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Monday, March 05, 2007

Bush fa sul serio con l'Iran, ma l'Europa tentenna

Il Presidente Bush e alle sue spalle Condoleezza RiceSul numero di questa settimana di LibMagazine:

Il governo iracheno ha organizzato una conferenza regionale con i paesi confinanti e i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, a livello di viceministri e ambasciatori. Dunque, Iran e Stati Uniti si troveranno intorno allo stesso tavolo, dove però non si discuterà dell'atomica iraniana, ma di riconciliazione nazionale, sicurezza e sviluppo economico dell'Iraq. Al momento non sono previsti incontri bilaterali, né si tratta del primo di questi vertici regionali sull'Iraq. Ma è il primo a cui gli Stati Uniti si presentano con una strategia per l'Iraq e in posizione di forza nei confronti dell'Iran.

Tuttavia, tanto è bastato a far parlare autorevoli e meno autorevoli commentatori di svolta "realista". L'amministrazione Bush si prepara davvero a dialogare con l'Iran come ha fatto con la Corea del Nord, con la quale ha raggiunto lo stesso accordo che concluse Clinton, e che fu violato dai nordcoreani? L'accordo con Pyongyang è stato salutato come un saggio ritorno al realismo politico, ma è la dimostrazione di come non si deve agire con l'Iran. C'è da dubitare che Washington agirà con lo stesso metro.

Nei confronti di Teheran, piuttosto, Bush sta dispiegando una strategia plurale e pragmatica, ma nulla, per ora, indica che abbia abbandonato l'idea del "regime change". Il suggerimento del rapporto Baker-Hamilton era quello di passare al negoziato diretto ed incondizionato con gli ayatollah, portando sullo stesso tavolo Iraq e questione nucleare, ma non sembra questa la scelta della Casa Bianca. Le pressioni realiste sono forti, com'è ovvio in un'amministrazione complessa in cui diverse spinte e orientamenti per quanto divergenti finiscono spesso per completarsi, e non è detto che non riescano ad avere la meglio.

Che il solo uso della forza non basti non mi pare osservazione "realista", ma semplicemente di buon senso, che nessuno, da Bush ai neocon, credo abbia mai messo in discussione.

Questa volta quando gli americani siederanno di fronte agli iraniani a Baghdad potranno posare una pesante e ben lucida pistola sul tavolo. Le mosse delle ultime settimane sono state tutte volte a preparare il terreno di una decisa e avvolgente azione diplomatica nei confronti di Teheran, ma a partire da una posizione se non di forza comunque rafforzata.

Gli Stati Uniti avevano innanzitutto bisogno di far capire agli interlocutori che non avrebbero abbandonato il campo in Iraq: hanno dunque rinnovato l'impegno militare, spedendo 21.500 altri soldati per ristabilire la sicurezza, ma soprattutto varando un nuovo piano con l'obiettivo di sconfiggere gli insorgenti e le milizie sciite; stanno fornendo prove circostanziate del coinvolgimento di Teheran nel caos del paese, dando la caccia ai suoi agenti e intensificando i raid aerei alla frontiera; hanno esercitato pressioni sul governo iracheno perché trovasse un'intesa sui ricavi del petrolio fra i vari gruppi etnici.

Sulla questione nucleare dovevano dimostrare di fare sul serio e di non escludere l'uso della forza: hanno quindi intensificato l'offensiva politico-diplomatica, con la previsione di nuove sanzioni e il tentativo di isolare Teheran all'Onu; stanno esercitando pressioni sempre maggiori sul sistema bancario e finanziario iraniano e cercando di convincere altri paesi occidentali a fare altrettanto; stanno contenendo i ricavi petroliferi, grazie a un accordo con i sauditi per tenere basso il prezzo del greggio, e cercando di portare dalla loro parte i governi sunniti della regione spaventati dall'atomica sciita; hanno inviato una nuova portaerei nel Golfo, fatto trapelare notizie su eventuali blitz contro gli impianti nucleari.

Probabilmente negoziati regionali non risolveranno nessuna crisi, ma sono una parte necessaria per qualsiasi soluzione. Christian Rocca, giorni fa, ha riportato su Il Foglio le parole usate dall'ex consigliere di Condoleezza Rice, Philip Zelikow, per spiegare al New York Times la linea americana:
«Ci eravamo convinti che gli iraniani non prendevano sul serio il nostro impegno, così abbiamo fatto una serie di cose perché ci prendessero sul serio, in modo che ora si possa provare con la diplomazia».
L'impressione è che né la Siria né l'Iran saranno cooperativi sull'Iraq. Non possono rischiare un Iraq stabile e democratico come vicino di casa ed è comunque improbabile che accettino di aiutare la stabilizzazione a Baghdad senza qualche contropartita, che però gli americani non possono dargli. La Siria vuole tornare a esercitare senza disturbi il proprio protettorato sul Libano; l'Iran far accettare alla comunità internazionale il suo ingresso tra le potenze nucleari.

Abbandonare la retorica del "regime change" per riconoscere le ragioni degli avversari? Quali sono le ragioni dell'Iran e della Siria? Comunque la si voglia mettere, sul piano degli interessi come su quello dei principi, non c'è ragione iraniana o siriana che possa essere accolta. Voler essere potenza egemone del Medio Oriente e rendere lo sciismo corrente leader dell'Islam in riscossa contro l'Occidente è l'obiettivo ultimo degli ayatollah che non ci possiamo permettere di accordare. Innanzitutto, perché è incompatibile con il nostro primo interesse alla sicurezza e all'accesso delle risorse naturali di cui quella regione è ricca; e inoltre, perché mette in pericolo la vita di milioni di persone nel mondo arabo, primi fra tutti gli israeliani, l'unica democrazia dell'area.

Non è ancora chiaro se l'amministrazione Usa abbia apertamente optato per il "regime change", o se vi abbia rinunciato. Finora sembra che la destabilizzazione venga ritenuta in ogni caso conveniente. Anche grazie al fatto che con Khamenei gravemente malato a Teheran si è ormai aperta la lotta per la successione, il presidente Bush sembra finalmente convinto che l'Iran sia destabilizzabile da una parte attraverso le sanzioni e il blocco economico, finanziario, bancario, dall'altra fornendo appoggio agli oppositori interni, alla diffusa ribellione studentesca e ai moti di protesta dei lavoratori e delle minoranze etniche. Anche se non è da escludere un blitz di "fine mandato" contro le installazioni nucleari, contro il regime iraniano Washington non pensa a una soluzione di forza, a una nuova guerra, ma a operazioni di destabilizzazione interna sfruttando le sue stesse crepe, tramite l'intelligence e la diplomazia.

Non è possibile stabilire se e quando riuscirà il "regime change". Quindi l'iniziativa diplomatica e azioni militari per ritardare il più possibile il momento in cui gli ayatollah avranno la bomba atomica non solo non sono da escludere, ma sono complementari. Si tratta di allontanare quel momento e avvicinare quello del "regime change". Ci vuole quindi un misto di diplomazia, sanzioni, sostegno agli oppositori del regime e una minaccia credibile e permanente di uso della forza.

Tutte le opzioni sono sul tavolo del Presidente Bush e tutte sono in stato d'avanzamento: cambio di regime, attacco militare, stretta diplomatica. Non si può negare, però, che Washington stia giocando fino in fondo la carta della politica. E l'Europa, sempre pronta a invocare la politica e a condannare le azioni di forza? Cosa sta facendo per incoraggiare e sostenere la prima ed evitare le seconde? Nulla.

Sull'idea che «promuovere la democrazia sia non solo un imperativo morale ma qualcosa che riguarda la sicurezza nazionale», il sottosegretario di Stato Usa per la Democrazia e gli Affari Globali, Paula Dobriansky, ha esortato l'Italia ad aiutare chi si batte per la libertà e i diritti umani in dittature come l'Iran nell'ambito di quella Comunità delle Democrazie lanciata da Clinton e che Bush vorrebbe far diventare un pilastro della sfida ai dittatori. Ma il Governo Prodi è disposto a collaborare su questo piano?

Intervenendo sul Financial Times, i due analisti Reuel Marc Gerecht e Gary Schmitt, dell'American Enterprise Insitute, avvertono gli europei: se volete davvero evitare una nuova guerra, siate disposti a sacrificare i vostri rapporti commerciali con Teheran e accettate di imporre le sanzioni che, viste le precarie condizioni economiche iraniane, potrebbero rivelarsi fatali al regime degli ayatollah.
«Do the Europeans really want to prevent a war between the US or Israel and Iran? If they had to choose between curtailing trade with the Islamic republic, or seeing either America or Israel preventatively strike Iran's nuclear facilities, which would London, Paris and Berlin prefer?»
Stati Uniti e Israele «non desiderano attaccare l'Iran», ma se gli europei precludono l'opzione delle sanzioni economiche e finanziarie, «le probabilità di attacchi aumenteranno in modo significativo».

L'oligarchia iraniana sta cominciando a farsi due conti sui risultati di una politica aggressiva come quella del presidente Ahmadinejad, che sembra sempre più criticato e indebolito. Accantonata per il momento la solita retorica minacciosa, cominciano a filtrare verso l'esterno segnali di moderazione e pragmatismo. Potrebbero significare un'inedita attitudine al dialogo, ma anche rivelarsi i soliti diversivi tattici per alleggerire la pressione e tentare di evitare altri danni all'economia, ulteriore benzina sul fuoco del dissenso interno. In ogni caso, sembra questo il momento propizio per affondare il colpo delle sanzioni, tentare la spallata al regime, l'unico modo realistico per scongiurare una nuova guerra.

4 comments:

Anonymous said...

Non è vero che l'Italia di Prodi stia tentennando in politica estera.
Anzi!
D'Alema sta facendo una coerente politica estera da... paese non allineato.
La Politica "seria e responsabile" del più moderno paese del terzo mondo.

Anonymous said...

"... which would London, Paris and Berlin prefer?"

Appunto, questa è l'Europa alla quale parlano gli USA.

Roma è finita altrove.

Anonymous said...

Brr che paura
Sapete ragazzi, il principino William andrà in Iraq a combattere i cattivoni terroristi... grrr stanno tutti tremando per l'arrivo di questo omaccione, speriamo (o ci auguriamo) che non gli facciano fare la fine dell'imp... alato

Viva Ahmadinejad!

Anonymous said...

Scusate non era William ma Henry
Sua Maestà mi perdonerà per tale increscioso sbaglio...

God save Ahmadinejad!