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Friday, April 22, 2005

Quanti dovrebbero prendere lezioni da Blair

Un leader che ha il coraggio di essere impopolare per non essere antipopolare

Negli Stati Uniti, sul New York Times, uno dei più influenti editorialisti liberal, Thomas Friedman, è convinto che sicuramente il Partito Democratico dovrebbe imparare da Blair.
«Indeed, I believe that history will rank Mr. Blair as one of the most important British prime ministers ever - both for what he has accomplished at home and for what he has dared to do abroad. There is much the U.S. Democratic Party could learn from Mr. Blair». Leggiamo
Blair ha messo in gioco tutto se stesso, la sua faccia e la sua carriera politica, per i suoi principi di fronte all'opinione pubblica spesso nella stragrande maggioranza critica rispetto alle sue scelte. Eppure, tutto sembra indicare che otterrà un terzo mandato a guidare la Gran Bretagna.
«He did so, among other reasons, because he believed that the advance of freedom and the defeat of fascism - whether Islamo-fascism or Nazi fascism - were quintessential and indispensable "liberal" foreign policy goals... In sum, Tony Blair has redefined British liberalism. He has made liberalism about embracing, managing and cushioning globalization, about embracing and expanding freedom - through muscular diplomacy where possible and force where necessary - and about embracing fiscal discipline».
Anche in Italia la sinistra dovrebbe cercare di apprendere il più possibile dall'esperienza di Blair e del New Labour.

1 comment:

Anonymous said...

Nonostante la STORICA convinzione RADICALE che gli Italiani sono un popolo ingannato e disinformato che ogni volta che ha potuto davvero conoscere e deliberare liberamente e responsabilmente è stato sulle NOSTRE posizioni su tutto (vedi referendum pluriennali)....
Nonostante questa lettura sociologica, antropologica pannelliana, è osservazione comunissima che l'individuo italico (formalmente e culturalmente negato) da sempre s'arrangia a fregare il padrone di turno non appena possibile...

E' una lettura cinica e sconsolata?
Basta guardarsi intorno senza pregiudizi.

Anche il mio guru Ostellino se ne è ormai rassegnatamente convinto. Si legga qui, prego. Forse anche noi RADICALI dobbiamo imparare a leggere la realtà che ci circonda con occhi diversi... per coglierne un aspetto in più.
Altrimenti rischiamo davvero di oscillare tra illusioni, perplessità e frustrazione.


Prima e Seconda Repubblica nella crisi di governo della Cdl

di PIERO OSTELLINO – Corriere della Sera, 23.04.2005

La «discontinuità» del nuovo governo, rispetto al precedente, è che i suoi alleati non riconoscono più Berlusconi come leader del centrodestra.

La «continuità» è che la liberalizzazione delle professioni è scomparsa dal decreto sulla competitività.

I soli dati «reali» della deprimente pantomima degli ultimi giorni sono questi. Il resto è Prima Repubblica, sotto il profilo politico; è Seconda Repubblica in stato confusionale, sotto quello istituzionale.

Dalle modalità della crisi (extraparlamentare) ai riti delle consultazioni in Quirinale (inutili e persino ridicole); dalla definizione (del tutto incomprensibile) data da Follini e da Fini al concetto di discontinuità al nuovo Consiglio dei ministri (pressoché uguale al precedente); dall'esistenza contemporanea di tre Costituzioni - quella che disciplina il sistema politico dopo l'introduzione della legge elettorale maggioritaria; la precedente, proporzionalista; quella che istituisce il premierato ancora davanti al Parlamento - alla finzione che qualcosa cambierà, affinché tutto rimanga come prima, ciò che è stato scritto da Berlusconi, Follini, Fini è l'autobiografia di un Paese e della sua classe dirigente che non sanno e, soprattutto, non vogliono modernizzarsi.

Fuori i partiti dalle istituzioni, predicava Marco Minghetti già nell'Ottocento. Dentro i partiti nelle istituzioni, è stato l'imperativo col quale, nelle ultime settimane, si è concretata la Restaurazione.

Diciamola, allora, tutta. Quello che è successo è frutto del monitoraggio che partiti e uomini politici fanno del Paese attraverso i sondaggi d'opinione e della rilevanza che essi assegnano loro nell’orientare le politiche pubbliche. In buona sostanza, è - non mi stancherò mai di ripeterlo - l'ennesima abdicazione della politica agli umori dell'elettorato. I quali umori - che avevano già pesantemente condizionato l'azione del governo, spegnendone ogni velleità riformatrice fin dalla sua nascita - hanno finito, poi, col far precipitare la situazione dopo la pesante batosta subita dal centrodestra alle elezioni regionali. Gli ultimi sondaggi - che in realtà riflettono un trend costante dell'opinione pubblica - rivelano che la maggioranza degli italiani, rispetto alla libertà, al mercato e alla competizione, in una parola, alla modernizzazione, privilegia la sicurezza, lo statalismo, l'assistenzialismo, in definitiva, lo statu quo. Che piaccia o no, ci siamo abituati a vivere alle spalle della collettività e vogliamo continuare. Chiunque si provi a cambiare è condannato a esserne punito.

In tale contesto, emergono sociologicamente e, quindi, politicamente «tre Italie».

1. La prima, (ancora) inserita nell’Unione Europea e nella competizione mondiale, è quella, assolutamente minoritaria, rappresentata dal mondo del capitale e del lavoro più dinamici e estranei alle logiche neocorporative e collettivistiche, che si aspetta dallo Stato solo buone infrastrutture e un sistema fiscale meno oppressivo.

2. La seconda, ormai fuori dall'Europa e dalla competizione mondiale, è quella della crisi della Fiat, della conversione di ciò che rimane della grande industria al protezionismo tariffario e del conseguente malessere del mondo del lavoro, rappresentata dal neocorporativismo confindustriale e dal tardo-collettivismo sindacale, che si aspetta gli aiuti dello Stato.

3. La terza Italia, da sempre lontana anni luce dall'Europa e dalla competizione mondiale, è, infine, quella rappresentata dal clientelismo pubblico e privato, che si aspetta assistenzialismo di Stato.

Ha detto Follini: «Il governo risponde al Parlamento e i partiti rispondono agli elettori». Poiché il governo, anche col maggioritario, è «occupato» dai partiti, si spiegano le tre Italie e la crisi. Una logica c’è. Anche se perversa.