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Wednesday, January 31, 2007

Con Sarkozy

Nicolas SarkozyDopo che i miei "intellettuali" di riferimento di cose francesi si sono espressi, il mio endorsement per le presidenziali va decisamente a Nicolas Sarkozy. André Glucksmann, sul Corriere di ieri, ci ha offerto una preziosa radiografia della politica francese e dei francesi.

Sarkozy ha il merito di «rompere chiaramente con la destra abituata a nascondere il proprio vuoto dietro grandi concetti pontificanti». Cosa che non sta accadendo nella sinistra francese. Per esempio, «esaltando la discriminazione positiva, che elude l'Uguaglianza virtuale per sradicare le ineguaglianze reali», di pelle, domicilio, o cognome; e «teorizzando gli aiuti pubblici per la costruzione delle moschee», per non lasciare che le facciano gli integralisti, «a costo di urtare una concezione rigida della laicità».

Insomma, Glucksmann vede in Sarkozy il candidato che al trasformarsi della società azzarda il trasformarsi dei principi, il loro adeguarsi ad essa. Questa «rottura a destra» riguarda anche la politica internazionale. Glucksmann denuncia una «curiosa metamorfosi del gollismo, un feticismo conservatore che coltiva il primato degli Stati, qualunque cosa facciano». Questa "realpolitik", che ha portato a Vladimir Putin la Gran Croce della Legion d'onore, è una «curiosa evoluzione che ha fatto della patria dei diritti dell'uomo l'apostolo degli ordini costituiti».

Eppure, ricorda Glucksmann, «esisteva una Francia generosa che non dimenticava gli oppressi: i boat-people vietnamiti che fuggono dal comunismo, i sindacalisti incarcerati di Solidarnosc, le "Madri di Maggio" sotto il fascismo argentino, le algerine esposte al terrorismo, i cileni torturati, i dissidenti russi, bosniaci, kosovari, ceceni... In nessun altro Paese sì è parlato tanto di queste mostruosità e di queste resistenze. La possibilità di aprirsi fraternamente al mondo è nel nostro patrimonio culturale: vedi Montaigne, vedi Hugo, vedi i "French doctors" e i loro emuli. Nessuna fatalità condanna i nostri compatrioti ad essere scontenti di tutto, a vituperare gli "idraulici polacchi", a tagliarsi fuori dal mondo».

Ebbene, ci dice Glucksmann, Sarkozy è «l'unico candidato, oggi, ad essersi impegnato a seguire le orme di questa Francia del cuore».
«Non credo a quella che viene chiamata "realpolitik", che fa rinunciare ai propri valori senza ottenere un solo contratto. Non accetto quello che accade in Cecenia, perché 250.000 ceceni morti o perseguitati non sono un dettaglio della storia del mondo. Il generale de Gaulle ha voluto la libertà per tutti i popoli e la libertà vale anche per loro... Il silenzio è complice e io non voglio essere complice di alcuna dittatura».
(Sarkozy, 14 gennaio 2007)
A tutto questo «cosa risponde la sinistra? Purtroppo ben poco». Ha una candidata, Ségolène Royal, che «ha elevato la giustizia cinese a modello di celerità». Una candidata, però, bisogna riconoscerlo, «alle prese con un vuoto più grande di lei». Quello di una sinistra «ufficiale» francese che «si crede moralmente infallibile e mentalmente intoccabile», che «macerandosi nel proprio narcisismo, si trova ad essere assai impreparata quando Sarkozy prende in contropiede le tradizioni della destra e invoca i ribelli e gli oppressi, il giovane resistente comunista Guy Mòquet, le donne musulmane martirizzate, Simone Veil che abolisce la sofferenza degli aborti clandestini, il frate Christian assassinato in Algeria... e i repubblicani spagnoli...»

«Quando nel discorso del candidato di destra ritrovo Hugo, Jaurès, Mandel, Chaban, Camus, mi sento un po' a casa mia», conclude Glucksmann. La sinistra è «la mia famiglia d'origine. È per la sinistra che, da quarant'anni, mi batto contro le sue fossilizzazioni ideologiche (sostegno a Solzenicyn, ai dissidenti antitotalitari dell'Est, critica dei paraocchi marxisti)». Ed è per coerenza con questa storia, non perché ne condivide tutte le opzioni, che questa volta Glucksmann voterà Sarkozy.

Altrettanto prezioso l'articolo di Enrico Rufi, su Il Foglio di ieri, anche lui per il candidato che «smaschera la gauche che non sente più la voce di Camus».

Ma «perché la sinistra non sente più la voce di Albert Camus?». Se l'è chiesto lo stesso Sarkozy, nel suo discorso di investitura a Parigi. «Sicuramente... perché la sinistra francese è una sinistra immobile, conservatrice. Ma anche perché la gauche continua a non sapere proprio che farsene di uno come Camus...». «E se Sarkozy, come lui stesso ha rivendicato, intende arricchire il patrimonio della destra repubblicana di quelle idee che la sinistra ha abbandonato, non si può che prendere atto di questo enorme spostamento dei confini tra destra e sinistra».

Dall'anticolonialismo «senza sensi di colpa» a una scuola che «non sacrifichi il merito all'egualitarismo...», prendendo le distanze dalla realpolitik, per «non voler essere complice di nessuna dittatura», Sarkozy «si fa così eco di quegli intellettuali che nell'umanesimo di Camus trovano forza e nutrimento», da Alain Finkielkraut a Pascal Bruckner, da Max Gallo a, appunto, Glucksmann.

Le buste paga non mentono: più tasse per tutti

Avete dato un'occhiata alle vostre buste paga di gennaio, le prime a risentire degli effetti della Finanziaria che portava con sé la rimodulazione dell'Irpef? Le avete confrontate con quelle dei vostri amici e conoscenti? Avete notato nulla di strano? La promessa di far trovare 30-35 euro in più nelle buste paga dei lavoratori dipendenti è stata mantenuta?

Ebbene, come sempre sono molto precisi i calcoli di Luca Ricolfi. E, come sempre, impietosi per il Governo. Lo studioso ha preso in considerazione tre fattori: la variazione dell'Irpef, il nuovo regime degli assegni familiari, l'aumento dei contributi previdenziali. Ha lasciato da parte, dunque, le addizionali regionali, quelle che in molti casi spostano da positivo in negativo il bilancio. Non l'ha fatto per fare un favore al Governo, anzi. Senza bisogno di dare la colpa alle regioni, infatti, il quadro che esce fuori è di per sé fallimentare.
«Il messaggio che è passato è che la maggior parte dei lavoratori dipendenti ha avuto l'aumento promesso. Mentre la realtà è che l'ha avuto sì la maggioranza (il 62.5%), ma dei soli lavoratori dipendenti con carichi di famiglia. E poiché questi ultimi sono una minoranza (38.6%), il risultato finale è quello che abbiamo detto. L'aumento promesso in busta paga l'ha avuto il 62.5% del 38.6%, dunque il 24.1% dei lavoratori dipendenti: 1 lavoratore su 4, a essere generosi. In media, ossia considerando tutti i lavoratori dipendenti, l'aumento mensile in busta paga è dell'ordine dei 10 euro, molto meno dei 30 euro promessi in campagna elettorale».
Dunque, se solo il 24.1% dei lavoratori dipendenti si è trovato in media 10 euro in più in busta paga, adesso immaginate cosa accade se si sottrae l'addizionale regionale... Non c'è bisogno di fare troppi calcoli.

All'idea che il calo di consensi del Governo fosse dovuto a un difetto di comunicazione sulla Finanziaria Ricolfi non ha mai creduto. Piuttosto è vero il contrario: come mai, infatti, da giornali e tv in autunno abbiamo spesso avuto l'impressione che la «redistribuzione a favore dei deboli» fosse ben più ampia? La risposta è semplice: l'Unione «ha fatto miracoli nella comunicazione dei contenuti della Finanziaria». E Ricolfi indica ben quattro «capisaldi di questa disinformazione». L'effetto delusione in chi questo autunno è stato illuso sarà, immaginiamo, particolarmente cocente e indelebile.

Chi il calcolo l'ha dovuto per forza fare includendo l'addizionale regionale è il signor Alessandro Spalvieri, dipendente, romano, quattro figli e moglie a carico, che ha avuto una gran «brutta sorpresa». La cifra in addizionale Irpef da sborsare in comode rate alla regione Lazio ammonta a 540 euro, invece delle 340 dell'anno scorso: il 61% in più.

E così scopriamo una delle maggiori fregature, che vale per tutti, ricchi e poveri, ma ovviamente pesa più sui poveri. «Con la nuova riforma sono state abolite le deduzioni fiscali e quindi il monte da cui viene prelevata l'Irpef è più alto perché non è più al netto delle deduzioni ma è esattamente uguale al lordo».

Danni presidenziali. Napolitano umilia le istituzioni

Il Presidente Napolitano in udienza dal PapaLaicità e sovranità ferite

Quando i nodi vengono al pettine... è proprio il caso di dire. Credo che alla luce della recente uscita del Capo dello Stato sui Pacs non sussistano più dubbi sull'interpretazione di quanto disse solo qualche mese fa, e che fu, allora, oggetto di lunghe disquisizioni. Vale la pena di ricordarlo: «Confido che il riconoscimento, anche da parte delle più alte autorità religiose, della conoscenza scientifica e del progresso tecnologico come "autentici valori della cultura del nostro tempo", consentirà di dare soluzioni ponderate e condivise ai problemi della libertà della ricerca, con il suo codice e con le sue regole, e ai più complessi temi bioetici».

Altrettanto dicasi di quell'inquietante richiamo, in occasione del suo incontro con il Papa in Vaticano, al «fondamento etico della politica» come «esigenza pressante ed essenziale»; e dell'evocazione, addirittura, di «una comune missione educativa» per Stato e Chiesa.

Da queste parti possiamo dire di averci visto giusto. Su Notizie Radicali; su Liberazione. E ancora prima, in tempi proprio non sospetti. Il senso di quelle parole era lì, comprensibile a chiunque avesse avuto gli occhi per coglierlo.

Eppure, dai diesse il solito plauso d'ufficio al loro Presidente. E molti dei suoi elettori, tra cui i radicali, costretti a fare buon viso a cattivo gioco, impegnati a sottilizzare, a intravedere ed accreditare improbabili letture di "difesa della laicità", ma solo allo scopo di non doversi subito pentire della scelta fatta pochi mesi prima. Ormai l'abbiamo votato, cerchiamo di non "bruciarcelo", sembra essere il calcolo. Sì, certo, avendo avuto un ruolo - cosa non da poco - nel far fuori D'Alema dalla corsa, non si poteva non votare Napolitano. Ma da qui ad esserne addirittura entusiasti e a non riconoscerne gli evidenti danni e comportamenti incostituzionali...
Pannella, occorre dirlo, con i presidenti della Repubblica o è sfortunato o tende a sbagliare piuttosto spesso: Leone, Scalfaro, ora Napolitano. Quanti anni bisognerà aspettare, stavolta, perché lo ammetta?

Ci è stato anche spiegato che quella di Napolitano era in realtà una raffinata strategia per far uscire allo scoperto la Chiesa sullo scivoloso terreno del compromesso politico, per dimostrare che per interesse era disposta a negoziare il "non negoziabile". Oppure, che il Presidente diceva "A" per far capire "B". Se queste - e c'è da dubitarne fortemente - fossero davvero le strategie di Napolitano, be' oggi possiamo dire che siano fallite miseramente: tutti, a cominciare dal Vaticano, l'hanno inteso alla lettera. Lui', ma quale «gioco a fare chiarezza», questa è la tipica politica pciista del "non si governa senza la Chiesa". Che poi quelli ci stiano o meno, a trovare il compromesso, intanto l'unica cosa certa è la laicità (e la sovranità) dello Stato svenduta e umiliata.

L'altro ieri, proprio - guarda un po' il caso - dopo il colloquio con il premier spagnolo Zapatero, dalle «soluzioni condivise» si è arrivati alla «sintesi» tra Stato e Chiesa. «Non ho dubbi che si possa trovare una sintesi sulle unioni civili anche nel dialogo con la Chiesa cattolica e tenendo conto delle preoccupazioni espresse dal Pontefice e dalle alte gerarchie della Chiesa». Neanche genericamente delle «preoccupazioni» dei cattolici, ma significativamente «del Papa e delle alte gerarchie».

Stavolta è proprio difficile ravvisare nelle parole del Presidente una «doppia lettura», della quale ancora fino a ieri cercava di convincersi Massimo Franco sul Corriere.

Prodi non ha esitato ad accodarsi, promettendo di tenere in gran conto, come sempre, le opinioni della Chiesa:
«Ma figuriamoci, io mi sono sempre posto questo problema. Me lo sono sempre posto fino in fondo e l'ho sempre avuto presente ogni volta che abbiamo toccato questo problema. Quindi non cesserò di averlo presente in futuro».
Ma il Cardinale Betori, segretario della Cei, all'apertura di Napolitano ha risposto con una doccia gelata, o, se volete, con uno sputo in faccia. Una legge sui Pacs «è superflua». La Chiesa non è disponibile «a un compromesso o a una mediazione al ribasso». Nessun dialogo è possibile su un principio «non negoziabile».

Una risposta fin troppo dura, ai confini dell'incidente diplomatico. Tant'è che Padre Federico Lombardi, direttore della sala stampa della Santa Sede, si è addirittura affrettato a intervenire al Tg1 per ammorbidire i toni ed esprimere apprezzamento per l'invito del Capo dello Stato, pur tenendo il punto nel merito. «Certamente molto apprezzabile» l'intervento del Presidente Napolitano, «dimostra la grande attenzione per le posizioni del Papa da lui già più volte manifestata, e incoraggia ad un atteggiamento di dialogo e di rispetto che non è sempre presente nell'attuale dibattito politico». Tuttavia, ha aggiunto, «rimane da vedere come possa essere trovata nel dialogo la auspicata sintesi, coinvolgendo le diverse componenti della comunità politica e sociale, in modo che le posizioni manifestate dalle autorità della Chiesa in Italia siano tenute nel conto dovuto».

D'altronde, nelle dichiarazioni degli esponenti dell'Unione l'imbarazzo è palpabile. Fassino, come al solito commovente, cade dalle nuvole: si dice «sorpreso per le critiche dei vescovi alle parole di Napolitano». La seconda carica dello Stato, Marini, da cattolico ha comunque cercato di ritirare sù l'onore delle istituzioni: il ddl è «un fatto di civiltà per il nostro Paese». Mentre la terza carica, Bertinotti, ha rinnegato per l'ennesima volta il «laicismo», tanto per ricordare a chi non lo avesse ancora capito che per definizione un comunista non può essere laico. Dogmatismo e cinismo glielo impediscono.

Ma la frittata era fatta.

Nel merito, l'effetto dell'invito di Napolitano alla «sintesi» è di aver ulteriormente blindato una legge già ampiamente compromessa in senso cattolico integralista. A questo punto le uniche modifiche possibili al testo sono quelle derivanti dall'aver tenuto conto delle «preoccupazioni espresse dal Pontefice e dalle alte gerarchie», mentre i margini di manovra per miglioramenti in senso laico ne escono drasticamente ridotti. E, inoltre, le parole del Capo dello Stato implicitamente delegittimano qualunque soluzione legislativa, anche su altri temi, che non trovi l'assenso, per lo meno silenzioso, del Papa e della Cei.

Ma il Presidente con la sua uscita ha provocato un danno ancora più grave. Innanzitutto, entrando nel vivo del dibattito politico su una questione spinosissima, influenzando di fatto anche l'elaborazione di un ddl del Governo, è andato ben oltre il suo ruolo costituzionale di garante. E non è la prima volta. Inoltre, ha arrecato alle istituzioni repubblicane una cocente umiliazione. Il Capo di uno Stato sovrano che offre disponibilità al dialogo ai vertici di un altro Stato sentendosi rispondere picche. E, per di più, nessuno Stato sovrano accetterebbe mai l'ingerenza di un altro Stato nei propri affari interni, addirittura nel processo legislativo.

Monday, January 29, 2007

Attenzione a quella legge di troppo

Senza citare direttamente il caso di Piergiorgio Welby, il presidente della III sezione penale della Cassazione Gaetano Nicastro ha inaugurato l'anno giudiziario 2007 dedicando un passaggio del suo discorso ai delicati temi dell'eutanasia e dell'accanimento terapeutico e ai loro "ambigui" risvolti giuridici.

«Si è discusso se è quando sia legittimo interrompere il trattamento terapeutico dei malati terminali. Alla soluzione sono indubbiamente connessi profondi problemi etici che investono il significato stesso della vita umana e diritti ritenuti indisponibili». Tuttavia, suggerisce Nicastro, «di fronte al progresso della farmacologia e dell'ingegneria medica rimane ambiguo il concetto stesso di accanimento terapeutico»: per questo «è urgente l'intervento del legislatore».

Di fronte a tanto autorevole richiesta di intervento del Legislatore molti laici e liberali hanno cantato vittoria, come se vi fosse la prova definitiva dell'esigenza di una legge sull'eutanasia o simili. Semmai, invece, c'è da preoccuparsi.

Il rifiuto e la richiesta di sospensione delle terapie sono già un diritto dei malati. Quella che per molti è "ambiguità" nel definire cosa sia «accanimento terapeutico» è in realtà un ampio spazio discrezionale che dovrebbe appartenere al malato, accompagnato dal suo medico. Una legge che pretenda di ridurre quella "ambiguità" ridurrà inevitabilmente l'autonomia dell'individuo nel decidere se la situazione terapeutica in cui si trova sia per lui accettabile o meno.

Preferisco, quindi, l'approccio "liberale" del Cardinale Martini: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate». Il che non vuol dire isolamento e abbandono nel malato in queste valutazioni e decisioni.

Serve una legge che definisca il concetto di «accanimento terapeutico», che stabilisca il principio, rispettando libertà e responsabilità dei soggetti coninvolti, malato e medico innanzitutto, ma non che risolva quell'insopprimibile "ambiguità" con cui si presenta il caso reale, che spetta al singolo malato, consigliato dal medico, risolvere.

Il rischio invece è che il Legislatore, secondo un legiferare tipico italiano, proceda cercando di definire una casistica il più esaustiva possibile, da cui far derivare, caso per caso, i comportamenti leciti e quelli illeciti. Un approccio dissennato, perché le leggi non riescono mai a ingabbiare la realtà e a prevederne tutti i possibili sviluppi. Quando ci si prova il risultato è sempre "meno libertà per tutti".

E intanto Prodi ricostituisce il suo impero pubblico

Se ne sono accorti in due. Giavazzi, sul Corriere, e Debenedetti, sul Sole. Nei giorni scorsi è stato varato dal Governo un provvedimento, sapientemente nascosto sotto le "lenzuolate" di Bersani, che è in realtà una gigantesca operazione di potere: l'istituzione di un Fondo italiano per le Infrastrutture, nel quale investiranno la Cassa depositi e prestiti (Ministero del Tesoro), le nostre maggiori banche e fondazioni bancarie.

Giavazzi l'ha bollato come «capitalismo di stato». Perché, si è chiesto mettendo il dito nella piaga, ci sono banche che «anziché creare un proprio fondo, come Macquarie o Carlyle, ne sottoscrivono uno la cui regia è saldamente in mano al governo e la cui guida è affidata a Vito Gamberale, già manager delle Partecipazioni statali, poi passato dalla parte dei "cattivi rentier" di Autostrade e ora redento?» Che cosa pensano di ricavarne in cambio queste banche?

Il «motivo contingente» che ha indotto il Governo a creare il nuovo Fondo, osserva l'economista, «è la decisione dell'Antitrust che impone alla Cassa depositi e prestiti di cedere o la partecipazione in Enel o quella in Terna, la società che possiede la rete elettrica. Per non perdere il controllo né dell'una né dell'altra, Terna sarà trasferita al nuovo fondo e quindi rimarrà nella sfera pubblica».

Ma non finisce qui. «Senza gare e finanziato da banche amiche (ora si capisce perché il governo ha applaudito alla nascita di Intesa-San Paolo) il fondo crescerà: dopo Terna, acquisterà la partecipazione dell'Eni in Snam Rete Gas, poi la rete fissa di Telecom Italia...» e così via. Insomma, la nuova Iri sarà una realtà. Prodi riavrà il suo impero pubblico.

Anche Debenedetti, sul Sole 24 Ore, si chiede che interesse abbiano queste banche nell'investire il loro denaro a interessi un po' più bassi di quelli di mercato. Forse quello di incassare i futuri e sicuri profitti dei monopoli pubblici? E avverte che il pericolo è di tornare «agli anni della pianificazione, ai non rimpianti tempi delle partecipazioni statali», riproducendo il «paradigma culturale della programmazione anni '70», con una «pervasività quale neppure aveva l'Iri».

Mentre noi inseguiamo le briciole di Bersani e ci scanniamo sui Pacs, loro si mettono in saccoccia l'economia italiana.

Sunday, January 28, 2007

Fermare il liberticida ddl Mastella!

«Una legge per sancire che chi scrive è responsabile delle azioni altrui».

E' inquietante che dietro l'alibi di censurare il negazionismo, ma senza neanche citarlo, il ddl Mastella varato dall'ultimo Consiglio dei ministri reintroduca in realtà il reato d'opinione. Non circoscrivendolo a un'opinione in particolare, che già sarebbe grave, ma allargandolo a un ventaglio di opinioni la cui ampiezza è di fatto lasciata all'arbitrio della magistratura e al clamore del caso.

Da «propaganda» e «istigazione» divengono reato i ben più generici «diffusione» e «incitamento». Il ddl punisce «ogni forma di esternazione concernente la superiorità e l'odio razziale che assuma caratteristiche di diffusività nell'ambito del tessuto sociale», ma «intende proclamare un principio di valenza generale, sancendo l'equivalenza tra le discriminazioni causate da motivi razziali e quelle causate dall'identità di genere o dall'orientamento sessuale delle persone».

Una genericità pericolosa, «le esternazioni punibili divengono sulla carta infinite», avverte Filippo Facci, che va al cuore del problema:
«Vi è da ritenere, realisticamente, che la libertà d'espressione rimarrà quella di sempre, ma nondimeno che l'insorgere di particolari conseguenze potrà spingere a individuare e punire via via qualche causa. Ossia: se ci sarà esplosione puniranno la miccia, se non ci sarà non la puniranno. Ossia: scriveremo le cose di sempre, faremo le vignette di sempre, ma se qualcuno poi andrà in piazza la colpa diverrà nostra, perché sarà la conseguenza a definire penalmente la causa. Questa nuova legge, per esperienza italica e in parte europea, sancisce che saremo potenzialmente responsabili delle azioni altrui».
Per non passare da censori di una sola, pur esecrabile, opinione (il negazionismo), si finisce per essere censori di un campo potenzialmente sterminato di esecrabili opinioni. Molto meglio la scelta di diversi paesi europei, meno limitativa nei confronti della libertà d'espressione, di introdurre il reato di negazionismo, o quella dei nostri costituenti di vietare (in via transitoria) la ricostituzione del partito fascista e l'apologia del fascismo. Sempre di un limite alla libertà d'espressione si tratta, ma per lo meno è circoscritto a una sola opinione.

Dice bene Il Foglio:
«Nel caso di Mastella questa è una spiegazione, non una scusante: la sua legge ha perso letteralmente di vista il negazionismo per non mortificare la ricerca storica opponendole una verità di stato. Ma ha generato un'esplosione di universalismo dei diritti politicamente corretti: mentre vezzeggia tutte le identità astratte, rischia di rovesciarsi nella negazione della loro libertà concreta».
E' questa, ahimé, la nostra democrazia... Siamo pronti a mettere in carcere uno storico negazionista, qualche ragazzo che manifesta con la croce celtica, da oggi magari chi scrive che l'omosessualità è una malattia. E avremmo salvato, arrestandolo, il regista di Submission, Theo Van Gogh. Eppure, non siamo capaci di fermare l'unico che oggi è forse in grado di scatenare un nuovo olocausto: il presidente iraniano Ahmadinejad.

Giustizia italiana senza legittimità

Ne abbiamo già scritto, ma l'editoriale di Ostellino, sabato sul Corriere, non può non indurci a tornare sulla incredibile sentenza della Corte costituzionale che ha decretato l'incostituzionalità della legge Pecorella sulla inappellabilità delle assoluzioni da parte della pubblica accusa.

Ostellino ricorda che nello stato di diritto l'imputato e la pubblica accusa «sono posti su un piano di parità formale nel corso del dibattimento processuale», ma che «in linea di principio e punto di diritto non c'è uguaglianza fra i diritti del cittadino e quelli dell'accusa. Il cittadino è maggiormente tutelato perché sono in gioco le sue stesse libertà». Prevale così il principio della «presunzione di innocenza dell'imputato. E ciò spiega perché non si possa essere processati due volte per lo stesso reato una volta assolti in giudizio».

L'editorialista ha il merito di soffermarsi sulle due diverse, alternative culture giuridiche che scaturiscono dallo Stato di diritto e dallo Stato etico. A voi valutare a quale idea di Giustizia somigli di più quella italiana.

«Lo Stato di diritto ha fiducia nella propria Giustizia, anche quando permanga qualche ragionevole dubbio sull'innocenza dell'imputato, perché non confonde la legge con la morale e si limita ad applicare la prima non pretendendo di far trionfare la seconda. I processi sono relativamente rapidi, perché la sentenza di un tribunale - quale essa sia - non è mai la Verità, ma è sempre il frutto di quanto gli uomini sono riusciti ad accertare, scetticamente consapevoli della propria limitatezza e della propria fallacia».

Viceversa:
«Lo Stato etico non ha fiducia neppure nella propria Giustizia perché confonde la morale con la legge e insegue il trionfo della prima a dispetto della seconda. I processi sono incredibilmente lunghi, perché la sentenza di condanna di un tribunale è sempre la verità e l'assoluzione dell'imputato è sempre la sconfitta dello Stato».

L'Italia, conclude Ostellino, è una Repubblica fondata sull'«accanimento giudiziario». Con la sua sentenza la Corte costituzionale «perpetua la condizione di illegalità e illegittimità in cui versa il nostro sistema giudiziario». I milioni di processi aperti, la lentezza di questi processi, in parte non marginale dovuta alla possibilità dei p.m. di replicare le loro accuse anche di fronte a una sentenza di assoluzione, hanno finito col trasformare il processo stesso in «un'arbitraria e devastante forma di pena, anticipatrice della sentenza e spesso in contraddizione con tardive sentenze di assoluzione».

Finalmente si fa sul serio con l'Iran

Lo dicevamo, che quel che più importa della nuova strategia per l'Iraq annunciata da Bush è la decisione, finalmente, di affrontare a «muso duro» le ingerenze destabilizzanti iraniane nel paese. E, quindi, più in generale, contrastare anche con la forza militare - ma non solo - le mire egemoniche di Teheran sull'intera regione. Se ne è accorto anche Kissinger, che ha definito «coraggioso» il piano di Bush e posto l'accento sulla più rilevante novità sul piano strategico: è nell'«interesse nazionale americano impedire alla combinazione iraniana di ideologia fondamentalista e imperialista di dominare una regione dalle cui forniture di energia dipendono le democrazie industriali».

Nei giorni scorsi, a conferma di tutto ciò, il Washington Post ha rivelato che gli ordini del presidente sono chiari: fermare o uccidere gli agenti iraniani in Iraq. Era ora.

Friday, January 26, 2007

Liberalizzazioni. Briciole e bocconi

Molte briciole, qualche boccone, ma l'arrosto dov'è?

E così il Governo, dopo tanta fatica, ha varato il suo pacchettino liberalizzazioni, sintesi tra quello Bersani a quello Rutelli, anche se il vicepremier aveva assicurato che non era in corso «nessun derby».

Un paio di buoni bocconcini - direi la vendita della benzina nei supermercati e la fine dell'esclusiva per gli agenti assicurativi, il che permetterà ai consumatori di confrontare in modo più immediato le polizze della varie compagnie - ma per il resto tante briciole - per carità, anche utili - che riguardano però alcune categorie, poche e piccole (benzinai, edicolanti, tassisti, cinema, guide turistiche, barbieri, estetisti, eccetera...).

Ordini professionali, monopoli pubblici locali, reti - energia, trasporti e telecomunicazioni - assicurazioni e banche rimangono intatti. Non si toccano i «santuari», insomma: i rubinetti del gas, cioè l'Eni e la rete Snam, per esempio, o i potentati politici locali che controllano i servizi pubblici.

Su tariffe aeree e telefoniche piccoli ritocchi. Il più popolare dei provvedimenti, quello che abolisce l'odioso costo fisso sulle ricariche dei telefonini, è più di facciata che altro, visto che i gestori potranno rifarsi ritoccando i costi delle chiamate. Anche l'eccessivo prezzo della benzina Mingardi ha già chiarito come sia dovuto più che ad altro alle tasse. E a proposito di cartelli petroliferi, il cartello più pericoloso sembra essere proprio lo Stato.

Addirittura si copre di ridicolo il Governo sulla semplicifazione amministrativa per l'apertura di un'impresa: adesso i provvedimenti sono tre, due oltre quello di Capezzone che è ormai pronto ad andare in aula e potrebbe essere approvato in un giorno anziché in 60 come i decreti. Insomma, anche quando si agisce per semplificare, in realtà si complica.

«Dobbiamo accontentarci, non siamo il governo di Milton Friedman», commenta la Bonino al Corriere. Be', grazie, questo si era capito, solo che in politica ad accontentarsi non si gode molto. Meglio La Malfa: cento piccole liberalizzazioni non valgono quelle poche davvero importanti. Ma noi preferiamo Alberto Alesina, sul Sole 24 Ore: «Scelte giuste, ma modernizzare è un'altra cosa».

Thursday, January 25, 2007

Il Consiglio dei Guardiani colpisce ancora

Il Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione ha bocciato la riforma Pecorella che introduceva l'inappellabilità, da parte dell'accusa, delle sentenze di assoluzione.

Nel merito ci eravamo già espressi mesi fa, ma al di là che si condivida o no la legge, che la si ritenga opportuna o meno, non si può non ravvisare nella sentenza della Corte (leggeremo le motivazioni, ma siamo pronti a scommettere) un rigetto politico e ideologico.

D'altra parte, è la stessa giurisprudenza della Corte nei suoi anni di vita, soprattutto in materia referendaria, a rendere perfettamente calzante la celebre definizione che ne dà Pannella di «suprema cupola della mafiosità partitocratica». Per questo è assordante il silenzio dei radicali e dello stesso Pannella su questa vicenda, soprattutto se si sostiene - a ragione - che il modo in cui oggi è amministrata la Giustizia rende lo Stato letteralmente un "fuori legge".

A maggior ragione, se si è sostenuto l'indulto, e si sostiene l'amnistia, si dovrebbe per coerenza sostenere l'inappellabilità delle sentenze di assoluzione, che oltre ad essere uno strumento di garanzia del singolo imputato, avrebbe contribuito a sfoltire i milioni di processi e a ridurre la loro durata. Non semplici inefficienze, ma ferite profonde dello stato di diritto.

Una decisione che per l'ennesima volta ci ricorda come in questo paese sia impossibile riformare la Giustizia "contro" il volere degli operatori del sistema. Il legislatore è impotente. Da corpo, ordine dello Stato, gli amministratori della giustizia rappresentano oggi un potere - e pretendono di esserlo, in violazione della Costituzione su cui hanno giurato (art. 104, comma 1) - che esercita una tutela di fatto sul Parlamento democratico. Dove non possono arrivare con la semplice ingerenza, le pressioni della magistratura associata, arriva, in ultima istanza, la ghigliottina del Consiglio dei Guardiani.

Nel merito la legge Pecorella rispondeva al principio che ogni sentenza di condanna debba essere pronunciata solo se l'imputato sia risultato colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio». E come fa a non esserci «ragionevole dubbio» se due giudici, quello di primo grado e quello di appello, la pensano diversamente? Considerando, inoltre, che il terzo giudice, la Cassazione, non ritorna sul merito?

Se una sentenza ha prosciolto l'imputato, come si fa a sostenere che non sussiste «ragionevole dubbio», ovviamente al di fuori dei casi di violazione di legge, di mancanza o illogicità manifesta della motivazione della sentenza stessa - casi in cui infatti è previsto il ricorso per Cassazione?

Se, in altri termini - conclude l'amico Alessandro Gerardi sul forum di Radicali.it - in un fascicolo abbiamo una pronuncia di assoluzione non già cassata da una sentenza di annullamento, ma superata da una di segno opposto, il «ragionevole dubbio» risulta attestato dalla coesistenza di due possibili soluzioni alla stessa vicenda processuale.

Ma ribadiamo: più del merito, preoccupa il ruolo della Corte. Per quanto criticabile, in parte o tutta, e incompleta, la legge Pecorella è vittima di una censura politica da parte di una Corte non depositaria del rispetto della Costituzione, ma militante di una certa visione ideologica e interprete di una certa cultura giuridica inquisitoria e giustizialista.

UPDATE: il comunicato, a firma Gerardi-Punzi.

E' proprio un soggetto

Un applauso a Bandinelli, che ha trovato il giusto compromesso nella disputa tra persona e individuo che tanto fa litigar i suoi amici clericali e laicisti: soggetto. Gli scritti di Bandinelli sono continui smarcamenti ideologici avvolti nella nebbia dell'erudizione (un pizzico di quello e una goccia dell'altro vengono fuori delle zuppe di cui non si riesce a definire il sapore). Quando la nebbia si dirada, la pianura è deserta e di Bandinelli noi sappiamo cosa non gli piace, ciò da cui tiene a smarcarsi, ma mai ciò che gli piace. Dicesi inutile, se l'utile è categoria ancora eticamente consentita o non troppo "vuota".

Wednesday, January 24, 2007

«Aggressione» al Corriere della Sera

Paolo Mieli, direttore del Corriere della SeraDa parte di Pannella, non viceversa. Il leader radicale se l'è presa per l'ennesima volta con il quotidiano di via Solferino, colpevole stavolta di non aver riportato nell'articolo di lunedì sul Comitato dello scorso fine settimana i molti temi affrontati, ma soprattutto di aver taciuto la campagna iscrizioni e il vero "scoop", l'intenzione dei radicali di portare i libri contabili in tribunale, soffermandosi invece solo sull'ennesima lite Capezzone-Pannella (per altro questa volta dai toni assai più dimessi). Un'«aggressione straordinaria, una politica precisa contro il Partito Radicale», l'ha definita.

Incredibile a dirsi, ma in 24 ore Mieli ha riparato, con l'articolo di ieri di Marco Nese, i cui toni però non sono piaciuti al leader radicale.

Da quando, al Congresso di Padova, il giornale prese esplicitamente le difese di Capezzone con un editoriale di Pierluigi Battista in prima pagina, Pannella se l'è legata al dito. In quell'occasione l'editorialista chiedeva polemicamente se esistesse ancora un "radicale", tra i radicali, che avesse il coraggio di difendere il segretario uscente "divorato" da Pannella-Crono.

Indubbiamente un intervento a gamba tesa, un colpo basso. Il Corriere entrava da "partito" nelle vicende congressuali di un partito, anche per influenzarne l'andamento. Per una volta via Solferino riservava ai radicali un'attenzione e un trattamento che sempre riserva agli altri grandi partiti. I giornali italiani, Corriere e Repubblica, sono infatti dei "giornali-partito", non solo nel senso che sostengono una delle coalizioni, questo o quel politico, ma nel senso che sono essi stessi un "partito" con un intreccio di interessi da far valere anche in contrapposizione ai partiti politici. Non semplicemente giornali schierati, ma "partiti" tra gli altri partiti.

Per questo non passa stagione in cui non si vedono Corriere e Repubblica intervenire nelle vicende interne dei partiti, grandi e piccoli, nei congressi o altrove, a sostegno di un leader contro il suo avversario, o di una corrente contro l'altra. Stesso trattamento ha ricevuto a Padova, per la prima volta, Radicali italiani. Un evento, con i suoi aspetti positivi e negativi, da non demonizzare, ma casomai da capire e di cui approfittare.

Per capire il perché dobbiamo fare un ulteriore passo indietro. Il Corriere forse è stato il principale artefice della grande attenzione e delle grandi aspettative che hanno accompagnato nei mesi precedenti le elezioni la Rosa nel Pugno. Ne ha incoraggiato la nascita, ha seguito e sostenuto la campagna elettorale. Perché? Mieli vedeva nella Rosa nel Pugno un soggetto liberale indispensabile all'interno di una coalizione tutt'altro che liberale, e riteneva che potesse svolgere un importante ruolo di contrappeso rispetto alla sinistra comunista. E, all'occorrenza, con l'imprevedibilità radicale, anche dimostrarsi un elemento destabilizzante. Inoltre, ha giocato sulle capacità della Rosa di attrarre voti dai Ds.

Una volta «congelata» la Rosa nel Pugno lo stesso ruolo ha pensato che potessero giocarlo i radicali. Ma il Corriere li vuole combattivi, un elemento di disturbo, di sfida in positivo all'immobilismo del Governo Prodi. Il maggior interprete di questa linea in questi mesi è stato senza dubbio Capezzone ed è per questo che, credo, il Corriere l'ha difeso nel momento in cui, a ragione o a torto, ha visto in pericolo la sua linea. In quei giorni si era arrivati addirittura a scrivere che Pannella porgesse a Boselli e a Prodi la testa di Capezzone.

Di cosa si lamenta Pannella? Il Corriere continua a dare grande - indubbiamente meritata - visibilità ai radicali. La sua linea è quasi interamente sovrapponibile a quella dei radicali, praticamente su tutti i temi. In economia, l'attenzione e l'aperto sostengo ai «volenterosi» e i frequenti editoriali di Monti, Giavazzi, Ichino, Nicola Rossi; sulla laicità e le libertà personali, basta pensare al caso Welby e ai Pacs; anche in politica estera, anti-bushiano senza essere anti-americano, il grande spazio dedicato all'iniziativa nonviolenta per salvare Saddam e, poi, per la moratoria Onu della pena di morte, oltre agli interventi dei pochi intellettuali di sinistra liberale come Berman, Hitchens e Glucksmann.

Dunque, nessuna aggressione del Corriere ai radicali. Al contrario, grande attenzione - ribadisco: meritata - e spesso aperto sostegno. L'unico punto di dissidio è con Pannella e riguarda Capezzone. Ma che il Corriere si interessi ai contrasti interni tra il leader e l'ex segretario è un implicito riconoscimento dell'importanza e della centralità politica dei radicali.

E' così grave? Forse bisognerebbe capire a cosa si devono tante attenzioni, essere consapevoli dei rischi, delle ambiguità, ma anche dei vantaggi, per assicurarsi di essere soggetto, e non solo oggetto, di politica.

Kissinger più realista dei kissingeriani

L'ex segretario di Stato Usa definisce «coraggiosa» la decisione del presidente Bush di inviare in Iraq altri 20 mila soldati: «Non sarà possibile un altro ripensamento». E condivide la sua strategia.

E' spietato nell'indicare gli errori di gestione della guerra e del dopo-guerra:
«La comprensibile - ma a posteriori prematura - strategia di sostituire i soldati americani con personale locale ha distolto le forze armate Usa da una missione militare, impedendo loro di occuparsi del principale problema dell'esercito iracheno, cioè la definizione di che cosa l'esercito avrebbe dovuto combattere e sotto quale bandiera».
E' tra i pochi ad avere ben presente il carattere regionale, più che civile, del conflitto:
«La guerra in Iraq è parte di un altro conflitto che interseca il confronto tra sciiti e sunniti: l'assalto all'ordine internazionale compiuto dai gruppi radicali di entrambe le sette islamiche. Stati dentro allo Stato, avvantaggiati dall'incapacità dei governi eletti di proteggere la popolazione, Hezbollah in Libano, l'esercito del Mahdi in Iraq e i gruppi di Al Qaeda in tutto il Medio Oriente, cercano, dal loro punto di vista, di riaffermare un'identità islamica sommersa dalle istituzioni e dai valori secolarizzati dell'Occidente».
Al contrario dei sedicenti kissingeriani mostra vero realismo, si rende conto che «nelle attuali condizioni un ritiro unilaterale non è un'opzione», né «un ritiro graduale diminuirebbe i pericoli».

E' tra i pochi a riconoscere l'importanza strategica della presenza americana in Iraq e a porre l'accento su quel che davvero conta del nuovo piano di Bush: è nell'«interesse nazionale americano impedire alla combinazione iraniana di ideologia fondamentalista e imperialista di dominare una regione dalle cui forniture di energia dipendono le democrazie industriali».

Al contrario di alcuni nostri "realisti" alle vongole, poco tempo fa impegnati a spiegarci, prodighi di colte citazioni, che con l'Iran bisogna trattare o che addirittura «è un nostro alleato naturale», il realista Kissinger ritiene che l'Iran vada contrastato con la forza, a partire dalle sue ingerenze destabilizzanti in Iraq.

Per questo appoggia la decisione del presidente Bush di inviare altri soldati a Baghdad e un'altra portaerei nel Golfo: il suo piano dovrebbe essere visto come «il primo passo verso una nuova grande strategia che colleghi nell'intera regione forza e diplomazia, idealmente senza preferire alcuna fazione». Lo scopo della strategia? «Dimostrare che gli Usa sono determinati a rimanere rilevanti negli sviluppi regionali...» per sconfiggere due delle attuali minacce alla sicurezza in Iraq: l'ingerenza di paesi stranieri e i combattenti di Al Qaeda.

Lamenta che il «pubblico americano» abbia dovuto «portare da solo il fardello di questa guerra per quasi quattro anni». L'America, avverte però, «non può portare da sola il peso degli sviluppi militari e della struttura politica. L'Iraq dovrà tornare nel consesso internazionale. Altri paesi devono prepararsi a condividere la responsabilità della pace regionale».

Bush è convinto che la democrazia in Iraq, e nel medio-lungo termine in Medio Oriente, sia il miglior antidoto contro il radicalismo islamico, ma la novità è la consapevolezza che ciò coincide con l'interesse nazionale alla sicurezza. E Kissinger, a differenza di alcuni suoi stessi epigoni, ha capito che l'apparente stabilità del Medio Oriente prima della caduta di Saddam non era più sostenibile e che ora gli Usa devono impegnarsi per trovare un nuovo assetto. Ma soprattutto far capire che non sono disposti a lasciare campo libero al radicalismo islamico, sia nella versione iraniana che in quella di Al Qaeda.

Tempi sospetti

Pochi di noi erano a conoscenza della visita in Italia, ieri, del ministro degli Esteri iracheno Hostiar al-Zebari alla guida di una delegazione.

Alla Camera davanti alla Commissione Esteri che gli aveva appena ribadito la contrarietà italiana alla pena di morte, al-Zebari ha replicato, criticando il momento scelto dall'Italia per avviare la campagna per la moratoria universale della pena capitale. Farlo subito dopo l'impiccagione di Saddam Hussein è stata «un'azione che il popolo iracheno non ha compreso».

«L'Italia e Prodi - avrebbe detto Al-Zebari ai deputati, secondo quanto riferiscono fonti irachene e italiane presenti - avrebbero potuto avviare tale iniziativa quando Saddam Hussein era ancora al potere ed impiccava sistematicamente oppositori e sospettati, o anche subito dopo la sua caduta. Ma in questo modo i tempi sono stati errati».

Al-Zabari ha incontrato Umberto Ranieri, presidente della commissione Esteri della Camera, il quale al termine del colloquio ha confermato che l'Italia aiuterà l'Iraq con un programma di formazione e addestramento delle forze dell'ordine: «Il ritiro delle nostre truppe non ha comportato il disimpegno dell'Italia nello sforzo di ricostruzione dell'Iraq». Ranieri ha poi riferito che al-Zebari ha ribadito l'impegno del suo governo a «rilanciare il processo di riconciliazione nazionale in un contesto federale, ma riconoscendo le prerogative dello Stato centrale».

In mattinata, il ministro iracheno, secondo quanto riferito da Lamberto Dini, presidente della Commissione Esteri del Senato, avrebbe espresso «apprezzamento e gratitudine» per il ruolo di pacificazione svolto dal contingente italiano in Iraq e per il contributo che l'Italia sta fornendo alla ricostruzione democratica del Paese.

In serata, al-Zabari ha incontrato il vice premier e ministro degli Esteri D'Alema per la firma del Trattato bilaterale di amicizia, partenariato e cooperazione.

(Fonte: Ansa)

Tuesday, January 23, 2007

Come il "cucchiaio" di Totti

Questo ragazzo non smette di stupire. Oggi ha messo a segno un colpo triplo.

1) Riaprendo la questione degli otto senatori (due radicali, tra cui Pannella) regolarmente eletti ma assenti a Palazzo Madama a causa della mancata applicazione alla lettera della legge elettorale, dà vita a una battaglia contro una delle più clamorose violazioni della legalità degli ultimi anni, che riguarda la composizione del Parlamento e il principio della rappresentanza. In una parola: la democrazia.
«Mi sembra un dovere civile dare un piccolo e sentito contributo per aiutare il Senato a prendere una decisione, qualunque essa sia, e a superare un'attesa che appare (appunto) non oltre tollerabile».
Al di là del merito, questa attesa - che prolunga l'incertezza sulle basi legali dell'attuale composizione del Parlamento - è irresponsabile.

1.1) Tra l'altro, l'unico modo, entrare in Senato, che può dare ai radicali maggiore libertà d'azione e più voce in capitolo rispetto alle scelte del Governo.

2) All'apice del "mobbing" pannelliano nei suoi confronti, contrattacca digiunando per mandare al Senato il leader radicale. Come dire: alle sberle del padre risponde con un gesto d'amore politico.

Un'iniziativa definita da Pannella «preziosa e opportuna anche se, ponendo il problema del metodo, c'è quello di evitare che i nostri interlocutori decidano la cosa più schifosa. Bisogna vigilare, perché poi questi, se sono costretti a decidere, potrebbero avere anche l'onestà intellettuale di ufficializzare i loro crimini».

3) D'un colpo mette a tacere alcune ingiuste critiche all'interno del partito, di chi lo vorrebbe poco a suo agio con il metodo della nonviolenza, e di chi definisce la sua politica "riformismo economicista".

Non c'è che dire, un "cucchiaio" alla Totti.

Tra l'altro qui si è avuta la sensazione che Pannella esitasse, nonostante ormai siano passati parecchi mesi dalle elezioni, a porre la questione dell'esclusione dal Senato, anche perché un suo esito negativo è potenzialmente dirimente rispetto ai rapporti dei radicali con la maggioranza. Come sopportare, infatti, di rimanere in una maggioranza che non riconosce una ragione di diritto a una forza politica che ne fa parte? Ma soprattutto, come rimanere in una maggioranza che si rendesse responsabile di un tale vulnus alla legalità stessa del Parlamento?

Stanchezza ed esaurimento

Un «opportuno commento» quello, sul Corriere della Sera, del presidente del gruppo liberale al Parlamento europeo Graham Watson, «che ha detto quello che andava detto, e cioè che in qualche misura Blair sta dando l'impressione, forse per stanchezza o per esaurimento, di fare un po' il barboncino di Bush. E questo è grave e dispiace». Queste parole sono di Marco Pannella (Ansa). «Stanchezza» ed «esaurimento»... Blair... stiamo parlando di Blair... Niente ironie, per favore, su «stanchezza» ed «esaurimento»...

Centralità della persona, ma come oggetto

«Posso io vivere ostaggio di una macchina? Ha senso? Dio mi chiede questo? No, non ho dubbi: Dio non chiede questo».
Giovanni Reale, al Corriere della Sera.

Il filosofo cattolico vicino a Wojtyla ha particolarmente apprezzato l'intervento del Cardinale Martini su eutanasia e accanimento terapeutico, dicendosi in piena sintonia. Opposta la posizione di Ruini. A parole, tutti dicono "no" all'accanimento terapeutico, ma la differenza emerge quando si tratta di stabilire quando c'è accanimento terapeutico. I ruiniani si trovano in difficoltà: le definizioni astratte del Catechismo della Chiesa Cattolica sono troppo ambigue e ancora non c'è stato modo di conoscere un caso concreto in cui a loro avviso si tratti di accanimento terapeutico.

Il Cardinale Martini e il filosofo Reale invece risolvono il problema ponendo al centro la «volontà del malato». Il che non vuol dire isolamento e abbandono del malato nelle sue valutazioni e decisioni. L'assistenza «deve continuare», ma «commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche».

Il caso Welby ancora una volta dirimente. Per gli uni Welby avrebbe chiesto «lucidamente» il suicidio, per gli altri il caso «non aveva nulla a che fare con l'eutanasia perché era accanimento... Non si può imporre a una persona di vivere prigioniera della tecnologia. Quando la cosiddetta "cura" non ha più effetto, procura sofferenza e impedisce con la violenza l'estrema richiesta di quell'uomo. Che non significa affatto darsi la morte ma accettare di non poterla impedire».

Anche nel suo "no" alle terapie o a procedure mediche di carattere sproporzionato e inutile, la Chiesa riesce a calpestare l'autonomia decisionale del malato. Monsignor Sgreccia dice che «non solo si può, ma si deve rinunciare» a quelle terapie «che non presentano una ragionevole speranza di esito positivo». Esse sono «illecite sempre», in quanto «offendono la dignità del morente». Dunque, non è mai contemplato che sia il morente a decidere quando le terapie offendono la sua dignità.

Quella che prevale attualmente ai vertici della Chiesa cattolica è un'idea di centralità della persona come oggetto e non come soggetto, ma i dissensi esistono e sempre più emergono, rendendo evidente come la linea illiberale Ratzinger-Ruini sia molto meno compatta di quanto possa apparire dalle loro offensive mediatiche.

Presidente Prodi, nulla da dichiarare?

Nel filmato, girato nel febbraio 2006, mandato in onda ieri dalla trasmissione Panorama, della Bbc, l'ex agente Kgb Litvinenko, ucciso da un avvelenamento da polonio a Londra, premettendo di non avere documenti a supporto, spiega che le sue informazioni su Prodi risalgono al 2000, quando Trofimov, un generale del Kgb, gliene parlò: «Trofimov non disse esattamente che Prodi era un agente del Kgb, perché il Kgb evita di usare quella parola. Disse che Prodi era un "nostro uomo", un uomo del Kgb e che Prodi con il Kgb portava avanti in Italia qualche operazione segreta, sporca».
(Fonte: ITV)

Un terribile sospetto di fronte al quale, purtroppo per Prodi, non si può non rispondere, o sollevare le spalle, o, peggio, calunniare le fonti. Ci auguriamo che nulla sia vero, ma queste voci cominciano a trovare qualche riscontro.
«Stupisce che organi di informazione di cui si è sempre sottolineata l'autorevolezza diano ancora ascolto a notizie false, montature palesi, fonti improbabili e ad avventurieri delle notizie. La stampa e la magistratura italiana hanno già chiarito a sufficienza questa ignobile vicenda dimostrando ampiamente la portata della montatura perpetrata».
E' la secca replica del portavoce del premier Romano Prodi, Silvio Sircana.

Altro che riforma, un attentato alla Pubblica Amministrazione

Il ministro della Funzione pubblica NicoalisPietro Ichino è tornato, lunedì sul Corriere, su quello che sempre più si sta configurando come un vero e proprio attentato alla Pubblica Amministrazione. Il "memorandum" Governo-Sindacati per la sedicente riforma del pubblico impiego.

Dietro la facciata, la generica enunciazione delle parole chiave «valutazione» ed «efficienza», Ichino denuncia la sostanza di una «cogestione sindacale dei poteri pubblici». Addirittura, secondo il memorandum, la stessa riorganizzazione degli uffici «è oggetto di preventiva concertazione con le Organizzazioni sindacali».

Tutto dev'essere «concertato», non con il singolo lavoratore, ma con i Sindacati. Non solo la mobilità e i controlli "qualità". Il sistema della contrattazione sindacale interviene persino - incredibile! - nell'affidamento e nella rotazione delle funzioni dirigenziali. Si introduce così un regime di «sostanziale cogestione» Governo-Sindacati della Pubblica Amministrazione.
«Davvero governo e confederazioni sindacali credono che un ampliamento del già estesissimo ruolo del sindacato nella gestione della cosa pubblica possa favorire, anzi garantire, una maggiore responsabilizzazione dei dirigenti in questo settore, un più efficace e incisivo esercizio dei loro poteri?»
Ichino si preoccupa dell'efficienza di queste scelte, ma forse per i suoi trascorsi sindacali non percepisce fino in fondo la gravità di ciò che sta avvenendo e di cui ha scritto.

Se questo "memorandum" dovesse diventare legge sarebbe un ulteriore passo verso la corporativizzazione del nostro Stato. Peggio. Sarebbe una legge dagli aspetti palesemente anti-costituzionali, perché violerebbe i principi costituzionali dell'«imparzialità dell'amministrazione» (art. 97, comma 1) e dei dipendenti pubblici «al servizio esclusivo della Nazione» (art. 98, comma 1). Se, infatti, Governo e Sindacati «cogestiscono» la Pubblica Amministrazione, contrattando su mobilità, organizzazione e funzioni dirigenziali, l'esito non potrà che essere la lottizzazione e l'occupazione del potere da parte di organizzazioni, partiti e sindacati, che per quanto svolgano un ruolo pubblico riconosciuto, rimangono private, «di parte».
Vedremmo accentuarsi in modo definitivo quella tendenza, in verità già in atto nel pubblico impiego e negli enti parastatali, per cui progrediscono in carriera, per quote, i "protetti" dei vari partiti e sindacati, mentre l'etichetta del "fannullone" rischia di venire affibbiata agli elementi "scomodi", troppo indipendenti.

Un'amministrazione così gestita non potrebbe certo essere «imparziale». E un dirigente le cui funzioni, mobilità e carriera dipendono dalla spinta di un partito o di un sindacato non potrebbe certo essere «al servizio esclusivo della Nazione».

Un esercito di funzionari "promossi" dai Sindacati nelle contrattazioni è pronto a invadere l'amministrazione, che così occupata rimarrebbe leale a quelle organizzazioni anziché allo Stato, anche ostacolando e sabotando le politiche dei governi democraticamente eletti. Un pericolo concreto per la democrazia. Ma per un ministro che si rendesse responsabile di un simile provvedimento non ci sarebbero gli estremi per essere posto in stato d'accusa dal Parlamento?

Monday, January 22, 2007

Meglio «poveretti» che comunisti

«Quelli di Tienanmen erano veramente dei ragazzi poveretti, sedotti da mitologie occidentali, un poco come quelli che esultarono quando cadde il muro; ma insomma, erano dei ragazzi che volevano la Coca-Cola».
Edoardo Sanguineti (La7, 21 gennaio)

Sono un «poveretto» anch'io... coca cola sì, coca cola... a me mi fa impazzire...

Martini mette al centro «la volontà del malato»

Il Cardinale Camillo Ruini, a capo della CeiIl Cardinale Carlo Maria Martini chiede alla Chiesa di riservare «più attenta considerazione anche pastorale» ai casi, che saranno sempre più frequenti, come quelli di Welby, «che con lucidità ha chiesto la sospensione delle terapie di sostegno respiratorio, costituite negli ultimi nove anni da una tracheotomia e da un ventilatore automatico, senza alcuna possibilità di miglioramento».

Nel suo intervento di domenica sul Sole 24 Ore osserva che «la crescente capacità terapeutica della medicina consente di protrarre la vita pure in condizioni un tempo impensabili». E' un fatto «positivo», ma ci vuole «un supplemento di saggezza per non prolungare i trattamenti quando ormai non giovano più alla persona».

Bisogna «distinguere» però tra eutanasia e astensione dall'accanimento terapeutico, «due termini spesso confusi».

Martini fa riferimento, ovviamente, al catechismo, riportando due noti passaggi in realtà molto ambigui: l'accanimento consiste in «procedure mediche sproporzionate e senza ragionevole speranza di esito positivo» (Compendio Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 471). Evitando l'accanimento terapeutico «non si vuole... procurare la morte: si accetta di non poterla impedire» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2.278), «assumendo così i limiti propri della condizione umana mortale».

Fin qui nulla di nuovo, ma è quello che segue che rende importanti le parole di Martini: «Per stabilire se un intervento medico è appropriato non ci si può richiamare a una regola generale quasi matematica, da cui dedurre il comportamento adeguato, ma occorre un attento discernimento che consideri le condizioni concrete, le circostanze e le intenzioni dei soggetti coinvolti. In particolare non può essere trascurata la volontà del malato, in quanto a lui compete — anche dal punto di vista giuridico, salvo eccezioni ben definite — di valutare se le cure che gli vengono proposte, in tali casi di eccezionale gravità, sono effettivamente proporzionate».

Il che non vuol dire isolamento e abbandono nel malato in queste valutazioni e decisioni. L'assistenza «deve continuare», ma «commisurandosi alle effettive esigenze della persona, assicurando per esempio la sedazione del dolore e le cure infermieristiche».

Dal punto di vista giuridico, conclude il cardinale, occorre «una normativa che, da una parte, consenta di riconoscere la possibilità del rifiuto (informato) delle cure — in quanto ritenute sproporzionate dal paziente, dall'altra protegga il medico da eventuali accuse (omicidio del consenziente o aiuto al suicidio), senza che questo implichi in alcun modo la legalizzazione dell'eutanasia». Paziente e medico.

Il fatto rilevante dell'intervento di Martini non sta tanto nel "no" all'accanimento terapeutico, posizione già ampiamente condivisa, né nel riconoscere che nel caso Welby di questo si è trattato. Di fronte all'impossibilità di stabilire una «regola generale» valida per tutti i casi, il cardinale pone al centro, come dirimente, «la volontà del malato». Il pericolo molto concreto, invece, è che il Legislatore proceda cercando di definire una casistica il più esaustiva possibile, da cui far derivare, caso per caso, i comportamenti leciti e quelli illeciti.

Un approccio, tipico del legiferare italiano, dissennato, perché le leggi non riescono mai a ingabbiare la realtà e a prevederne tutti i possibili sviluppi. Invece, quello che propone Martini è un approccio "liberale", che mira a stabilire il principio rispettando libertà e responsabilità dei soggetti coninvolti, malato e medico innanzitutto.

UPDATE: Non si è fatta attendere la risposta di Ruini, per il quale «la volontà del malato, attuale o anticipata o espressa attraverso un suo fiduciario scelto liberamente, e quella dei suoi familiari, non possono avere per oggetto la decisione di togliere la vita al malato».

Sunday, January 21, 2007

Un Comitato movimentato

Un Comitato nazionale di Radicali italiani molto partecipato e ricco di contenuti questo fine settimana, e, al contrario di quello di fine anno, con momenti di confronto vero e serrato, non senza polemiche dirette. Oltre al mio intervento, vi consiglio di ascoltare quelli di De Lucia, Viale, D'Elia, Stenta, Bacchi, Puggioni, Staderini, Boni, Bonino, Litta Modignani, Cappato, Capone, Spadaccia, di nuovo Viale. Naturalmente quelli di Capezzone, per l'ampia analisi politica e un'"offensiva" che ci ha colti di sopresa, e di Pannella.

Francamente molto deludente, invece, la mozione finale. A parte la scelta, discutibile ma comprensibile, di sacrificare i contenuti per puntare tutto sull'obiettivo dei 5 mila iscritti, era lecito aspettarsi che la mozione indicasse almeno qualche idea sul "come" si pensa di raggiungere l'obiettivo.

Riforme. Indietro tutta

Sorpresa Forleo sulla Giustizia

In due giorni due fronti di riforme su tre fanno registrare un netto arretramento: pensioni e pubblico impiego. I ministri competenti non sanno resistere neanche 24 ore alle pressioni dei sindacati. Il ministro Damiano ha chiarito che il Governo non alzerà l'età pensionabile. Tanti saluti agli ammortizzatori e alle pensioni delle generazioni future.

Il ministro Nicolais solo ieri dichiarava al Corriere, sulla mobilità dei dipendenti pubblici: «Non è vero che è solo volontaria. In caso di riorganizzazione dell'amministrazione verrà fatta secondo criteri stabiliti sì nella contrattazione, ma automaticamente, senza bisogno di chiedere il permesso a nessuno».

Dopo le durissime repliche di tutti i Sindacati, la clamorosa marcia indietro, da andare a nascondersi: la mobilità «sarà concordata con i sindacati attraverso i contratti». Tradotto? Tutto come prima? Peggio, lo Stato delega i Sindacati alla gestione e alla organizzazione della Pubblica Amministrazione. Un mostro giuridico.

Qualche tenue schiarita, invece, sul capitolo liberalizzazioni. Dopo l'apertura di Casini, si sono aggregati (o sono stati costretti per non sentirsi scavalcati) sia Fini che Berlusconi. Bersani e Lanzillotta hanno accolto bene le aperture. Il problema è che la lenzuolata Bersani verrà tagliuzzata dalla stessa maggioranza e che difficilmente la sinistra comunista permetterà che il governo ricorra all'aiuto di settori dell'opposizione, sempre che questi siano davvero ben intenzionati a impegnarsi per le liberalizzazioni.

Sempre più necessario, dunque, il lavoro dei «volenterosi». Appuntamento a Milano il 29 gennaio.

Un drammatico incidente, che ancora una volta dimostra il fallimento della sanità pubblica, riguarda quella ragazza finita in coma, con gravi danni cerebrali, a causa di un presunto (l'Enel smentisce) black-out elettrico che avrebbe colpito l'ospedale di Vibo Valentia. Alcune apparecchiature sono rimaste spente per dodici minuti durante l'operazione di appendicite: «L'apparecchio di anestesia ed il relativo monitor, però, inspiegabilmente, non erano stati collegati alle prese del sistema di continuità, pertanto sono rimaste spenti fino all'arrivo, avvenuto dopo qualche minuto, dell'elettricista», si legge nel comunicato dell'ospedale.

Sulla Giustiza dobbiamo invece registrare l'intervento del giudice Clementina Forleo - che tanto abbiamo contestato per la sua decisione di assolvere tre terroristi definendoli "resistenti" - al convegno organizzato dagli avvocati penalisti per la separazione delle carriere. Nel frattempo, la tesi su cui si basava l'assoluzione dei terroristi è stata demolita dalla Cassazione e l'avvocato Buongiorno (An) ha rivelato di essere sua grande amica.

Non è che la Forleo è una indipendente? Ieri, la sua presa di posizione a favore della seprazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti. Ha a cuore «l'indipendenza del giudice, che in una democrazia non può essere disgiunta dalla separazione tra pm e giudice», ha spiegato, dando al concetto di indipendenza finalmente il corretto significato costituzionale: indipendenza del singolo giudice, non dell'ordine dei magistrati, come si crede comunemente. In Europa, osserva, «siamo gli unici, tranne forse la Francia, in cui il sistema processuale fondato sul rito accusatorio vede il pm collega del giudice».

Addirittura, denuncia, «nella condizione attuale un pm può scegliere il proprio giudice» e «nell'attuale quadro normativo l'appiattimento del gip sull'accusa è fortissimo».

L'altro «strumento di corruzione della giustizia» l'ha ricordato stamattina Pannella al Comitato di Radicali italiani: l'obbligatorietà del'azione penale.

Friday, January 19, 2007

Ciechi di fronte al vero militarismo

Mentre tutti sono concentrati su un dormitorio per militari americani nel vicentino, insopportabile cedimento al militarismo yankee, in pochi vedono e si preoccupano dei temibili segnali del militarismo, quello vero, che è degenerazione, e del nazionalismo cinese. La Cina stamattina è tornata a far parlare di sé. Ha effettuato con successo un test missilistico, distruggendo un proprio satellite in orbita attorno alla Terra.

Stati Uniti, Giappone e Gran Bretagna, ma anche Australia e Canada, hanno espresso forte preoccupazione e inoltrato proteste a Pechino: «Gli Stati uniti ritengono che lo sviluppo e il test di una simile arma non si accordi con lo spirito di cooperazione cui aspirano i due paesi nell'area civile dello spazio. Noi e altri Paesi abbiamo espresso le nostre preoccupazioni ai cinesi», ha dichiarato Gordon Johndroe, portavoce del Consiglio nazionale di Sicurezza americano.

Test simili per la distruzione di satelliti, da parte di Usa e Urss, risalgono alla Guerra Fredda, agli anni '80. «Questa è la prima vera esclation nella militarizzazione dello spazio degli ultimi vent'anni», ha commentato sul New York Times l'astronomo di Harvard Jonathan McDowell.

Non può non venire subito alla mente l'annosa questione dell'embargo europeo sulle armi alla Cina, per la cui revoca Pechino continua a pressare i paesi europei. Revoca da negare, dando ascolto al dissidente Wei Jingsheng, militante storico del Partito Radicale, che un mese fa è venuto a Bruxelles a letteralmente scongiurare i compagni radicali di fare tutto il possibile perché non venga revocato.

Segnali negativi anche sul fronte della libertà religiosa. Il portavoce del ministro degli Esteri cinese ha riaffermato in una conferenza stampa i due principi di base sui quali sarà possibile avviare le relazioni diplomatiche fra Pechino e Santa Sede. Il Vaticano deve interrompere i rapporti con Taiwan e riconoscere che l'isola è un'inseparabile parte del territorio cinese e il governo di Pechino unico legittimo rappresentante della Cina; inoltre, da parte vaticana non dovranno più esserci ingerenze negli affari interni cinesi, compresi quelli che riguardano la sfera religiosa.

La presa di posizione del governo cinese arriva mentre in Vaticano è in corso un vertice straordinario convocato da Benedetto XVI e presieduto dal Segretario di Stato Tarcisio Bertone proprio sulla situazione della Chiesa in Cina, anche se pare che il Papa, almeno nella prima fase dei lavori, non parteciperà direttamente.

(Fonte: Adnkronos)

Riforma degli statali, una truffa clamorosa e pericolosa

Si accontenta di una luce fioca, Pietro Ichino, ma quanto meno si accorge delle molte «ombre» della sedicente riforma degli statali. In realtà non ci vuole molto a capire che si tratta di una clamorosa truffa, con aspetti persino inquietanti. Prevedere la mobilità dei dipendenti solo se «volontaria» è come non prevederla; il personale non direttivo è esentato da ogni valutazione; la valutazione di efficienza e produttività medie riguarda le strutture, mentre non è previsto l'accertamento delle differenze, spesso enormi, di rendimento tra gli addetti migliori e i peggiori, per premiare i primi e «stanare i nullafacenti».

Dicevamo, qualche settimana fa, che dietro questo "memorandum" con i sindacati sul rinnovo dei contratti collettivi pubblici si nascondeva l'ennesima fregatura. E infatti è proprio così. La valutazione dell'efficienza e della produttività delle strutture pubbliche e dei dirigenti non è affidata ad organi indipendenti dotati di strumenti puntuali e credibili. No, la "verifica" sarà "concertata" tra le varie Amministrazioni Pubbliche e i Sindacati, senza alcuna trasparenza e pubblicità dei dati. E' un altro colossale e decisivo pericolo per la democrazia. Il rischio infatti è che si accentui in modo determinante la tendenza già in atto nel pubblico impiego per cui progrediscono in carriera, per quote, i "protetti" dei vari partiti e sindacati, mentre l'etichetta del "fannullone" verrà affibbiata agli elementi "scomodi", troppo indipendenti.

Stop allo statalismo locale

Convincente intervento di Casini oggi sul Corriere: di sfida al governo sulle riforme, in particolare le liberalizzazioni.

Ancora non si è capito, di fronte alle liberalizzazioni, se la CdL si prepara a scendere in piazza con le varie categorie, con Alemanno e Storace in testa, o se invece incalzerà il governo perché vada fino in fondo e non eluda alcun settore. Casini pare che abbia deciso, a partire dal «cuore del problema: i monopoli pubblici locali di aziende ex municipalizzate, specie comunali», che gestiscono tuttora settori strategici come l'energia, il gas, l'acqua e i trasporti, ma anche l'edilizia e i servizi.
«Negli ultimi cinque anni, come risulta da una ricerca del Sole 24Ore, le società a partecipazione comunale sono aumentate del 120%. Sono ancora troppi i mercati da liberalizzare e le imprese pubbliche da privatizzare. Gli anni '90 ci hanno insegnato che privatizzare senza liberalizzare porta solo a sostituire i monopoli pubblici con monopoli privati, alimentando ampie posizioni di rendita e di potere».
Falliti i tentativi di statalizzare a livello nazionale, da anni i Comuni, molti dei quali governati dalla sinistra, ma non solo, hanno avviato un processo di statalizzazione a livello locale a cui è ora di porre fine.

UPDATE: Fini, che non è stupido, segue Casini: «Ha detto delle cose molto condivisibili ma al momento c'è solo un'ipotesi di liberalizzazioni. Vediamo di cosa si parla e vedremo come comportarci»

I Radicali tornino a rappresentare una «proposta generale» di riforma

Pannella e Capezzone durante una conferenza stampa di qualche anno faSu L'Opinione di oggi:

Dove va, e cosa fa, Radicali italiani? E' la domanda che l'ex segretario Daniele Capezzone ha rivolto al Comitato nazionale di fine anno. Domanda «lunare», ha replicato Rita Bernardini: «Sappiamo tutti che senza iscrizioni chiudiamo».

Solo gli strascichi di un congresso dal clima avvelenato possono far apparire come contrapposte due istanze entrambe fondate che richiedono soluzioni da far camminare insieme sostenendosi l'un l'altra. Il rilancio, dal punto di vista economico e delle energie umane, del soggetto politico si consegue sia con una mobilitazione permanente ed eccezionale sulle iscrizioni, sia precisando il profilo e il cammino politico del partito che si chiede di sostenere.

Con l'iniziativa nonviolenta, prima per salvare Saddam, poi per la moratoria della pena di morte, Pannella non ha «astutamente colto al volo», come qualcuno ha scritto su il Giornale, l'occasione per distrarre dalle grandi difficoltà della presenza dei radicali nella maggioranza e nei rapporti con il governo. Non è un calcolo che appartiene alla storia e alla prassi di Pannella. Piuttosto, questo sì, a fronte di iniziative di successo, come quella di Piergiorgio Welby e quella per la moratoria, che ha il merito di aver scrollato il governo dalla sua posizione attendista avvicinandoci a un risultato storico, rimane inevaso il nodo del ruolo politico dei radicali nella maggioranza e al governo. Ruolo che a tutt'oggi rimane un oggetto misterioso agli stessi elettori e militanti radicali, imprigionato com'è nella lealtà a Prodi e in una Rosa nel Pugno che esiste solo in aula, nelle mani del capogruppo Roberto Villetti.

Intervenendo a una Direzione di qualche settimana fa il ministro Emma Bonino ha denunciato un «disagio quasi insostenibile». Dalla politica estera a quella economica, dai diritti civili alla laicità. «Non c'è niente nel merito – del metodo non ne parliamo – della nostra visione: ogni giorno mi chiedo "ma io che cazzo ci sto a fare"? Nessuno vuole fare sponda con i radicali». Un grido d'allarme che però non ha suscitato un gran dibattito.

A sentire le riunioni dei vertici del partito, la formula dei «buoni a niente», con la quale in modo così calzante si etichetta il Governo dell'Unione per spiegare che quando si è accettato di appoggiare Prodi si sapeva che si avrebbe avuto a che fare con dei «buoni a niente», e quindi che oggi «non si è delusi perché non ci si era illusi», rischia di divenire un alibi dietro il quale rassegnarsi alla propria irrilevanza.

Ma i radicali sono in Parlamento, e addirittura, per la prima volta, al Governo! Non possono permettersi di allargare le braccia e volgere lo sguardo altrove perché contano poco e non c'è da aspettarsi nulla di buono dal Governo, lasciando isolati in attacco due centravanti del peso e del coraggio di Bonino e Capezzone. Se non altro perché agli elettori suona strano sentir dire che Prodi «non può essere l'alternativa», ma che «deve durare comunque». «La durata è la forma delle cose», ma a volte di cose orribili.

Occorre trasmettere con la propria presenza parlamentare e governativa non l'impegno su tante singole issues, ma un'idea complessiva di riforma profonda e liberale di stampo anglo-americano: delle istituzioni, dell'economia, della giustizia, della società. Come si fa, per esempio, a snobbare la Finanziaria più «di regime» che sia stata fatta negli ultimi vent'anni, più depressiva per la realtà sociale di milioni di persone, e a non vedere in essa il più formidabile dei volani dei costi della politica, quei costi che fanno di anno in anno scivolare l'Italia nell'Indice della libertà economica, oggi dopo Namibia, Belize, Slovenia, Kuwait e Uganda? Come si fa, sulla legge elettorale e sulla scuola e l'università, a lasciare campo libero a Villetti? E come si fa a ignorare una politica estera ambigua e cinica, e l'apertura di Prodi sulla revoca dell'embargo delle armi europee alla Cina, quando il dissidente Wei Jingsheng, militante storico del Partito Radicale, è venuto un mese fa a Bruxelles a letteralmente scongiurare i compagni radicali di fare tutto il possibile perché non venga revocato?

Non che alcune battaglie o convinzioni siano in questi anni state abbandonate, ma i radicali, proprio oggi che sono nelle istituzioni, non riescono a vedere, e quindi neanche a comunicare, la visione d'insieme. Ciò di cui in un recente articolo ha parlato Biagio de Giovanni: quella politica che «si confonde con la vita», che è «la forza del radicalismo italiano», è anche la sua «debolezza»: si basa sulla carica dirompente, ma momentanea, di quelle «occasioni estreme» che proclamano il superamento di forme vecchie e stanche, ma è incapace della «proposta generale». Quando i radicali furono capaci di una «proposta generale» riuscirono a raccogliere nel '93 oltre 40 mila iscrizioni e nel '99 l'8,5% dei voti. E' in questa incapacità che confida il "regime" nel tenere sotto controllo l'intemperanza radicale. D'altra parte, mentre conquistavamo il divorzio e l'aborto si stava di fatto socializzando l'economia e dilatando a dismisura il debito pubblico, ponendo le basi per il definitivo rafforzamento del regime partitocratico. Così oggi forse conquisteremo i Pacs, mentre Prodi e Padoa Schioppa continuano a riempire il sacco.

E ai vertici del partito c'è chi, come Gianfranco Spadaccia, leader storico, vorrebbe vedere liquidata l'esperienza degli anni '90, proprio oggi che stanno maturando le condizioni per quelle battaglie di riforma economica e sociale che i radicali in quegli anni, in solitudine, impostarono con i loro referendum. Dieci anni fa erano impensabili gli editoriali dei Giavazzi, degli Ichino, dei Nicola Rossi, le relazioni di Monti e Draghi. Non è il momento di passare il testimone, semmai di mettersi in testa al gruppo.

In questo centrosinistra statalista e dirigista, punitivo nei confronti dell'impresa, ma anche del lavoro, per i radicali l'occasione è d'oro per porsi come interlocutori di quel mondo produttivo già deluso, che non trova rappresentanza neanche nei vertici di Confindustria. Oggi si può fare appello al "Terzo Stato" dei produttori medi e piccoli (non assistiti come lo è la Grande Industria) e degli "outsider", respinti da un assetto burocratico-corporativo in cui sono sempre i soliti privilegiati e parassiti a dividersi il bottino della spesa pubblica.

Invece, ci tocca sentire Spadaccia che va all'attacco dei contratti atipici, difende i concorsi pubblici, invoca nuove assunzioni nel pubblico impiego, assolve la Finanziaria. Ci dice che non gli piace questa sinistra di D'Alema, Fassino, Rutelli e Prodi, ma, aggiunge, «se vado alle feste dell'Unità e di Liberazione, là mi sento a casa mia, è il mio popolo. Lì sono riconosciuto e lì riconosco». Siamo dunque alla politica dell'"annusarsi" tra simili, quando proprio i radicali ci hanno insegnato che a partire dai contenuti si trovano i compagni di strada per le proprie battaglie? Cosa si sarebbe detto di Benedetto Della Vedova se avesse parlato in questi termini delle feste della Lega o di Forza Italia? Se un partito d'opinione non si dà come missione quella di parlare a tutti i settori dell'opinione pubblica ha poche speranze di aumentare le iscrizioni.

«Noi ci riconosciamo al 100%» nelle proposte dei «volenterosi», ha ripetuto ultimamente Pannella a Radio Radicale. Di più, «neanche a dirlo, basta guardare i nostri referendum, i 40 anni di nostra politica». Incontestabile, ma allora, come mai un certo fastidio per l'iniziativa dei «volenterosi» è tangibile? Perché in Direzione Pannella ammette che Capezzone «può fare molti danni», e lancia durissime accuse: è «bravissimo a raccontare balle, a ingannare, a mentire costantemente». Dopo cinque anni se ne accorge?

Non è solo, ormai, una questione personale, c'è anche l'evidenza di due linee politiche al momento divergenti. E' vero, sulle riforme economiche tutti d'accordo, ma ci sono due strategie diverse rispetto a "come" si sta nella maggioranza e al Governo, è inutile negarlo, e sarebbe stato più corretto che si fossero confrontate al Congresso di Padova, mentre si è preferito personalizzare lo scontro. Da una parte i «volenterosi» pongono al Governo un terreno di sfida per le riforme il cui effetto destabilizzante sulle sorti dell'Esecutivo dipende, in ultima istanza, da Prodi stesso, che può raccogliere, o sfuggire, costringendo i riformatori a volgersi altrove. E l'ambiguità della posizione dell'ex segretario radicale è per lo meno al 50% determinata dall'ostilità che riscontra all'interno dei vertici del suo partito, da Pannella in primis: più è messo alla porta, più inevitabilmente circolano le voci sulla sua prossima destinazione.

Dall'altra, per il leader radicale il Governo Prodi «deve comunque essere aiutato a durare». Il disagio da parte di Pannella è comprensibile. I contenuti del manifesto dei «volenterosi» fanno parte della storia radicale, ma paradossalmente non può aderirvi perché ha scelto un altro metodo nei rapporti con Prodi. Tuttavia, non si può pretendere che altri non calchino una linea politica che per il momento si è deciso di non calcare. Da una parte, l'approccio è da spina nel fianco, dall'altra da ultimo giapponese. Ricordando che l'ultimo giapponese, Shoichi Yokoi, ha atteso 27 anni prima di uscire dalla giungla.

Thursday, January 18, 2007

Perché la guerra al «totalitarismo islamico» durerà ancora

Uno dei migliori articoli scritti negli ultimi tempi è questo di Stefano Magni (Oggettivista) per L'Opinione. Riporta la tesi, nel libro "The Jihad Against the West, the Real Threat and the Right Response", edito dall'Ayn Rand Institute, di un saggio dello storico John D. Lewis, che «tenta di fornire una risposta culturale» al perché 5 anni e mezzo dopo l'11 settembre la guerra degli Stati Uniti al «movimento totalitario islamico» non accenna a finire, mentre tre anni e otto mesi dopo Pearl Harbour il Giappone era vinto.

La causa è in una «mentalità imperante nella società, nei media, tra gli intellettuali e tra i politici (anche tra i "guerrafondai" di destra)», che considera «immorali i metodi di una strategia che punti alla distruzione decisiva del nemico». Anche la guerra in Iraq del 2003, pur condotta da «un presidente di destra sostenuto da "falchi" neoconservatori, è stata combattuta secondo i criteri della "guerra giusta"», cioè minimizzando, e disperdendo su fronti secondari, la forza d'urto della campagna militare, invece di puntare all'annientamento del nemico. Il problema, culturale, quasi antropologico diremmo, è che «non si prende nemmeno in considerazione di condannare e combattere l'ideologia del nemico».
«Sono soprattutto questi i motivi culturali che frenano gli Stati Uniti dal fare con l'Iran, origine e centro politico del totalitarismo islamico, quello che è stato fatto con i giapponesi: annientare le loro forze armate, distruggere il loro potenziale industriale, imporre una resa incondizionata, applicare una nuova legge e una nuova costituzione scritte dai vincitori, ricreare un nuovo sistema educativo che elimini qualsiasi incitamento alla guerra e alla violenza religiosa, controllare i media per lo stesso motivo, privatizzare le loro risorse naturali e frammentare i loro cartelli economici. E soprattutto: porre fine a qualsiasi sostegno statale alla loro religione, spezzando così qualsiasi legame tra Stato e religione. Tutto questo gli americani lo poterono fare nel 1945. Oggi, solo elencare e leggere queste misure fa venire i brividi a chiunque sia cresciuto nella nostra civiltà post-moderna, che è allo stesso tempo pragmatica e altruista».
Da leggere assolutamente.

Gli strani contestatori di Padoa Schioppa... e di Prodi

Prodi = Zapatero, lo striscione (Foto: Corriere.it)L'Italia è un paese strano, in cui la parte più chiassosa, ma minoritaria, riesce a inscenare una protesta dai modi violenti all'indirizzo del ministro dell'Economia, Padoa Schioppa, per i motivi esattamente opposti a quelli per cui meriterebbe dei composti fischi. «Giù le mani dalle pensioni!»; «Ministro taglia tutto!». Magari avesse «tagliato» un po' di spesa pubblica e riformato le pensioni. Proprio i giovani avrebbero più possibilità di avere in futuro una pensione dignitosa.

Collettivi universitari? Studenti? Ma siamo sicuri? Quanti ce n'erano davvero? Uno studente contesterebbe un ministro che se la prende con i prof. che non si presentano a lezione e all'orario di ricevimento? Le università stanno sviluppando al loro interno, da anni (alimentati dall'esterno), dei professionisti della contestazione violenta. La gran parte degli studenti, quelli per cui andare all'università è davvero un sacrificio - e che non sono "parcheggiati" giocando a fare i rivoluzionari con le spalle coperte da papà - continuano a studiare, ostacolati da un sistema inefficiente fatto su misura per i privilegiati, quelli dietro alle cattedre e quelli davanti con in mano i petardi.

Ho sempre pensato che gli studenti dovessero manifestare contro i loro rettori e i loro docenti scrocca-pagnotta, non contro i ministri che di volta in volta cercano di introdurre elementi di efficienza e concorrenza nel mondo universitario. E non Padoa Schioppa quando dichiara di voler contrastare «le rendite, come quelle del titolare di cattedra che da anni non fa ricerca e non c'è mai per gli studenti». E poi - appello ai media - questa «sinistra radicale» vogliamo chiamarla con il vero nome che essa stessa si è data: «comunista»?

Sull'altro fronte, strani anche i contestatori di Prodi. Lievemente più civili i militanti di An: solo fischi e cori. «Chi non salta comunista è, è!». Eppure, conservatori quanto i loro colleghi comunisti: «Prodi uguale Zapatero... No pacs», si leggeva in uno striscione. Come loro dimostrano uno sguardo reso strabico dalla propaganda: Prodi = Zapatero? Sembrano proprio i giovani "de sinistra", quando accusavano Berlusconi di thatcherismo. Peccato che né Berlusconi ha fatto la Thatcher, né Prodi somiglia a Zapatero, né in economia, né sui diritti civili. Forse in politica estera. Con questi qui si regredisce.

Al Maliki ha imparato presto

Il premier iracheno, intervistato dal Corriere, dimostra di aver imparato presto le regole base della comunicazione con i media e le opinioni pubbliche europee: dare addosso a Bush e agli Stati Uniti paga sempre. Con abile capovolgimento delle situazioni ritorce le accuse di debolezza - evidente - del suo governo, che non ha il controllo del territorio né riesce, cosa più grave, a esercitare la guida politica, sulla Casa Bianca, la cui debolezza, se c'è, dipende da dinamiche fisiologiche e momentanee in democrazia.
«Mi sembra che Bush stia capitolando sotto il peso delle pressioni interne, è soverchiato dai media e dai politici. Forse ha perso il controllo della situazione... capisco anche che l'attuale amministrazione americana si trovi in gravi difficoltà dopo la sconfitta elettorale di due mesi fa. Mai come oggi ho avvertito la debolezza di George Bush. Mi sembra che agli sgoccioli siano loro a Washington e non noi qui a Bagdad».
E oggi i lettori avranno avuto l'impressione di un governo, quello iracheno da lui guidato, in balìa degli errori di Bush.
«... la situazione sarebbe di gran lunga migliore se gli Stati Uniti avessero mandato subito alle nostre forze dell'ordine armi ed equipaggiamenti più adeguati. Se si fossero impegnati di più e con maggiore velocità...»
Eppure, le responsabilità di al Maliki sono gravi: il ritardo nell'addestramento delle forze irachene, nel garantire la sicurezza e nella ricostruzione del paese; il mancato accordo sulla suddivisione dei profitti del petrolio; ma soprattutto lo scarso successo nel far rientrare i sunniti nel processo politico e la tolleranza - in vero ai limiti della complicità - delle milizie sciite filo-iraniane di al Sadr.

Di contrasti con l'amministrazione Usa ce ne sono, su tutti questi temi e anche sulle modalità dell'esecuzione di Saddam. Ma poi a parole al Maliki sembra orientarsi ad aderire al cambio di strategia di Washington: promette di «dare la caccia a tutte le milizie, senza distinzione alcuna.
Non ci saranno discriminazioni o preferenze. Qualsiasi gruppo armato verrà perseguitato: che sia sunnita, sciita o curdo. Colpiremo in ogni luogo, qualsiasi base, ogni gruppo. La legge sarà uguale per tutti e lo Stato deve avere il monopolio della forza... Questo è il nostro piano: fare la guerra al terrorismo. Sempre e comunque...»
Lo vedremo presto, visto che una delle prime missioni dei soldati inviati a Baghdad al Pentagono sarà proprio quello di togliere all'esercito del Mahdi il controllo di Sadr City.

Fin che la Bonino va...

E' vero, c'è questo sondaggio molto lusinghiero. Emma Bonino è al secondo posto tra i ministri che godono di maggiore fiducia presso l'opinione pubblica (58%). Sì, potrebbe far meglio, ma sta lavorando bene. Per avere quella buona copertura della missione a New York deve avere proprio impressionato.

Nella classifica ho notato però che sono più in alto i ministri il cui lavoro è più in ombra, e quindi meno esposto a critiche. Al di là di D'Alema, che agli Esteri con cinismo intercetta l'animus profondo della sinistra: anti-americano senza rozzezze alla Diliberto.

La Rosa nel Pugno, si felicita Malvino, nonostante tutto perde «solo» lo 0,3%. Solo? A parte che per i partiti piccoli i sondaggi sono ancora più imprecisi, su un dato nazionale del 2,6% perdere lo 0,3% è oltre il 10%. Come se un partito da 20% andasse a 18 e uno da 25 a 22,5%. Insomma...

Che l'iniziativa di Pannella per la moratoria, non quella per salvare Saddam, abbia ottenuto dei significativi risultati, mobilitando Governo Prodi e Unione europea, è indiscutibile, ma francamente non si può dire che sia stato accolto «nella strafottenza dei media» e «tra i soliti sberleffi». Nello «sberleffo» mi sono sentito piuttosto isolato. Per una volta, invece, il sostegno dei main stream media e dei ben pensanti è stato totale e unanime. Rispetto a questi, il leader radicale ha il merito di fare davvero le battaglie che altri fanno solo a parole, comodamente dai loro divani, ma che non sia stato preso sul serio questa volta non si può dire.

Wednesday, January 17, 2007

D'Alema colpito nel vivo prende subito d'acido

Alle domande, per niente peregrine o provocatorie, che gli sono state poste in questa intervista per La Stampa ha risposto sfuggendo continuamente. Non esiste nessun problema: né in politica estera, né sulle riforme, né nei Ds. E' solo propaganda contro-rivoluzionaria. E quelli che se ne vanno? Tutti «compagni che sbagliano»? Traditori. Chiaro che si trovi bene con certi ceffi che incontra all'estero.

Il Sindaco Giuliani in Italia

In questi giorni il celebre ex sindaco di New York, Rudolph Giuliani, tra i probabili candidati alle primarie repubblicane per la presidenza, è in visita in Italia. Riprendiamo alcune sue dichiarazioni.

Molto diplomatico con il Governo Prodi:
«Romano Prodi è vicino agli Stati Uniti: il fatto di non opporsi all'ampliamento della base militare di Vicenza ne è la prova... Credo che Romano Prodi sarà presto ricevuto alla Casa Bianca a prescindere dalla decisione di non opporsi alla base di Vicenza perché l'Italia e gli Stati Uniti sono comunque ottimi amici e grandi alleati. E' ovvio che questa decisione avvicinerà ancora di più i nostri due paesi».
(Fonte: la Repubblica)

Chissà se di fronte a un rifiuto all'ampliamento della base sarebbe stato così friendly. Ci permettiamo di dubitare.

Nessuna crisi tra Italia e Stati Uniti:
«Non vedo grandi differenze nelle nostre relazioni, con governi diversi abbiamo problemi diversi. I nostri rapporti sono tanto forti da sopportare bene eventuali disaccordi su qualche tema. Tra alleati, a volte queste cose capitano: sono cose che accadono nelle democrazie, e il bello delle democrazie è che se non si è d'accordo non ci si fa la guerra».
Giuliani, come McCain, sostiene il nuovo piano di Bush per l'Iraq:
«Penso che il piano sia giusto. Non bisogna cedere alla tentazione di lasciare l'Iraq troppo in fretta, per paura della perdita di vite umane. In passato nella nostra strategia sono stati fatti degli errori, certamente, ma la cacciata dal potere di Saddam Hussein è stato un passo molto importante. Ora è necessario fare di tutto per rendere il Paese sicuro è stabile: è molto difficile che la democrazia possa svilupparsi tra le violenze. Di una cosa sono sicuro: non possiamo ancora lasciare soli gli iracheni: in questo modo aumenterebbe il pericolo per tutti».
Si dice favorevole alla pena di morte in casi "estremi" (attentati terroristici, l'uccisione di poliziotti, efferati serial killer, a proposito dei quali la prova è assolutamente certa), ma non pensa che l'iniziativa italiana per la moratoria Onu possa essere percepita com ostile agli Stati Uniti, anche perché in America ci sono tante persone che sono contrarie alla pena capitale: «E' un tema che divide l'opinione pubblica».
(Fonte: La Stampa)

Auguri caro Sindaco.

Bonino d'America

Pare che Emma Bonino, ieri, in missione commerciale negli Stati Uniti, a New York, nell'esclusiva sede del Raquet & Tennis club nel cuore di Manhattan, abbia sfoggiato un impeccabile inglese e una rara padronanza della materia, riuscendo nella difficile opera di difendere gli interessi nazionali senza vendere illusioni agli investitori americani sulla reale situazione del paese, il «rischio Italia», ma riuscendo persino a trasmettere un po' di fiducia. Speriamo solo che il Governo Prodi non sconfessi le sue parole e non dissipi questa buona semina.

Sole 24 Ore e Corriere ne hanno parlato positivamente.