Pagine

Thursday, January 04, 2007

Ciechi davanti al fascismo, inflessibili con l'antifascismo

Saddam Hussein al potereL'intervento più lucido e vibrante sulla morte di Saddam e l'ondata di indignazione che è seguita è quello di oggi, sul Corriere, di Paul Berman. Spiega che l'impiccagione di Saddam è stata un evento «scandaloso», «odiosa» per i modi e il ruolo concesso ad al Sadr e ai suoi miliziani. Perché eseguita da «uno Stato fallimentare o sull'orlo del baratro», che «non è riuscito neppure ad arrogarsi il monopolio della violenza».

Eppure, aggiunge, «la reazione avvenuta in altre parti del mondo è anch'essa spaventosa». L'opposizione alla pena di morte è diventata «uno strano feticcio»: «L'indignazione per la morte ingiusta di un singolo individuo è riuscita a bloccare l'indignazione davanti alla morte di miglia­ia di esseri umani anonimi».

Berman propone un parallelo più che mai indovinato tra le manifestazioni pacifiste contro la guerra in Iraq e l'indignazione per l'uccisione di Saddam, che di quelle è la continuazione ideale e l'esito più logico: «Le più grandi manifestazioni nella storia mondiale - ricorda Berman - si sono svolte nel febbraio del 2003, non per denunciare questa mostruosa tirannide [quella di Saddam, n.d.r.], bensì per impedire che questa mostruosa tirannide venisse rovesciata».

Allo stesso modo oggi «assistiamo a un nuovo fremito di orrore, ma non per i combattimenti e i massacri tuttora perpetrati dal partito Ba'ath di Saddam e dalle varie organizzazioni che gli sono succedute in Iraq, bensì per la messa a morte del tiranno. I più nobili sentimenti di altissima moralità sono suscitati dalla figura di un dittatore sanguinario...»

Bisogna chiedersi perché il nuovo stato democratico iracheno si sia dimostrato «così traballante e inaffidabile». Per Berman la risposta sta nel fatto che «gli iracheni che lottavano contro Saddam non hanno mai ricevuto un sostegno adeguato, né dagli Stati Uniti, né da nessun altro nel resto del mondo». Si è lasciato cadere lo Stato iracheno «nelle mani delle milizie assassine perché la coalizione internazionale non ha mai saputo assicurare al popolo iracheno la sicurezza di cui aveva così disperatamente bisogno».

«La reazione più strana e agghiacciante» all'impiaccagione di Saddam, prosegue Berman, «è certamente quella dell'Italia», che ha conosciuto il fascismo. Ma «il fascismo iracheno non ha mai suscitato indignazione nel resto del mondo. Solo gli errori e l'incompetenza dell'antifascismo in Iraq hanno sollevato sdegno a livello mondiale».

Se quindi la fine di Saddam provoca «orrore», davanti a uno Stato incapace, alla violenza di piazza e al rischio del fallimento finale, tuttavia «le scene d'indignazione che hanno accolto l'esecuzione di Saddam dovrebbero anche farci rabbrividire dall'orrore davanti all'incapacità della nostra società di riconoscere i movimenti fascisti per quello che sono realmente, davanti alla moderna cecità per il crimine del genocidio».

«Ma quali fattori - si chiede Berman - hanno consentito al fascismo e al genocidio di dominare la storia moderna nel secolo passato?» Oggi ce n'è uno in azione: provare indignazione per reati minori e restare ciechi davanti a reati maggiori, mentre ci si congratula per la propria superiorità morale. Queste persone credono di avere la "coscienza a posto", ma in realtà si tratta di una "coscienza falsa"», è l'impietosa conclusione.

A conclusioni simili a quelle di Berman giunge, su il Riformista, Emanuele Ottolenghi, che di fronte ai «precedenti storici» invoca «una maggior umiltà di giudizio morale». D'altronde, occorre ricordare che «la libertà di cui godiamo, e la mite natura delle pene che la nostra società amministra ai suoi malfattori, sono frutto di sacrifici delle generazioni passate contro tiranni sconfitti non dall’enunciazione di nobili principi ma dal dispiegamento di forza letale».

Ma è stata davvero «controproducente» l'uccisione di Saddam? Bisogna valutare che «l'esecuzione del tiranno è cosa rara e fa da esempio, oltre che eccezione, al modulare della storia, che troppo spesso è ingiusto». Troppo spesso «chi invoca principi dalla comoda poltrona di una democrazia non sa che cosa si prova a vivere nel terrore di un regime totalitario senza mai poter sperare che giustizia sia fatta». Saddam appeso a un cappio «rappresenta quella giustizia, ancorché tardiva, ancorché imperfetta, ancorché insufficiente. Salvare il tiranno quando poco o niente si fece per sottrar vittime dai suoi artigli sa d'ipocrisia».

E allora «bisogna rifugiarsi nella dottrina della "giustizia dei vinti", per poter sminuire la validità del verdetto, la credibilità del tribunale, la veridicità delle prove, la trasparenza del processo, la solidità dei diritti della difesa e così via. E il fatto che si ricorra a Goering per giustificare lo sgomento per Saddam è la miglior prova della debolezza di questo argomentare».

Giustizia? E' inequivocabile che la condanna a morte di Saddam in una regione come il Medio Oriente susciti un istintivo sentimento di giustizia forse mai provato. Perché a differenza dei suoi predecessori, Saddam «non è stato massacrato in una congiura di palazzo o un linciaggio popolare», ma condannato «dopo un processo dove ha potuto godere di privilegi da lui negati alle sue vittime, difeso dai migliori avvocati disponibili, con diritto di appello, e con un giudizio di 298 pagine... Una giustizia imperfetta, certo, ma chiamarla sommaria, o dei vinti, riflette più la volontà, simile a quella di Goering a suo tempo, di screditare un verdetto, un tribunale e chi li ha creati, meno il rigoroso giudizio degl'imputati di quel processo e la gravità dei crimini da loro commessi.

«Mai più patiboli? Speriamo», si augura Ottolenghi: «Di certo, non più patiboli eretti da Saddam e i suoi boia, nel silenzio generale di benpensanti che tacciono quando il tiranno uccide e strillano quando il tiranno muore».

No comments: