Quanto riporta oggi Maurizio Molinari su La Stampa sarebbe particolarmente grave se fosse vero. Nelle ultime settimane Roma ha «parlato in privato in una maniera ed in pubblico in un'altra», si sente ripetere in ambienti diplomatici statunitensi.
«Prima e dopo il voto del 9 aprile gli inviati Usa hanno ricevuto dal centrosinistra rassicurazioni chiare sul fatto che l'Italia avrebbe accettato di lasciare una "missione civile protetta" a Nassiryah e fra coloro che hanno ascoltato queste affermazioni c'è anche Kurt Volker, stretto collaboratore della Rice. Ma nelle ultime due settimane D'Alema e il ministro della Difesa Parisi hanno parlato pubblicamente di "ritiro totale", smentendo i messaggi riservati che fino a quel momento erano giunti a Washington».Purtroppo ci pare quanto meno verosimile, essendo la stessa impressione che abbiamo ricavato dalle dichiarazioni di queste settimane. Comprensibile l'«irritazione» americana.
Non bisogna essere troppo acuti per rintracciare in D'Alema elementi tipici di quella cinica doppiezza che fu di Togliatti (anche se il Migliore rimane insuperabile), ma davvero D'Alema in questi giorni ci ha ricordato il vecchio Arafat, che quando parlava in inglese - negli incontri, alle conferenze, o sulle tv internazionali - appariva mansueto e dialogante, mentre quando si rivolgeva alla sua gente, in arabo, fomentava l'odio. Così, il nostro ministro degli Esteri parla due lingue. La prima è riservata alle diplomazie, ai convegni prestigiosi, agli eventi "fuori casa", per apparire responsabile, affidabile, pragmatico, persino un pizzico liberista davanti a Montezemolo, leale atlantista e neocon davanti a Bush.
Prendete, per esempio, l'articolo fatto uscire sul Wall Street Journal (tradotto ieri su Il Foglio), di tutta evidenza preparatorio agli incontri di oggi a Washington con il segretario di Stato Condoleezza Rice e il consigliere Hadley. Lì si vanta dell'intervento del governo da lui presieduto nei Balcani (ma in patria quasi lo nasconde); parla dell'Unione europea «partner» degli Stati Uniti, e non un «contrappeso»; arriva a enunciare un principio base dei neocon e della dottrina Bush:
«La promozione della libertà e della democrazia, così come la lotta a favore dello sviluppo e contro la povertà nel mondo non sono solo un dovere morale delle democrazie, ma anche la nostra migliore politica di sicurezza».Poi però viene il tempo dei Porta a Porta, o dei Ballarò, viene la stagione dei comizi, la politica di "casa nostra", bisogna parlare alla "base" che "non capirebbe", ai movimenti, a Bertinotti e a Diliberto, e allora la sua lingua diventa l'anti-americanismo. L'importante è gestire il consenso, non spenderlo - e spendersi - rischiando di suo per costruire qualcosa di nuovo.
Continuando in questo modo, ammesso che gli americani non si stufino, potrà anche ottenere dei risultati dal punto di vista diplomatico, ma di sicuro con la sua dissimulazione contribuisce a ritardare, a frenare, addirittura a ostacolare, la diffusione di una cultura di sinistra liberale e antitotalitaria.
Indubbiamente un politico di spessore deve essere in grado di parlare considerando la platea cui si rivolge, ma non fino al punto di portare avanti due politiche divergenti e di assecondare gli interlocutori. Non sarà mai un leader, semmai un perfetto oligarca.
3 comments:
Ritengo questo un giudizio troppo duro, fatto senza tenere conto della situazione politica in cui D'Alema si trova.
Purtroppo non sempre si può avere la botte piena e la moglie ubriaca.
difficile che in questa maniera si possano ottenere dei grandi risultati. L'ambasciata di Roma fa analisi politica, non sonnecchiano. E le contraddizioni le colgono e le trasmettono a washington.
Ciò detto, D'Alema rimane il migliore dei loro.
Su questo non c'è dubbio (se si esclude TPS).
aa
Alla luce di ciò, perchè tu e il tuo partito siete in una coalizione che intende portare via prima possibile i soldati italiani dall'Iraq?
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