Il sistema universitario americano più libero, quindi più equo. Vi suggerisco di spendere un quarto d'ora del vostro tempo per ascoltarvi questa intervista a Michele Magno, giornalista, Ds, su Radio Radicale.
Da che deriva il dinamismo del sistema americano? Le università «producono e scambiano il sapere in un libero mercato, obbedendo alle sue leggi». Ciascuna «compete con le altre per accaparrarsi allievi esibendo la qualità dei propri docenti e delle ricerche». Pagano bene i propri docenti, il loro valore di mercato, e li attraggono con la propria reputazione. Ma da dove prendono il denaro per gli alti stipendi e i sofisticati laboratori? Da rette elevate e mecenatismo fiscalmente incentivato. Ma come fa, viene allora da chiedersi, il figlio di un operaio a permettersi alte rette? Con laute borse di studio e prestiti finanziati dal denaro pubblico.
Al contrario di quanto i pregiudizi propagandano, negli Stati Uniti il sostegno finanziario pubblico al sistema universitario è «molto più elevato di quello italiano» (in rapporto al Pil è quasi doppio), solo che è «più redistributivo che allocativo». Cioè, vanno meno soldi alle «burocrazie universitarie» e più soldi «ai meno abbienti», nell'ordine di 2/3 a 1/3. In Italia, l'88% dei finanziamenti statali va alle università, mentre solo il 12% va agli studenti come sussidio.
Il principale ostacolo al modello anglosassone da noi in Italia è il valore legale del titolo di studio, che è «premessa e causa della natura di impiegati pubblici di coloro che lo rilasciano». Il valore legale del titolo di studio e il ruolo pubblico dei docenti sono i due fattori alla base di quella realtà corporativa e fintamente egualitaria che è l'università italiana, dove tutti i diplomi sono uguali per legge, tutti i progetti di ricerca ugualmente meritevoli, tutti i docenti sono retribuiti allo stesso modo e tutti gli studenti sono liberi di frequentare l'università a tempo indeterminato a «prezzi politici», che peraltro escludono i più svantaggiati. In un sistema del genere «la mediocrità e l'ignoranza di massa sono inevitabili».
L'abolizione del valore legale del titolo di studio è una di quelle «riforme a costo zero» indicate anche da Giavazzi e Alesina, possibile con «un semplice tratto di penna», come proponeva già sessant'anni fa Luigi Einaudi.
Il centrosinistra oggi al governo si trova ad essere «impreparato» a compiere un passo verso questo modello, come dimostrano le recenti dichiarazioni del ministro Mussi. Eppure, osserva Magno, esiste a sinistra una cultura politica liberale, soprattutto nei radicali e nella Rosa nel Pugno, ma è ad oggi «minoritaria».
4 comments:
L'intervista è molto interessante e chiarisce bene un argomento su cui spesso si discute, quasi sempre senza una reale percezione della realtà anglosassone. L'attuabilità politica in Italia di un simile sistema al momento è estremamente remota, ancor più con questo governo che non credo in grado di prendere una qualsiasi decisione così liberale ed innovativa.
Spero ovviamente di essere smentito clamorosamente.
Federico,
questo è un bel post.
Rimango allibito quando vedo solo un commento, mentre i soliti post qualunque ne sono strapieni.
Il mio ultimo post sulla scuola ha raccolto 0 commenti. Oggi ne ho pubblicato uno sull'11 settembre e ne ho avuti 6 in un'ora. Mi chiedo: perchè in Italia il sistema scolastico e universitario non interessa a nessuno???
Forse è per questo che abbiamo fatto questa fine.
Ciao e grazie per lo spunto!
Antonio
Sono favorevole a iniziative tese a dare maggiore efficenza all'Università Italiana.
Sono daccordo con una struttura meritocratica che premi sia i docenti più bravi (stipendi più alti, possibilità di finanziamenti per la ricerca e per personale di supporto) sia per gli allievi più meritevoli. Negli ultimi anni si sia cercato di andare verso dei "Laureifici" facendo scadere la qualità.
Perchè non lanciare una petizione pubblica attorno ad un testo concreto da elaborare attraverso il blog?
Restando in tema università: su Repubblica ieri (9/6/06) è uscito un articolo in cui si riportava una indagine di Newsweek sull'università europea, e la reazione della Sapienza. Vi allego il mio commento che ho girato a Repubblica.
Dopo aver letto l'articolo sull'inchiesta di Newsweek sull'università e sulle reazioni della Sapienza, vorrei anche io dire la mia. Senz'altro l'articolo di Newsweek nei suoi riferimenti alla Sapienza è superficiale, e dubito fortemente che sia fra le peggiori università d'Europa. Questo però non vuol dire che siano tutte rose e fiori, ed anzi spesso la situazione vista dal di dentro è molto peggio da quella che può apparire ad un osservatore esterno, quale uno studente ... o un giornalista. Molte di queste cose purtroppo sono strutturali: professori ordinari che, ormai 'sistemati' a vita, non pubblicano da 15 anni (o si fanno aggiungere il nome su lavori di cui sanno nulla) e se va bene si dedicano alla didattica; carriere (e concorsi) decisi a tavolino, non in base ai meriti ma a giochi di potere, ripartizioni degne del miglior manuale Cencelli, e a scambi di favori (il prof. X spinge la carriera di Y, perchè il padre di Y, ordinario in altra facoltà, faccia lo stesso per la figlia di X, e simili). Professori associati che scaricano sui loro sottoposti parte dei loro compiti (di ricerca e didattica), per avere tempo per brigare nei dipartimenti e favorirne così la carriera. Personale tecnico-amministrativo svogliato e demotivato, che di fatto fa sì che chi vuole ottenere servizi efficienti (dalla gestione dei contratti alla manutenzione del software) deve provvedere in prima persona. A questo si aggiunga il fatto che gli aggiornamenti pubblici sono scarsi (e/o mal distribuiti), e quelli privati praticamente nulli: le industrie non investono in ricerca, usano le università per ottenere a basso costo prestazioni che sul mercato pagherebbero molto di più, e le università per sopravvivere si prestano a questa concorrenza sleale, in cui spesso usano a fini commerciali beni e servizi ottenuti a prezzo fortemente scontato per uso puramente didattico e di ricerca. L'effetto finale è che a fare le spese di questa situazione sono la ricerca, che spesso passa in secondo piano per questioni di tempo, gli studenti, spesso sentiti come un peso, e gli assegnisti di ricerca (ed in generale i collaboratori in attesa di entrare nel sistema), che si ritrovano a dover portare avanti la ricerca (per cui sono pagati), le attività di consulenza da cui derivano i soldi dell'assegno, le attività di coordinamento, che spetterebbero ai loro superiori ed attività che spetterebbero a personale tecnico-amministrativo. Quando poi l'attività di assegnista di ricerca, con anche periodi di collaborazione gratuita, viene svolta per anni in un ambiente che non ha dall'USL la certificazione di abitabilità perchè senza aria nè luce nè uscite di sicurezza, in cui per riparare un condizionatore ci vogliono almeno 15 giorni per problemi burocratici, viene da dire che forse l'articolo di Newsweek è superficiale, ma molte delle conclusioni a cui arriva sono giuste. Forse un po' di giornalismo d'indagine non farebbe male ... dopo calciopoli avremo universitopoli ?
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