'animo umano riesca ad assorbire velocemente lo shock e a riacquistare il suo ritmo naturale. Accade un cataclisma: i sensi vacillano. In quel momento di assoluta nitidezza, possiamo cogliere con l'occhio della mente il profondo significato di un evento. Col passare del tempo, non è che il ricordo sbiadisca; ma la sua luce si attenua, perde forza, e la nostra attenzione si sposta altrove. Ricordiamo l'evento, ma non come ci sentivamo in quel momento. L'impatto emotivo è rimpiazzato da un sentimento che, essendo più pacato, ci sembra più razionale. Eppure, paradossalmente, può esserlo di meno, perché la calma non è il risultato di una ulteriore analisi, ma del semplice trascorrere del tempo».
«L'idea che tutto il mondo, non solo l'America, fosse messo di fronte a una violenza assassina che di fatto aveva dichiarato guerra a tutti noi non fu liquidata come un'espressione minoritaria del sentimento popolare: era il sentimento di tutti... Le opinioni erano nette, chiare e risolute, non solo in Occidente ma ovunque».
«Oggi, quasi dieci anni dopo, siamo ancora in guerra, facciamo ancora i conti con le terribili conseguenze della guerra e, guardandoci indietro, non ricordiamo quasi più come abbiamo fatto a cacciarci in questa situazione. Ma, in quel luminoso mattino newyorchese in cui neppure una nuvola solcava il cielo azzurro, capimmo esattamente cosa stava succedendo e perché».Tony Blair ("A Journey")
Friday, September 10, 2010
Non si risolve con un'alzata di spalle
L'intenzione di Berlusconi e Bossi di coinvolgere il Quirinale sul caso Fini è stata banalmente ridotta dai commentatori e dai costituzionalisti ad una improbabile pretesa di ottenere dal presidente Napolitano le dimissioni del presidente della Camera, facendo passare ovviamente i due per «analfabeti». Ad esporre correttamente i termini del problema che il premier e il leader della Lega faranno eventualmente presente a Napolitano è Calderoli: «Quello di cui deve preoccuparsi Napolitano è il corretto funzionamento di un ramo del Parlamento: non ha competenze rispetto a dimissioni o ruoli politici - è consapevole il ministro leghista - ma ce l'ha rispetto al corretto funzionamento di un ramo del Parlamento, al punto che la Costituzione prevede che non solo abbia la possibilità di sciogliere le Camere, ma possa scioglierne anche soltanto una». Una possibilità, aggiunge, «non legata a una maggioranza o a una posizione politica, ma ad una oggettiva possibilità di funzionamento della Camera» stessa.
Evidentemente molti credono che le funzioni del presidente della Camera si esauriscano nelle quattro banalità citate da Fini nella sua intervista da Mentana. In realtà, non si tratta di dare la parola e moderare il dibattito, il ruolo è delicatissimo ed estremamente "politico". Non tutti sanno, forse, che il calendario dei lavori viene deciso «con il consenso dei presidenti di Gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera». In caso contrario, decide il presidente. A breve, tra l'altro, è previsto il rinnovo delle Commissioni. La loro composizione dev'essere proporzionale a quella dell'aula, ma essendo i loro membri in un numero molto inferiore ad essa, ci sono dei resti che vengono attribuiti ai vari gruppi a discrezione del presidente. In base all'assegnazione di questi resti, nelle commissioni può venir fuori una maggioranza di un tipo o di un altro. Essendo sorto un nuovo gruppo, costituito proprio da Fini, è fondato da parte di Pdl e Lega dubitare che sia in grado di adempiere questo passaggio con equilibrio e disinteresse.
Tra l'altro, si dimentica che essendo la maggioranza solida al Senato a prescindere dai voti finiani (almeno per ora), e se è vero che il sistema elettorale non dà la certezza che da ipotetiche elezioni anticipate emerga una maggioranza, nel caso in cui alla Camera venisse meno la fiducia al governo, in teoria nulla impedirebbe a Napolitano di sciogliere solo l'assemblea di Montecitorio.
Nella sua rubrica per Panorama, Giuliano Ferrara, che certo in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di ipotesi di ricomposizione e coesistenza, pone però una domanda ai «molti guru della Costituzione che offrono lezioni di alfabeto istituzionale a Berlusconi e a Bossi»:
«In parte per sua responsabilità, in parte per l'orgogliosa reazione politica e caratteriale di Berlusconi e del suo giro - ricostruisce Ferrara - tutto è precipitato verso un confronto correntizio, prima, e una deflagrazione scismatica piena di rancori e accuse personali poi». Ma pur avendo difeso Fini, Ferrara non transige sul ruolo di presidente della Camera:
Evidentemente molti credono che le funzioni del presidente della Camera si esauriscano nelle quattro banalità citate da Fini nella sua intervista da Mentana. In realtà, non si tratta di dare la parola e moderare il dibattito, il ruolo è delicatissimo ed estremamente "politico". Non tutti sanno, forse, che il calendario dei lavori viene deciso «con il consenso dei presidenti di Gruppi la cui consistenza numerica sia complessivamente pari almeno ai tre quarti dei componenti della Camera». In caso contrario, decide il presidente. A breve, tra l'altro, è previsto il rinnovo delle Commissioni. La loro composizione dev'essere proporzionale a quella dell'aula, ma essendo i loro membri in un numero molto inferiore ad essa, ci sono dei resti che vengono attribuiti ai vari gruppi a discrezione del presidente. In base all'assegnazione di questi resti, nelle commissioni può venir fuori una maggioranza di un tipo o di un altro. Essendo sorto un nuovo gruppo, costituito proprio da Fini, è fondato da parte di Pdl e Lega dubitare che sia in grado di adempiere questo passaggio con equilibrio e disinteresse.
Tra l'altro, si dimentica che essendo la maggioranza solida al Senato a prescindere dai voti finiani (almeno per ora), e se è vero che il sistema elettorale non dà la certezza che da ipotetiche elezioni anticipate emerga una maggioranza, nel caso in cui alla Camera venisse meno la fiducia al governo, in teoria nulla impedirebbe a Napolitano di sciogliere solo l'assemblea di Montecitorio.
Nella sua rubrica per Panorama, Giuliano Ferrara, che certo in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di ipotesi di ricomposizione e coesistenza, pone però una domanda ai «molti guru della Costituzione che offrono lezioni di alfabeto istituzionale a Berlusconi e a Bossi»:
«E' decente che un presidente di assemblea faccia politica attiva, costituisca un suo gruppo parlamentare a nome del quale parla, si faccia portavoce del progetto di fondazione di un partito e intraprenda un negoziato politico sulle sorti della legislatura con la maggioranza di centrodestra, con l'area di centro e con la minoranza di centrosinistra? Dico decente in senso non morale, ma politico. Fa bene questo quadretto alle istituzioni, alla loro credibilità civile, alla loro saldezza nello spirito pubblico?».Il direttore del Foglio ha evidentemente il problema di riconoscere di essersi sbagliato sulle reali intenzioni di Fini. Il suo «piano originario», scrive, «anche in considerazione del ruolo che era andato a ricoprire, era diverso». Aveva suscitato il suo «interesse» perché «voleva o diceva di voler mettere in circolazione nuove idee di una destra diversa da quella di questi anni, sperimentare pluralismo e dissenso dentro il partitone unificato che aveva vinto le elezioni, e giocava la partita in solitario, come si conveniva a chi doveva funzionare da garante super partes. Questo era compatibile con la presidenza della Camera». Fin qui nulla di male. Anzi, avrebbe potuto dare un contributo positivo al partito con le sue distinzioni su temi quali la bioetica, l'immigrazione, la cittadinanza, persino il Sud e il federalismo. Conoscendo il percorso e gli errori politici di Fini (e l'uso fatto della presidenza di Montecitorio dai suoi predecessori) personalmente mi appariva chiaro, come a molti altri, dove voleva andare a parare. Ma, come detto, il dissenso poteva essere ancora gestito politicamente. Poi però Fini, coerentemente con le sue reali intenzioni, ha varcato la linea rossa, che in tempi non sospetti avevo individuato nella giustizia. Si è fatto sempre più chiaro l'obiettivo di sfidare la leadership di Berlusconi - non nelle urne, ma per logoramento nei Palazzi - non rinunciando a offrire sponde verbali e non solo agli attacchi mediatico-giudiziari.
«In parte per sua responsabilità, in parte per l'orgogliosa reazione politica e caratteriale di Berlusconi e del suo giro - ricostruisce Ferrara - tutto è precipitato verso un confronto correntizio, prima, e una deflagrazione scismatica piena di rancori e accuse personali poi». Ma pur avendo difeso Fini, Ferrara non transige sul ruolo di presidente della Camera:
«Fini non ha tutti i torti quando dice che è stato buttato fuori senza tanti complimenti, e attaccato pesantemente con notevole rozzezza, ma non è nel suo buon diritto quando aggiunge che può stare seduto dove sta, fino al compimento della legislatura, senza troppi problemi. È appena ovvio che non si può attribuire a Giorgio Napolitano il compito, come ha detto Bossi con formula esilarante, di "spostare Fini da un'altra parte". Ma i poteri di garanzia, invocati su Repubblica da Stefano Rodotà con puntigliosa e protocollare ipocrisia come poteri inattaccabili, hanno un protocollo deontologico che sta in stretta connessione con la loro inviolabilità virtuale: devono comportarsi in un certo modo. Ricordo gli strali di Rodotà contro i giudici costituzionali che accettarono un invito a cena del presidente del Consiglio: bisogna essere e parere inattaccabili, quando si maneggiano le garanzie. E, nonostante la privacy, forse non aveva torto. Nel caso di Fini, che tiene comizi alle feste del neonato suo partito, proclama l'inesistenza del partito di provenienza o Pdl, si tratta di ben più di un invito a cena privato (con sospetto delitto), forse inopportuno: si tratta di una performance da teatro politico, di una sortita in campo aperto che non fa essere il presidente, né certo lo fa parere, super partes ovvero capace di obiettività nella gestione dei lavori di assemblea. Le forme sono sostanza, ci insegnano su questo sempre i vati del costituzionalismo progressista, i profeti dell'establishment politicamente connotato. La questione formale di come si possano dirigere i lavori della Camera facendo attivamente politica, e conflittualmente esposti sulla scena dei rancori e delle polemiche, non si può risolvere con un'alzata di spalle».
Per la sinistra non c'è alternativa alla lezione di Blair
In due interviste di oggi (Corriere e (Sole 24 Ore), Tony Blair torna a ribadire la sua stima e il suo apprezzamento per Berlusconi («non ha assolutamente niente del politico convenzionale. È unico. La conseguenza è che chi non si capisce finisce per non piacere. Io vado d'accordo con lui perché è diretto e leale alla parola data. L'ho sempre detto, a tutti. Ed è il motivo per cui ci intendiamo»), confermando i giudizi contenuti nel suo libro di Memorie ("A Journey"), ma soprattutto impartisce una lezione che le sinistre europee (e quella italiana in particolare) dovrebbero imparare a memoria. Di più, assimilare. L'ex inquilino del numero 10 di Downing Street, infatti, ha le idee molto chiare sulla malattia che affligge le sinistre europee - italiana e britannica comprese - impedendo loro di vincere e governare:
«La sinistra vincerà quando deciderà di voler vincere. Deve fare una sola cosa: analizzare il mondo come il mondo è oggi, non com'era, o come vorrebbe che fosse, o come avrebbe voluto che fosse stato. Valuta il mondo com'è e troverai le risposte giuste. È ricetta buona per tutti: i partiti progressisti vincono quando sono all'avanguardia nel capire il futuro, sono sconfitti quando diventano una brutta copia dei conservatori. Quelli con la "c" minuscola».Nel nuovo secolo «si tratta di giudicare in termini di giusto o sbagliato, non destra o sinistra». «Nessuna impostazione ideologica», dunque, e se la sinistra arretra in Europa è «perché di fronte alle incertezze del presente difende l'immobilismo. Il dovere della sinistra - sottolinea - è quello di sostenere i mutamenti, non rifiutarli e resistere». Un esempio concreto di quanto sta sostenendo Blair lo ravvisa nella reazione della sinistra alla crisi economica, dopo la quale tutti pensavano che potesse tornare ad avanzare in Europa.
«Quando la crisi finanziaria ha colpito a sinistra c'è stato un sentimento forte contro le logiche di mercato e molti si sono anche fatti scappare un "finalmente". Ma l'opinione pubblica no. Il problema di Gordon e di molti altri è stato credere che lo stato fosse tornato di moda, che le politiche sarebbero andate nella direzione pubblica e l'elettorato automaticamente a sinistra. Non poteva succedere perché i cambiamenti sociali avvenuti prima della crisi sono sopravvissuti alla crisi. Gli elettori sanno che parte del mercato ha fallito, si arrabbiano, ma non credono che la risposta sia lo Stato».La grande intuizione di Blair, che tutti a sinistra, anche i più riformisti, rigettano, è che «se alla gente tu presenti la scelta fra uno Stato burocratico invasivo e uno Stato agile minimo, la gente opta per lo Stato minimo». A questo punto, ad una sinistra che voglia ottenere il consenso dei cittadini per governare, non rimane che «una terza via: quella di uno Stato attento alla giustizia sociale, regolatore e riformatore. Ed è quella per cui mi batto».
Sua figlia, una squadrista
Ventiquattro anni, un diploma all'Istituto d'arte, studentessa di psicologia a Torino, figlia di un magistrato. Non certo il ritratto del disagio sociale quello della ragazza che avrebbe lanciato il fumogeno addosso al segretario della Cisl Raffaele Bonanni alla festa del Pd, ma l'identikit perfetto di un tipo di squadrismo ideologico che ha un ben preciso retroterra culturale e sociale che non si può far finta di ignorare. Lontano anni luce da quegli operai legittimamente interessati alle nuove relazioni industriali che vengono contestate in questi giorni (ma neanche nel loro caso, sia chiaro, sarebbe giustificata l'aggressione a Bonanni). Non c'è disperazione, non c'è disagio, non c'è pazzia, non c'è ignoranza. C'è indottrinamento all'odio politico e sappiamo tutti da dove proviene e coloro che ne sono i sobillatori.
Il tipico milieu famigliare (professori, magistrati) in cui - al riparo da qualsiasi preoccupazione per il futuro, dato l'agio economico e le relazioni sociali paterne o materne - nasce e si alimenta un certo intellettualismo, l'illusione di una superiorità morale, di appartenere ad una casta di "illuminati" cui spetta di indicare il "Bene" e di ottenere, se necessario anche con la violenza, che tutti si adeguino. Quando scoprono che semplicemente non funziona così, che la democrazia gli dà torto, il trauma è devastante, non si capacitano, non si riprendono più, si sentono usurpati di quella che credevano essere la loro funzione sociale.
E' anche il tipico prodotto della nostra università di massa, dove insieme ai pochi che sono lì per studiare davvero perché avvertono il bisogno di dotarsi di un bagaglio culturale per affrontare con serenità il futuro - e a loro danno - vengono parcheggiati questi figli di papà nullafacenti in attesa solo di venire inseriti senza alcun merito in qualche buona posizione, grazie alle conoscenze di famiglia, e nel frattempo giocano ai rivoluzionari, questi rampolli dei moralmente superiori. Non soprende che in un contesto del genere non si abbia il minimo elemento per esprimere un'idea anche vagamente in contatto con la realtà del lavoro e dell'impresa, cioè di ciò di cui in ultima analisi le persone normali vivono tutti i giorni.
Sintomatica l'intervista al padre della ragazza, un pm (e meno male che la figlia non studia giurisprudenza, ce la saremmo potuta ritrovare in un'aula di tribunale a perseguitare i "nemici del popolo"!): «Non le ho chiesto niente dell'accaduto, né tantomeno se fosse stata lei a lanciare quel fumogeno». Ecco, appunto. Rubina, assicura il padre, «è stata educata sin da bambina al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla non violenza. Da molti anni lavora in alcune associazioni di volontariato e si è sempre adoperata a favore del prossimo». E meno male... Sarà anche tutto vero, ma per la legge il suo non è esattamente il profilo dello stinco di santo: «... ha dovuto mostrare i documenti e rispondere alle domande degli agenti per una decina di minuti. Loro la conoscevano già, il suo nome è legato a "un'assidua frequentazione di Askatasuna e del Collettivo universitario Autonomia", a una passata denuncia per invasione e occupazione di edifici e a un precedente reato di violenza privata».
Già, cosa c'era da aspettarsi da una figlia che frequenta un centro sociale di nome Askatasuna (che si richiama al terrorismo basco)? Il padre dice che non parlerà con i suoi colleghi di Torino. Ti credo, la figlia è in una botte di ferro, nelle mani del "compagno" Gian Carlo Caselli. Guardi in faccia la realtà, signor Affronte, sua figlia è una volgare squadrista. Altro che questione sociale o politica, il fenomeno dev'essere affrontato come questione di mero ordine pubblico (per usare un eufemismo).
Il tipico milieu famigliare (professori, magistrati) in cui - al riparo da qualsiasi preoccupazione per il futuro, dato l'agio economico e le relazioni sociali paterne o materne - nasce e si alimenta un certo intellettualismo, l'illusione di una superiorità morale, di appartenere ad una casta di "illuminati" cui spetta di indicare il "Bene" e di ottenere, se necessario anche con la violenza, che tutti si adeguino. Quando scoprono che semplicemente non funziona così, che la democrazia gli dà torto, il trauma è devastante, non si capacitano, non si riprendono più, si sentono usurpati di quella che credevano essere la loro funzione sociale.
E' anche il tipico prodotto della nostra università di massa, dove insieme ai pochi che sono lì per studiare davvero perché avvertono il bisogno di dotarsi di un bagaglio culturale per affrontare con serenità il futuro - e a loro danno - vengono parcheggiati questi figli di papà nullafacenti in attesa solo di venire inseriti senza alcun merito in qualche buona posizione, grazie alle conoscenze di famiglia, e nel frattempo giocano ai rivoluzionari, questi rampolli dei moralmente superiori. Non soprende che in un contesto del genere non si abbia il minimo elemento per esprimere un'idea anche vagamente in contatto con la realtà del lavoro e dell'impresa, cioè di ciò di cui in ultima analisi le persone normali vivono tutti i giorni.
Sintomatica l'intervista al padre della ragazza, un pm (e meno male che la figlia non studia giurisprudenza, ce la saremmo potuta ritrovare in un'aula di tribunale a perseguitare i "nemici del popolo"!): «Non le ho chiesto niente dell'accaduto, né tantomeno se fosse stata lei a lanciare quel fumogeno». Ecco, appunto. Rubina, assicura il padre, «è stata educata sin da bambina al rispetto del prossimo, alla tolleranza, alla non violenza. Da molti anni lavora in alcune associazioni di volontariato e si è sempre adoperata a favore del prossimo». E meno male... Sarà anche tutto vero, ma per la legge il suo non è esattamente il profilo dello stinco di santo: «... ha dovuto mostrare i documenti e rispondere alle domande degli agenti per una decina di minuti. Loro la conoscevano già, il suo nome è legato a "un'assidua frequentazione di Askatasuna e del Collettivo universitario Autonomia", a una passata denuncia per invasione e occupazione di edifici e a un precedente reato di violenza privata».
Già, cosa c'era da aspettarsi da una figlia che frequenta un centro sociale di nome Askatasuna (che si richiama al terrorismo basco)? Il padre dice che non parlerà con i suoi colleghi di Torino. Ti credo, la figlia è in una botte di ferro, nelle mani del "compagno" Gian Carlo Caselli. Guardi in faccia la realtà, signor Affronte, sua figlia è una volgare squadrista. Altro che questione sociale o politica, il fenomeno dev'essere affrontato come questione di mero ordine pubblico (per usare un eufemismo).
Thursday, September 09, 2010
Fini liberale? Wishful thinking
Per chi sa guardare oltre i tatticismi, oltre le dissimulazioni, dal discorso di Fini a Mirabello avrà percepito non solo l'astio antiberlusconiano che ormai spinge il presidente della Camera, ma anche la vera natura di Fli dal punto di vista dei contenuti politici. Somiglia molto alla vecchia An per quanto riguarda le concezioni economiche (i riflessi, direi) e gli interessi cui intende rivolgersi, conserva lo stesso retropensiero anti-federalista, mentre riguardo la Costituzione e l'assetto istituzionale ha abbandonato l'approccio riformatore che ha sempre contraddistinto il centrodestra - e in particolare Fini (da sempre presidenzialista) - per assumere una posizione conservatrice molto simile a quella espressa da Violante nel Pd: prima parte della Carta «intangibile», mentre per il sistema di governo non si va più in là di un semplice rafforzamento contestuale (in concreto ancora da definire) sia dell'esecutivo che del Parlamento. Questo spostamento, secondo Panebianco, è «ciò che più ha accreditato Fini presso la sinistra e, più in generale, presso tutti coloro che nella Costituzione così come è vedono un argine contro il "cesarismo" in generale, e quello berlusconiano in particolare». Sull'immigrazione Fini ha sfumato molto, da quando accusava il governo di violare i diritti umani, mentre di bioetica non c'è più traccia nei suoi discorsi.
Il discorso a Mirabello, da molti definito un "manifesto", non ha convinto, alcuni osservatori. Tra questi, appunto Angelo Panebianco, che alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, oltre ad appuntare «qualche tatticismo» e le «molte cose» apparse fra loro «piuttosto eterogenee», perché rivolte a spezzoni diversi di elettorato, in particolare segnalava l'ambiguità del presidente della Camera sulle riforme istituzionali e della giustizia e sul federalismo fiscale, chiedendo di chiarire se avesse abbandonato le storiche istanze riformatrici del centrodestra (presidenzialismo o premierato, e separazione delle carriere e del Csm) e osservando come nel suo discorso avesse «annacquato» il federalismo fiscale evocando un «federalismo solidale».
Oggi Fini risponde a Panebianco, il quale ringrazia, ma non si dice convinto: «I miei dubbi permangono». Dopo aver proclamato «l'intangibilità» dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione, riguardo la necessaria riforma della seconda Fini osserva che «la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all'esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l'abbandono del modello di democrazia parlamentare»; e spiega, dunque, che occorre «aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale». Da sempre personalmente a favore del presidenzialismo, Fini ora sembra optare per il parlamentarismo. Volendo restare in questo ambito, il politologo osserva che però «rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell'ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti (la 'centralità') e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via».
Riguardo il secondo appunto, sul federalismo fiscale, Fini conferma il suo approccio di fondo di un «federalismo solidale», sottolineando la necessità di «meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici». Chiarimento che non supera la diffidenza di Panebianco, che nella sua replica ribadisce: «Se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorre anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù».
Anche a Il Foglio, giornale che in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di una linea della ricomposizione e della coesistenza, non è piaciuto il discorso pronunciato dal presidente della Camera a Mirabello, «troppo lungo, una lingua di legno ricca di frasi fatte». Certo, un discorso «tecnicamente a posto, politicamente anche abile, con il solito passaggio del cerino agli interlocutori», ma «poco per dare un senso e una visione». «Fini - si osserva in uno degli editoriali a pagina tre - era diventato interessante quando aveva reagito individualisticamente e con le idee all'isolamento politico... Un dissenso controllato, un'altra versione normalizzante della destra italiana: erano cose che valeva la pena di sperimentare nel dorato mondo del berlusconismo plebiscitario. Un discorso da leader di una piccola formazione che cerca spazio nella maggioranza o altrove segna un ritorno al passato».
Oltre a Panebianco e al Foglio, arriva un giudizio ancora più severo, quello del sociologo Luca Ricolfi, non certo tenero con il governo Berlusconi. Intervistato da il Giornale, sottolinea la natura illiberale e assistenzialista del movimento finiano. I «temi discriminanti» per un partito che si proclama liberale («quelli dell'economia, meno tasse e meno spesa pubblica improduttiva») non sono del tutto assenti, osserva riferendosi alle posizioni di Baldassarri, ma «hanno un peso minore, sono come sommersi dall'impostazione antifederalista». Fli, spiega Ricolfi, è forse più liberale del Pdl sul dissenso interno, i diritti civili e la concezione delle istituzioni e dello stato di diritto, ma «se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente, perché la visione di Berlusconi - per quanto lontana dal liberalismo - è comunque più liberale di quella di Fini». Dunque, Fli è «l'ennesimo partito della spesa pubblica» e «non potrebbe essere diversamente per un partito che prende i voti soprattutto dal Lazio in giù».
In merito all'idea di Fini di un «federalismo solidale», Ricolfi sottolinea che «l'unica questione è di trovare il modo di far funzionare il federalismo, non certo di annacquarlo ulteriormente» e conclude che i leghisti che vedono nel movimento di Fini un partito «sudista-assistenzialista» «non hanno qualche ragione, hanno tutte le ragioni». Se intorno al presidente della Camera si stanno coagulando molte aspettative, è perché «molte persone di destra istruite sognano un partito conservatore classico, europeo, possibilmente liberale e di massa. E appena qualcuno glielo promette - osserva Ricolfi - ci credono con fanciullesca fiducia», ma si tratta di un «wishful thinking», sono «pie illusioni». Pesante il paragone usato per definire la natura delle mosse dell'ex leader di An: «Fini, come D'Alema, è un tattico, molto abile a gestire il breve periodo ma poco incline a pensare nel registro della lunga durata». Il sociologo stima un eventuale partito di Fini non oltre il 5 per cento e tra un futuro da nuovo leader del centrodestra italiano o da leader di «un partitino in una coalizione "marmellata" con Rutelli, Casini e gli altri», vede più probabile la seconda ipotesi.
Il discorso a Mirabello, da molti definito un "manifesto", non ha convinto, alcuni osservatori. Tra questi, appunto Angelo Panebianco, che alcuni giorni fa sul Corriere della Sera, oltre ad appuntare «qualche tatticismo» e le «molte cose» apparse fra loro «piuttosto eterogenee», perché rivolte a spezzoni diversi di elettorato, in particolare segnalava l'ambiguità del presidente della Camera sulle riforme istituzionali e della giustizia e sul federalismo fiscale, chiedendo di chiarire se avesse abbandonato le storiche istanze riformatrici del centrodestra (presidenzialismo o premierato, e separazione delle carriere e del Csm) e osservando come nel suo discorso avesse «annacquato» il federalismo fiscale evocando un «federalismo solidale».
Oggi Fini risponde a Panebianco, il quale ringrazia, ma non si dice convinto: «I miei dubbi permangono». Dopo aver proclamato «l'intangibilità» dei principi sanciti nella prima parte della Costituzione, riguardo la necessaria riforma della seconda Fini osserva che «la salvaguardia della possibilità di scelta, da parte degli elettori, della coalizione di governo e la necessità di conferire maggiore incisività e stabilità all'esecutivo non devono necessariamente comportare il ridimensionamento o, peggio ancora, l'abbandono del modello di democrazia parlamentare»; e spiega, dunque, che occorre «aumentare contestualmente la capacità deliberativa e di controllo del Parlamento e quella decisionale del Governo e di farlo in un quadro di rispettiva ed armoniosa crescita dei ruoli, per garantire una più efficiente funzionalità del sistema che non può esaurirsi, come sempre più spesso si sostiene, nel momento elettorale». Da sempre personalmente a favore del presidenzialismo, Fini ora sembra optare per il parlamentarismo. Volendo restare in questo ambito, il politologo osserva che però «rafforzare contemporaneamente la capacità deliberativa del Parlamento e quella decisionale del governo è molto difficile nell'ambito delle democrazie parlamentari (il caso dei presidenzialismi è ovviamente diverso). Le democrazie parlamentari oscillano, in genere, fra sistemi con parlamenti forti (la 'centralità') e governi deboli e sistemi con governi forti e parlamenti deboli o subordinati. È difficile trovare una terza via».
Riguardo il secondo appunto, sul federalismo fiscale, Fini conferma il suo approccio di fondo di un «federalismo solidale», sottolineando la necessità di «meccanismi di perequazione, in grado, se gestiti a livello centrale e in modo imparziale, di ridurre il divario esistente, e non più tollerabile, tra le aree del Paese maggiormente sviluppate e quelle affette da ritardi storici». Chiarimento che non supera la diffidenza di Panebianco, che nella sua replica ribadisce: «Se si segue la strada degli interventi perequativi (per il Mezzogiorno), occorre anche indicare come impedire che tali interventi servano più a conservare gli antichi vizi che a stimolare le nuove virtù».
Anche a Il Foglio, giornale che in questi mesi non ha mostrato antipatia nei confronti di Fini e, anzi, si è fatto promotore di una linea della ricomposizione e della coesistenza, non è piaciuto il discorso pronunciato dal presidente della Camera a Mirabello, «troppo lungo, una lingua di legno ricca di frasi fatte». Certo, un discorso «tecnicamente a posto, politicamente anche abile, con il solito passaggio del cerino agli interlocutori», ma «poco per dare un senso e una visione». «Fini - si osserva in uno degli editoriali a pagina tre - era diventato interessante quando aveva reagito individualisticamente e con le idee all'isolamento politico... Un dissenso controllato, un'altra versione normalizzante della destra italiana: erano cose che valeva la pena di sperimentare nel dorato mondo del berlusconismo plebiscitario. Un discorso da leader di una piccola formazione che cerca spazio nella maggioranza o altrove segna un ritorno al passato».
Oltre a Panebianco e al Foglio, arriva un giudizio ancora più severo, quello del sociologo Luca Ricolfi, non certo tenero con il governo Berlusconi. Intervistato da il Giornale, sottolinea la natura illiberale e assistenzialista del movimento finiano. I «temi discriminanti» per un partito che si proclama liberale («quelli dell'economia, meno tasse e meno spesa pubblica improduttiva») non sono del tutto assenti, osserva riferendosi alle posizioni di Baldassarri, ma «hanno un peso minore, sono come sommersi dall'impostazione antifederalista». Fli, spiega Ricolfi, è forse più liberale del Pdl sul dissenso interno, i diritti civili e la concezione delle istituzioni e dello stato di diritto, ma «se si va alla sostanza, ossia alla politica economica, è il partito di Fini che soccombe nettamente, perché la visione di Berlusconi - per quanto lontana dal liberalismo - è comunque più liberale di quella di Fini». Dunque, Fli è «l'ennesimo partito della spesa pubblica» e «non potrebbe essere diversamente per un partito che prende i voti soprattutto dal Lazio in giù».
In merito all'idea di Fini di un «federalismo solidale», Ricolfi sottolinea che «l'unica questione è di trovare il modo di far funzionare il federalismo, non certo di annacquarlo ulteriormente» e conclude che i leghisti che vedono nel movimento di Fini un partito «sudista-assistenzialista» «non hanno qualche ragione, hanno tutte le ragioni». Se intorno al presidente della Camera si stanno coagulando molte aspettative, è perché «molte persone di destra istruite sognano un partito conservatore classico, europeo, possibilmente liberale e di massa. E appena qualcuno glielo promette - osserva Ricolfi - ci credono con fanciullesca fiducia», ma si tratta di un «wishful thinking», sono «pie illusioni». Pesante il paragone usato per definire la natura delle mosse dell'ex leader di An: «Fini, come D'Alema, è un tattico, molto abile a gestire il breve periodo ma poco incline a pensare nel registro della lunga durata». Il sociologo stima un eventuale partito di Fini non oltre il 5 per cento e tra un futuro da nuovo leader del centrodestra italiano o da leader di «un partitino in una coalizione "marmellata" con Rutelli, Casini e gli altri», vede più probabile la seconda ipotesi.
Wednesday, September 08, 2010
Tony, ci manchi/2 - Consigli per aspiranti (o consumati) leader
«Ecco una lezione pratica sull'incedere delle riforme: la proposta è giudicata disastrosa; avanza fra tagli radicali e forti opposizioni; è impopolare; entra in vigore; e di lì a poco è come se fosse sempre esistita. Dunque, se pensi che una riforma sia giusta, non arrenderti. L'opposizione è inevitabile, ma raramente è imbattibile. A fronte di molti detrattori vociferanti vi saranno parecchi sostenitori silenziosi. La leadership s'impernia sulle decisioni che portano a un cambiamento: se non sai gestirle, è meglio che non diventi un leader. Ma questa lezione ha una portata ancora più ampia: insegna a emergere dalla mischia, a parlare soverchiando il brusio e il chiasso, e a restare sempre, sempre concentrati sul disegno generale».
«Col tempo, ci siamo resi conto di esserci sbagliati: senza cambiare le strutture, non si possono elevare gli standard, se non di pochissimo. All'inizio del secondo mandato, abbiamo ideato un nuovo modello per le riforme: volevamo trasformare la natura monolitica del servizio pubblico; introdurre la competizione; sfumare le distinzioni tra il settore pubblico e quello privato; contrastare le tradizionali demarcazioni professionali e sindacali riguardo al lavoro e agli interessi acquisiti; e, in generale, cercare di liberare il sistema, di lasciare che si rinnovasse, si differenziasse al suo interno, respirasse e divenisse più elastico».Tony Blair ("A Journey")
Anomalia non trascurabile
Come un sol uomo la stampa mainstream e gli esponenti del conformismo costituzionale, con il ditino alzato ricordano che non è possibile "sfiduciare" il presidente della Camera, né il presidente della Repubblica può costringerlo a dimettersi. Da un lato si tende a distorcere ciò che si contesta a Fini e ciò che Berlusconi e Bossi si aspettano dal Colle, dall'altro a deviare l'attenzione dall'oggetto della contesa (l'incompatibilità di Fini) all'«irritualità», o «analfabetismo», della loro richiesta.
Tutti sanno - compresi B&B - che Napolitano non può costringere alle dimissioni Fini e che non può esserci un voto di sfiducia nei suoi confronti. Eppure, le solite truppe cammellate di costituzionalisti - sempre gli stessi - vengono arruolate dai giornali per ricordarcelo e ridicolizzare la richiesta di Pdl e Lega. Come recitava testualmente la nota di lunedì, si tratta di «rappresentare» a Napolitano la «grave situazione». Semplificando, non si potrà costringerlo a dimettersi, ma almeno chiedere sarà ancora lecito. O no? Chiedere direttamente a Fini; e chiedere a Napolitano di chiedere a sua volta. Rispondere, come si dice, è cortesia. D'altra parte, anche Villari non voleva dimettersi dalla presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e nessuno poteva costringerlo, neanche il presidente del Senato, ma alla fine si è dovuto dimettere... e in quel caso era il centrosinistra che ne chiedeva le dimissioni. Alla fine, si dovette arrivare al boicotaggio dei lavori della Commissione per fargli capire che non era più gradito. Ma all'epoca venne trattato più o meno come un usurpatore, e non aveva neanche assunto nei confronti del suo partito - il Pd - le posizioni che Fini sta assumento nei confronti del Pdl e del governo.
La questione dell'incompatibilità di Fini non poteva non essere sollevata (ovviamente per chi è convinto che esista). E non solo non è ridicolo o anticostituzionale, ma è persino doveroso coinvolgere il Quirinale, proprio in quanto garante dei corretti rapporti tra le istituzioni e del corretto funzionamento delle stesse. Qui bisogna capire se ce n'è una - la presidenza della Camera - che interferisce indebitamente sulla stabilità del governo. E' «irrituale» rivolgersi al capo dello Stato? Sì, come lo è nella storia repubblicana il doppio ruolo assunto da Fini. Con i suoi comportamenti destabilizza la governabilità del Paese, un valore che spetta anche al presidente Napolitano tutelare. Legittimo che Fini la "minacci" da leader politico, ma non da presidente della Camera.
Cosa si contesta quindi esattamente a Fini? Non la sua appartenenza politica o partitica, né l'essere un leader politico, né la partecipazione a manifestazioni di partito. Altri presidenti prima di lui lo erano e non hanno rinunciato all'attività politica, ma hanno saputo tenere distinti i due ruoli, cosa che lui non ha saputo e voluto fare. Né si pretende che risponda alla maggioranza che lo ha eletto. Ma non dovrebbe neanche ritagliarsi un ruolo da oppositore e usare la sua carica come un palco da comizi. Dovrebbe essere - e mostrarsi - super partes, garante dei ruoli di tutti i gruppi presenti nell'assemblea che presiede. E alla luce delle posizioni che ha assunto, è lecito dubitare che possa farlo serenamente.
A Mirabello è arrivato addirittura a disconoscere l'esistenza del maggiore partito rappresentato alla Camera, e a definire «sudditi» quasi la metà dei deputati, dimostrando palesemente di svolgere ormai un ruolo di parte, del tutto incompatibile con quello di garante. L'ho scritto più volte: cosa sarebbe accaduto se Fanfani, Nilde Jotti, o Luciano Violante, avessero costituito loro gruppi autonomi in dissenso col loro partito, e avessero negato persino la sua esistenza? Nel '69, in seguito alla scissione del PSU, il presidente della Camera Pertini, nonostante non ne fosse minimamente il protagonista, si dimise. La Camera lo rielesse, ma lui dimostrò almeno la correttezza di rimettere il mandato.
Dunque, presidenti della Camera al tempo stesso leader politici si sono visti. Mai nessuno però ha costituito "suoi" gruppi parlamentari e, di fatto, un nuovo partito; mai nessuno ha utilizzato la carica per condurre la sua personale lotta politica all'interno del partito e per affermare la sua leadership in modo ostile alla maggioranza; mai nessuno (neanche Casini e Bertinotti in tale misura) ha rivolto continue critiche e attacchi al governo e personalmente al presidente del Consiglio; ed è certamente scorretto per un presidente della Camera esprimersi nel merito di provvedimenti ancora all'esame del Parlamento, come ha fatto Fini numerose volte, sia presiedendo l'assemblea sia durante conferenze ed incontri organizzati dalla Camera stessa. E anche nella proposta di «nuovo patto di legislatura» che Berlusconi e Bossi dovrebbero negoziare con lui, Fini reclama un ruolo non suo. Non si è mai visto. Mai un presidente della Camera si era permesso di rivendicare per sé un ruolo di vero e proprio indirizzo politico nell'azione di governo.
Con la riforma dei regolamenti parlamentari, tra l'altro, il presidente della Camera ha poteri rilevantissimi sull'agenda dei lavori, e quindi sull'attuazione del programma di governo. Se i due gruppi di maggioranza alla Camera non si sentono più garantiti dal presidente dell'assemblea e se ciò minaccia il corretto funzionamento del potere legislativo, come fa Napolitano a ignorare la situazione? Insomma, ci troviamo di fronte ad una conclamata e inedita anomalia istituzionale, di cui ben rende l'idea una semplice domanda: in che veste, in caso di crisi di governo e quindi di consultazioni al Quirinale, Gianfranco Fini esprimerebbe il suo parere al presidente della Repubblica? Riuscirebbe a essere neutrale, come la carica che riveste gli imporrebbe, o a parlare sarebbe il Fini di Mirabello? Tutti problemi che guarda caso i custodi della Costituzione preferiscono non porsi, finché di mezzo ci sarà Berlusconi.
Tutti sanno - compresi B&B - che Napolitano non può costringere alle dimissioni Fini e che non può esserci un voto di sfiducia nei suoi confronti. Eppure, le solite truppe cammellate di costituzionalisti - sempre gli stessi - vengono arruolate dai giornali per ricordarcelo e ridicolizzare la richiesta di Pdl e Lega. Come recitava testualmente la nota di lunedì, si tratta di «rappresentare» a Napolitano la «grave situazione». Semplificando, non si potrà costringerlo a dimettersi, ma almeno chiedere sarà ancora lecito. O no? Chiedere direttamente a Fini; e chiedere a Napolitano di chiedere a sua volta. Rispondere, come si dice, è cortesia. D'altra parte, anche Villari non voleva dimettersi dalla presidenza della Commissione di Vigilanza Rai e nessuno poteva costringerlo, neanche il presidente del Senato, ma alla fine si è dovuto dimettere... e in quel caso era il centrosinistra che ne chiedeva le dimissioni. Alla fine, si dovette arrivare al boicotaggio dei lavori della Commissione per fargli capire che non era più gradito. Ma all'epoca venne trattato più o meno come un usurpatore, e non aveva neanche assunto nei confronti del suo partito - il Pd - le posizioni che Fini sta assumento nei confronti del Pdl e del governo.
La questione dell'incompatibilità di Fini non poteva non essere sollevata (ovviamente per chi è convinto che esista). E non solo non è ridicolo o anticostituzionale, ma è persino doveroso coinvolgere il Quirinale, proprio in quanto garante dei corretti rapporti tra le istituzioni e del corretto funzionamento delle stesse. Qui bisogna capire se ce n'è una - la presidenza della Camera - che interferisce indebitamente sulla stabilità del governo. E' «irrituale» rivolgersi al capo dello Stato? Sì, come lo è nella storia repubblicana il doppio ruolo assunto da Fini. Con i suoi comportamenti destabilizza la governabilità del Paese, un valore che spetta anche al presidente Napolitano tutelare. Legittimo che Fini la "minacci" da leader politico, ma non da presidente della Camera.
Cosa si contesta quindi esattamente a Fini? Non la sua appartenenza politica o partitica, né l'essere un leader politico, né la partecipazione a manifestazioni di partito. Altri presidenti prima di lui lo erano e non hanno rinunciato all'attività politica, ma hanno saputo tenere distinti i due ruoli, cosa che lui non ha saputo e voluto fare. Né si pretende che risponda alla maggioranza che lo ha eletto. Ma non dovrebbe neanche ritagliarsi un ruolo da oppositore e usare la sua carica come un palco da comizi. Dovrebbe essere - e mostrarsi - super partes, garante dei ruoli di tutti i gruppi presenti nell'assemblea che presiede. E alla luce delle posizioni che ha assunto, è lecito dubitare che possa farlo serenamente.
A Mirabello è arrivato addirittura a disconoscere l'esistenza del maggiore partito rappresentato alla Camera, e a definire «sudditi» quasi la metà dei deputati, dimostrando palesemente di svolgere ormai un ruolo di parte, del tutto incompatibile con quello di garante. L'ho scritto più volte: cosa sarebbe accaduto se Fanfani, Nilde Jotti, o Luciano Violante, avessero costituito loro gruppi autonomi in dissenso col loro partito, e avessero negato persino la sua esistenza? Nel '69, in seguito alla scissione del PSU, il presidente della Camera Pertini, nonostante non ne fosse minimamente il protagonista, si dimise. La Camera lo rielesse, ma lui dimostrò almeno la correttezza di rimettere il mandato.
Dunque, presidenti della Camera al tempo stesso leader politici si sono visti. Mai nessuno però ha costituito "suoi" gruppi parlamentari e, di fatto, un nuovo partito; mai nessuno ha utilizzato la carica per condurre la sua personale lotta politica all'interno del partito e per affermare la sua leadership in modo ostile alla maggioranza; mai nessuno (neanche Casini e Bertinotti in tale misura) ha rivolto continue critiche e attacchi al governo e personalmente al presidente del Consiglio; ed è certamente scorretto per un presidente della Camera esprimersi nel merito di provvedimenti ancora all'esame del Parlamento, come ha fatto Fini numerose volte, sia presiedendo l'assemblea sia durante conferenze ed incontri organizzati dalla Camera stessa. E anche nella proposta di «nuovo patto di legislatura» che Berlusconi e Bossi dovrebbero negoziare con lui, Fini reclama un ruolo non suo. Non si è mai visto. Mai un presidente della Camera si era permesso di rivendicare per sé un ruolo di vero e proprio indirizzo politico nell'azione di governo.
Con la riforma dei regolamenti parlamentari, tra l'altro, il presidente della Camera ha poteri rilevantissimi sull'agenda dei lavori, e quindi sull'attuazione del programma di governo. Se i due gruppi di maggioranza alla Camera non si sentono più garantiti dal presidente dell'assemblea e se ciò minaccia il corretto funzionamento del potere legislativo, come fa Napolitano a ignorare la situazione? Insomma, ci troviamo di fronte ad una conclamata e inedita anomalia istituzionale, di cui ben rende l'idea una semplice domanda: in che veste, in caso di crisi di governo e quindi di consultazioni al Quirinale, Gianfranco Fini esprimerebbe il suo parere al presidente della Repubblica? Riuscirebbe a essere neutrale, come la carica che riveste gli imporrebbe, o a parlare sarebbe il Fini di Mirabello? Tutti problemi che guarda caso i custodi della Costituzione preferiscono non porsi, finché di mezzo ci sarà Berlusconi.
Monday, September 06, 2010
Fini rompe "ma anche" no
Se nel suo discorso di ieri a Mirabello Fini non ha annunciato esplicitamente un nuovo partito, è solo per non contraddire la narrativa della sua "cacciata" dal Pdl (a cui contribuisce l'inutile documento approvato a fine luglio dal Pdl). Ma il nuovo partito è nei fatti, come trova conferma tutto ciò che scrivo da mesi sulle sue reali intenzioni. Un discorso ben poco "alto", da capopartito più che da terza carica dello Stato. Altro che "manifesto", è pieno di polemichette e battute caustiche, alternate a lunghe tirate demagogiche (che flirtano con insegnanti della scuola, poliziotti, magistrati, meridionali e "gggiovani", tanto per avere un'idea del tipo di elettorato cui intende rivolgersi). Diverso da quello che pronunciò in direzione lo scorso aprile solo per la carica molto più intensa e nervosa di antiberlusconismo.
Non lo può ammettere, ma Fini sa bene che non gli si contestano idee, opinioni, analisi, diverse da quelle maggioritarie nel Pdl o da quelle di Berlusconi, né i suoi "appunti" sull'operato del governo, ma il fatto che non vengano espressi nelle sedi opportune, in modo costruttivo, e che prendono piuttosto la forma di attacchi esterni, dissociazioni, sponde offerte alle opposizioni o, peggio, alla magistratura politicizzata che cerca di delegittimare per via mediatico-giudiziaria l'esecutivo e il premier. Se Fini avesse voluto influenzare davvero, in buona fede, la linea, avrebbe dovuto accettare un incarico nel Pdl o nel governo, come gli era stato prospettato all'inizio della legislatura, in questo modo essendo anche costretto a condividere la responsabilità dell'azione politica di entrambi. Invece, ha scelto per sé una carica di garanzia, "irresponsabile" rispetto all'azione di governo e persino rispetto all'iniziativa legislativa, pretendendo però di usarla non solo come tribuna da cui emettere sentenze di merito, impallinare, "picconare" quotidianamente, ma anche come cabina di regia di un'ostruzionistica attività parlamentare.
Vorrei tornare di nuovo su questo aspetto, davvero decisivo: il presidente del Consiglio dovrebbe negoziare con lui, presidente della Camera, un «nuovo patto di legislatura», come ha detto Fini ieri sera? Non si è mai visto. Mai un presidente della Camera si era permesso di rivendicare per sé un ruolo di vero e proprio indirizzo politico nell'azione di governo; mai nessuno ha costituito "suoi" gruppi parlamentari in dissenso dal suo partito; mai ha utilizzato la carica per condurre la sua personale lotta politica all'interno del partito e per la sua leadership; ed è certamente scorretto per un presidente della Camera esprimersi nel merito di un provvedimento appena uscito dal Senato, che dovrà quindi iniziare il suo iter proprio alla Camera, come ha fatto ieri sul cosiddetto "processo breve".
Al contrario di quanto ripete Fini sui partiti moderni, europei, liberali, in nessun'altra parte d'Europa vediamo svolgersi in questo modo la dialettica all'interno dei partiti di governo. Possono essere di destra o di sinistra, ma la sfida alle leadership avviene prima delle elezioni, non dopo. Dopo, quando si è al governo, si governa. Non che il dissenso o gli avversari interni spariscano, o vengano annientati. Continuano a "covare" all'interno, ma il confronto avviene nel partito, non prende le forme di una critica ostentata, costante e demolitoria del partito stesso e dell'esperienza di governo. Tanto meno utilizzando una carica istituzionale. Nessuno in Europa, né Sarkozy, né la Merkel, né Cameron, ha il suo "Fini". Tutti hanno avversari nel partito, certamente, ma nessuno che si comporti come Fini.
Quando ha parlato di un «nuovo patto di legislatura», teorizzato una coalizione di governo non più a due ma a tre gambe, quando ha detto di condividere i cinque punti programmatici, ma solo i titoli, perché poi vanno riempiti andando a trattarli con lui (anzi, con i «nostri capigruppo»), Fini ha confermato la linea del logoramento. Vorrebbe ricreare le stesse condizioni politiche, ritrovare lo stesso potere di ricatto, della legislatura 2001-2006, quando la coalizione di governo aveva in An e Udc una terza e anche una quarta gamba. Vuole replicare quello schema per far arrivare Berlusconi a fine legislatura esausto politicamente, come vi arrivò nel 2006. Fini ha quindi offerto un patto di legislatura sì, ma ad una condizione inaccettabile per il premier e il Pdl: accettare di farsi logorare, tornare allo status quo ante, proprio quello che si voleva superare con il partito unico del centrodestra.
Una posizione di cui Casini e Di Pietro nei loro commenti hanno rilevato le contraddizioni: il primo rivendicando, dal suo punto di vista, la coerenza di non essersi piegato ad entrare nel "partito del predellino", come invece ha fatto Fini evidentemente, bisogna concludere, per mera scelta tattica o per un errore madornale. E come può, osserva giustamente il leader dell'Idv, un giudizio così impietoso sul berlusconismo e sul Pdl, di cui l'ex pm rivendica il copyright, convivere con il rilancio di un «patto di legislatura» proprio con il detestato Berlusconi, se non semplicemente per sfuggire al giudizio degli elettori? Fini vuole restare dov'è, essere la "terza gamba" della coalizione, ma pretende di restarci da antiberlusconiano.
Già, perché è proprio questo a contraddire ogni moralità politica: come mai quando si tratta di prendere i voti, si corre, come ha fatto Fini, sotto l'ombrello berlusconiano, per poi un minuto dopo aver preso i voti, solo quando ci si è accomodati sulla propria poltrona grazie a quei voti, scoprire la vera natura del berlusconismo, contrastarlo apertamente, sfidare la sua leadership non nelle urne ma nei Palazzi? Berlusconi fa l'annuncio del Predellino, e Fini reagisce in modo sprezzante («comiche finali») sulla base di un calcolo politico sbagliato, e cioè che il governo Prodi non sarebbe caduto e la leadership di Berlusconi non avrebbe retto per altri cinque anni all'opposizione; Prodi invece cade subito dopo, e Fini (a differenza di Casini) accetta "obtorto collo" di entrare nel Pdl, invece di lanciare - in quel momento sì - una sfida aperta alla leadership berlusconiana. Non è che Fini si sia pentito di averlo cofondato, è che nel Pdl non ha mai creduto. Lo ha sempre vissuto come una scelta tattica da cui distinguersi prima possibile per tornare a sfidare Berlusconi nell'unico modo in cui è capace e sa di avere qualche chance: logorandolo dall'interno, e dall'esterno offrendo sponde alle opposizioni, politiche e mediatico-giudiziarie.
Non ci sono dubbi: Fini vuole essere un leader di centrodestra, ma quell'accenno alla legge elettorale è una minaccia di disponibilità a un governo di transizione, in caso di crisi, per ritardare il più possibile il ritorno alle urne e affrontarle magari con un sistema di voto più favorevole. Cosa può fare Berlusconi a questo punto? L'unica via - difficile - è questa.
P.S.: Del tutto superfluo concentrarsi sul merito delle questioni poste da Fini: solo puro tatticismo, non poteva che uscirne fuori un minestrone contraddittorio di "ma anche" in puro stile Veltroni. Ma già che ci siamo: il federalismo ma anche la retorica meridionalista e nazionalista; il rigore ma anche i precari della scuola, per carità, e i poliziotti senza benzina; il Lodo Alfano ma anche no alle leggi "ad personam"; la magistratura politicizzata, ma anche «caposaldo»; il governo «ha operato bene» ma anche no; né sono mancate vuote banalità come il «patto tra capitale e lavoro», il «patto generazionale», il «quoziente familiare», la «meritocrazia», di tutto di più, purché si rimanga sul vago. Unici spunti apprezzabili la liberalizzazione dei servizi pubblici locali e l'abolizione delle Province, che fanno parte del programma del Pdl (già, che fine hanno fatto?). E a proposito, che fine ha fatto la bioetica?
Non lo può ammettere, ma Fini sa bene che non gli si contestano idee, opinioni, analisi, diverse da quelle maggioritarie nel Pdl o da quelle di Berlusconi, né i suoi "appunti" sull'operato del governo, ma il fatto che non vengano espressi nelle sedi opportune, in modo costruttivo, e che prendono piuttosto la forma di attacchi esterni, dissociazioni, sponde offerte alle opposizioni o, peggio, alla magistratura politicizzata che cerca di delegittimare per via mediatico-giudiziaria l'esecutivo e il premier. Se Fini avesse voluto influenzare davvero, in buona fede, la linea, avrebbe dovuto accettare un incarico nel Pdl o nel governo, come gli era stato prospettato all'inizio della legislatura, in questo modo essendo anche costretto a condividere la responsabilità dell'azione politica di entrambi. Invece, ha scelto per sé una carica di garanzia, "irresponsabile" rispetto all'azione di governo e persino rispetto all'iniziativa legislativa, pretendendo però di usarla non solo come tribuna da cui emettere sentenze di merito, impallinare, "picconare" quotidianamente, ma anche come cabina di regia di un'ostruzionistica attività parlamentare.
Vorrei tornare di nuovo su questo aspetto, davvero decisivo: il presidente del Consiglio dovrebbe negoziare con lui, presidente della Camera, un «nuovo patto di legislatura», come ha detto Fini ieri sera? Non si è mai visto. Mai un presidente della Camera si era permesso di rivendicare per sé un ruolo di vero e proprio indirizzo politico nell'azione di governo; mai nessuno ha costituito "suoi" gruppi parlamentari in dissenso dal suo partito; mai ha utilizzato la carica per condurre la sua personale lotta politica all'interno del partito e per la sua leadership; ed è certamente scorretto per un presidente della Camera esprimersi nel merito di un provvedimento appena uscito dal Senato, che dovrà quindi iniziare il suo iter proprio alla Camera, come ha fatto ieri sul cosiddetto "processo breve".
Al contrario di quanto ripete Fini sui partiti moderni, europei, liberali, in nessun'altra parte d'Europa vediamo svolgersi in questo modo la dialettica all'interno dei partiti di governo. Possono essere di destra o di sinistra, ma la sfida alle leadership avviene prima delle elezioni, non dopo. Dopo, quando si è al governo, si governa. Non che il dissenso o gli avversari interni spariscano, o vengano annientati. Continuano a "covare" all'interno, ma il confronto avviene nel partito, non prende le forme di una critica ostentata, costante e demolitoria del partito stesso e dell'esperienza di governo. Tanto meno utilizzando una carica istituzionale. Nessuno in Europa, né Sarkozy, né la Merkel, né Cameron, ha il suo "Fini". Tutti hanno avversari nel partito, certamente, ma nessuno che si comporti come Fini.
Quando ha parlato di un «nuovo patto di legislatura», teorizzato una coalizione di governo non più a due ma a tre gambe, quando ha detto di condividere i cinque punti programmatici, ma solo i titoli, perché poi vanno riempiti andando a trattarli con lui (anzi, con i «nostri capigruppo»), Fini ha confermato la linea del logoramento. Vorrebbe ricreare le stesse condizioni politiche, ritrovare lo stesso potere di ricatto, della legislatura 2001-2006, quando la coalizione di governo aveva in An e Udc una terza e anche una quarta gamba. Vuole replicare quello schema per far arrivare Berlusconi a fine legislatura esausto politicamente, come vi arrivò nel 2006. Fini ha quindi offerto un patto di legislatura sì, ma ad una condizione inaccettabile per il premier e il Pdl: accettare di farsi logorare, tornare allo status quo ante, proprio quello che si voleva superare con il partito unico del centrodestra.
Una posizione di cui Casini e Di Pietro nei loro commenti hanno rilevato le contraddizioni: il primo rivendicando, dal suo punto di vista, la coerenza di non essersi piegato ad entrare nel "partito del predellino", come invece ha fatto Fini evidentemente, bisogna concludere, per mera scelta tattica o per un errore madornale. E come può, osserva giustamente il leader dell'Idv, un giudizio così impietoso sul berlusconismo e sul Pdl, di cui l'ex pm rivendica il copyright, convivere con il rilancio di un «patto di legislatura» proprio con il detestato Berlusconi, se non semplicemente per sfuggire al giudizio degli elettori? Fini vuole restare dov'è, essere la "terza gamba" della coalizione, ma pretende di restarci da antiberlusconiano.
Già, perché è proprio questo a contraddire ogni moralità politica: come mai quando si tratta di prendere i voti, si corre, come ha fatto Fini, sotto l'ombrello berlusconiano, per poi un minuto dopo aver preso i voti, solo quando ci si è accomodati sulla propria poltrona grazie a quei voti, scoprire la vera natura del berlusconismo, contrastarlo apertamente, sfidare la sua leadership non nelle urne ma nei Palazzi? Berlusconi fa l'annuncio del Predellino, e Fini reagisce in modo sprezzante («comiche finali») sulla base di un calcolo politico sbagliato, e cioè che il governo Prodi non sarebbe caduto e la leadership di Berlusconi non avrebbe retto per altri cinque anni all'opposizione; Prodi invece cade subito dopo, e Fini (a differenza di Casini) accetta "obtorto collo" di entrare nel Pdl, invece di lanciare - in quel momento sì - una sfida aperta alla leadership berlusconiana. Non è che Fini si sia pentito di averlo cofondato, è che nel Pdl non ha mai creduto. Lo ha sempre vissuto come una scelta tattica da cui distinguersi prima possibile per tornare a sfidare Berlusconi nell'unico modo in cui è capace e sa di avere qualche chance: logorandolo dall'interno, e dall'esterno offrendo sponde alle opposizioni, politiche e mediatico-giudiziarie.
Non ci sono dubbi: Fini vuole essere un leader di centrodestra, ma quell'accenno alla legge elettorale è una minaccia di disponibilità a un governo di transizione, in caso di crisi, per ritardare il più possibile il ritorno alle urne e affrontarle magari con un sistema di voto più favorevole. Cosa può fare Berlusconi a questo punto? L'unica via - difficile - è questa.
P.S.: Del tutto superfluo concentrarsi sul merito delle questioni poste da Fini: solo puro tatticismo, non poteva che uscirne fuori un minestrone contraddittorio di "ma anche" in puro stile Veltroni. Ma già che ci siamo: il federalismo ma anche la retorica meridionalista e nazionalista; il rigore ma anche i precari della scuola, per carità, e i poliziotti senza benzina; il Lodo Alfano ma anche no alle leggi "ad personam"; la magistratura politicizzata, ma anche «caposaldo»; il governo «ha operato bene» ma anche no; né sono mancate vuote banalità come il «patto tra capitale e lavoro», il «patto generazionale», il «quoziente familiare», la «meritocrazia», di tutto di più, purché si rimanga sul vago. Unici spunti apprezzabili la liberalizzazione dei servizi pubblici locali e l'abolizione delle Province, che fanno parte del programma del Pdl (già, che fine hanno fatto?). E a proposito, che fine ha fatto la bioetica?
Friday, September 03, 2010
Tony, ci manchi/1 - Non ha fallito il mercato
«Sono in profondo disaccordo con aspetti importanti della reazione statalista cosiddetta "keynesiana" alla crisi economica; credo che all'estero dovremmo proiettare un senso di forza e determinazione, non di debolezza o esitazione; credo sia arrivato il momento di attuare più riforme governative, non meno...»
«Si è diffusa una mentalità conformista e sorda ai tentativi di metterla in discussione. A grandi linee, è andata così: il "mercato" è andato incontro a un fallimento catastrofico che ha richiesto un salvataggio da parte del "governo" e una reflazione keynesiana per controbilanciare la deflazione. Alla fine del 2008, gli interventi governativi hanno stabilizzato le banche; i sistemi di regolamentazione hanno iniziato a essere rivisti per rimettere in riga i settori finanziari disonesti; la strategia di politica economica ha puntato sull'aumento del deficit. Tutto a un tratto, dal punto di vista politico, lo Stato è tornato in voga... quasi si toccava con mano la Schadenfreude di ampia parte del mondo politico e accademico nel vedere che il "mercato" alla fine era stato messo a nudo e smascherato».
«Tuttavia, dobbiamo, con urgenza, venire a capo della situazione e valutarla in modo più efficace e ponderato. Innanzitutto, non ha fallito il "mercato". Lo ha fatto una parte di un settore... In secondo luogo, anche il governo ha fallito. Ha fallito la vigilanza, hanno fallito i politici, ha fallito la politica monetaria, e il debito è diventato troppo a buon mercato. Ma non è stata una congiura delle banche, quanto la conseguenza del convergere, solo in apparenza positivo, fra politica monetaria indulgente e inflazione bassa. La responsabilità della crisi va attribuita a tutti, e non addossata solo al mercato o addirittura solo alle banche».
«Terzo punto, ha fallito la nostra capacità di comprendere. Non ce ne siamo accorti. Potreste ribattere che avremmo dovuto, ma non è andata così. Inoltre - e si tratta di un punto fondamentale per la nuova direzione che stiamo dando alla regolamentazione - non è che fossimo sprovvisti degli strumenti per prevenire la crisi, semmai l'avessimo vista arrivare. I sistemi di controllo non hanno fallito nel senso che ci mancava il potere di intervento. Se i regolatori avessero detto ai leader che stava per scoppiare una grave crisi, noi non avremmo risposto che non c'era niente da fare finché non fossero stati implementati nuovi controlli. Avremmo agito. Ma non ce lo hanno detto».
«E' assolutamente giusto che lo Stato sia intervenuto... perché non farlo avrebbe significato cecità ideologica e stupidità pratica; il problema, o meglio l'errore, è stato comprare il pacchetto completo composto da spesa in disavanzo, regolamentazione intensiva, criminalizzazione delle banche... Strano a dirsi (o forse, più che strano, prevedibile), la gente se n'è resa conto più di molti politici e di molti osservatori, motivo per cui il previsto scarto a sinistra non si è poi verificato. Le persone capiscono benissimo la differenza fra uno Stato costretto a intervenire per stabilizzare il mercato e un governo che torna in auge col ruolo di principale attore dell'economia».
«Il ruolo del governo è di riportare la situazione in condizioni di stabilità e poi togliersi di mezzo appena è possibile. Alla fine non spetta al governo guidare la ripresa, ma saranno l'industria, il mondo degli affari, la creatività, l'ingegno e lo spirito d'iniziativa delle persone. Se le misure che adotti nel rispondere alla crisi attenuano gli stimoli delle persone, limitano il loro senso imprenditoriale, le rendono incerte sul clima entro cui stanno lavorando, allora la ripresa diventa precaria».Tony Blair ("A Journey")
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